Il TAR riesuma la controfigura del CNPI
Enrico Caruso – Inno di Garibaldi
Il TAR del Lazio, che da un po’ di anni ha in reggenza il MIUR, ha accolto il ricorso della CGIL-scuola, pardon, del Sindacato dei lavoratori della conoscenza, e ha imposto alla sede distaccata di Viale Trastevere di riportare in vita un provvedimento sepolto da 15 anni, il D.lgs 233/99, Riforma degli organi collegiali territoriali della scuola, mai attuato e mai abrogato.
Il Sindacato della conoscenza non è ancora riuscito ad elaborare il lutto del CNPI, a cui è stata staccata definitivamente la spina il 31 dicembre 2012, dopo ripetute, prolungate fasi di rianimazione.
Per colmare il vuoto del caro estinto, inascoltati gli appelli rivolti al Ministro di turno, la CGIL è ricorsa al TAR, chiedendo di riesumare il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, il mostriciattolo di paternità berlingueriana, ibernato nel secolo scorso, ma vivo nel grande cuore del Sindacato della conoscenza, perché si sa “ogni scarrafone è bello a mamma sua”.
La missione ha avuto successo. Entro 60 giorni (a partire dal 15/10/2013) la cara salma dovrà risorgere, se l’operazione dovesse fallire, interverrà, con poteri sovrannaturali, un commissario ad acta.
Ma che cos’è questo provvedimento uscito dalla tomba e risorto? Ne parliamo con Rosario Drago.
[stextbox id=”info” mleft=”150″ mright=”150″ image=”null”]Intervista a Rosario Drago[/stextbox]
La CGIL ha vinto un’altra battaglia non con la contrattazione ma con il ricorso al solito Tar, che ormai è diventato la sede principale dove si fanno e si disfano leggi e regolamenti, dove si decidono le sorti di questa o quelle categoria pubblica e privata, dove si fanno anche le “riforme” che i politici non sanno o non vogliono fare.
È di oggi la notizia che il Tar ha imposto alla nostra amministrazione, sempre distratta, di attuare una vecchia disposizione sugli organi collegiali territoriali (D.lgs 233/99), varata prima della riforma del Titolo V della Costituzione, prima del riconoscimento costituzionale dell’autonomia delle scuole… e dopo che tutti i vecchi organi collegiali erano caduti in uno stato comatoso. Da dove partiamo a commentare questa decisione?
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Direi che è doveroso un cenno ai cari estinti, gli Organi Collegiali varati nel 1974:
– i Consigli scolastici distrettuali, una delle grandi illusioni della “programmazione scolastica” degli anni ’70, già venuti meno per la pletoricità della composizione e per il vuoto assoluto di qualsiasi funzione operativa. Alla fine, privati poi delle sedi, dell’arredo e del telefono, del personale di servizio (compresi i bidelli), si facevano sentire solo nelle riunioni di alcuni nostalgici ma rumorosi presidenti orfani della cadrega ovvero della poltrona;
– i Consigli scolastici provinciali, diventati un intralcio a qualsiasi decisione burocratica, non riuscivano nemmeno più a convocarsi validamente per l’assenteismo delle componenti più “prestigiose” (in primis i rappresentanti degli enti locali e dei genitori);
– infine, il Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione ha vivacchiato in un lungo e poco decoroso regime di prorogatio, e, comunque la scuola attiva non ne ha mai sentito né la necessità nè l’utilità, a parte, fino a qualche anno fa, il contenzioso disciplinare e la mobilità del personale.
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In questo paesaggio non certo esaltante, ritorna in vita, quattordici anni dopo, il vecchio Decreto legislativo del 30 giugno 1999, n. 233 sulla “Riforma degli organi collegiali territoriali della scuola, a norma dell’articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n.59”.
Confermati di fatto i “provveditorati”, moltiplicate le direzioni generali (da 7 a più di 40), inattuata la decentralizzazione, bloccata ai nastri di partenza – o quasi – l’autonomia delle scuole, istituita la dirigenza scolastica con forti caratteristiche amministrative, impedito dai veti incrociati qualsiasi aggiornamento della gestione interna degli istituti, e via centralizzando, era proprio necessario resuscitare questo vecchio arnese “di supporto e garanzia dell’unitarietà del sistema nazionale di istruzione (art.2)”?
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Per trovare una qualche spiegazione razionale bisogna fare qualche passo indietro.
Il modello degli organi collegiali territoriali rappresenta un pezzo di archeologia amministrativa inventato da Casati con la sua riforma della scuola (1859), confermato con qualche incertezza dal Fascismo, e potenziato fino alla parossismo dalla prima Repubblica con l’istituzione di una diffusa rete di organi che, attraversando scuole e istituti di ogni ordine e grado, passando per il Distretto e la Provincia, arrivavano fino al Centro dell’impero ministeriale con il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, il CNPI. Come sosteneva Sabino Cassese anni fa “sembra che la scuola non sappia reggersi da sé, ha sempre avuto bisogno di una stampella”.
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In sostanza, qual era lo scopo di questi organi?
Intendo dire qual era l’idea di amministrazione che li sosteneva.
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Era quello che in termine tecnico si chiama ”partecipazione all’atto amministrativo”. In sostanza, la burocrazia, quella scolastica in primo luogo, non doveva restare sola nelle decisioni attuative di leggi, regolamenti o di un qualsiasi altro provvedimento, ma doveva chiedere il controllo, il conforto, il sostegno o la consulenza delle componenti “laiche” interne (il personale) o esterne al sistema ministeriale.
Quella non nuova impostazione (almeno per l’amministrazione dell’istruzione) di “partecipazione amministrativa”, è stata esaltata con la privatizzazione del rapporto di lavoro (D.lgs 29/93), che, per le pubbliche amministrazioni ha significato una profonda ed estesa contrattualizzazione (compresa l’informazione preventiva e successiva) di tutti gli atti ministeriali e dirigenziali e, infine, l’istituzione obbligatoria delle rappresentanze sindacali unitarie, RSU, in ciascuna delle migliaia di aziende, servizi e istituzioni pubbliche sia centrali che periferiche, comprese le circa 8.000 istituzioni scolastiche italiane.
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Quale pensi sia stata la principale ragione del fallimento di questo modello partecipativo?
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La partecipazione si è presto trasformata in una diffusa collusione tra organi sindacali e dirigenza burocratica, spesso a danno dei cittadini e dell’efficienza dei servizi. Eppure la cultura giuridica ha cercato – già a partire dagli anni Ottanta – di sostituire il vecchio modello di partecipazione con strumenti più moderni e funzionali attraverso una fitta legislazione – non sempre efficace – a partire dalla legge 241/90 che ha esteso l’istituto della partecipazione alla generalità dei procedimenti amministrativi, introducendovi il principio del “giusto procedimento», in forza del quale la definizione del pubblico interesse deve avvenire (anche) attraverso il contraddittorio con i portatori dei contrapposti interessi coinvolti dall’esercizio del potere pubblico.
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E poi sono venuti altri provvedimenti sulla trasparenza, sulla semplificazione delle procedure burocratiche, sulla Carta dei servizi, sulla riservatezza, a cui doveva fare da logica cornice anche il potenziamento – e l’incoraggiamento – dell’associazionismo dei “consumatori”, il tutto fondato su una lettura dei diritti del cittadino inteso come “cittadino utente” del servizio pubblico.
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Per l’appunto, ma il “cittadino”, come si sa, non è fondamento della Repubblica. La nostra sarà anche la “più bella costituzione del mondo”, ma, in alcune parti, sembra piuttosto una bella signora che dimostra molti di più dei suoi 66 anni di età.
La falsa equazione tra “cittadino” e “lavoratore” è il presupposto “culturale” per cui il Sindacato nelle sue varie espressioni è venuto ad occupare un ruolo surrogatorio di tutte o quasi le forme di “tutela” dei cittadini, non solo in quanto dipendenti, ma anche come utenti, consumatori, clienti, fino al paradosso – ad esempio – di un CGIL scuola che organizza il sindacato degli studenti (Unione degli studenti, oggi solo di “ispirazione sindacale”), o ai tre sindacati maggiori che forniscono a milioni di cittadini, in regime di quasi monopolio, servizi di patronato.
In sostanza, il Sindacato per la debolezza del sistema politico, delle istituzioni e della burocrazia ha occupato uno spazio spropositato godendo dei frutti di un pregiudizio positivo di rappresentanza universale…. senza però una corrispettiva responsabilità né politica (elettorale), né giuridica (la registrazione prevista dall’art.39 della Costituzione)
Ma non gli basta.
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Già, non gli basta. Torniamo da dove siamo partiti: la morte del CNPI e la riesumazione del D.lgs 233/99, Riforma degli organi collegiali territoriali della scuola, a componente maggioritaria palesemente corporativa. In questo decreto, peraltro, il personale ha una schiacciante maggioranza in tutti gli organi, da quello nazionale, Il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, a quelli distribuiti sul territorio, a livello regionale e “locale”, con la funzione di esprimere pareri obbligatori su tutto; comunque, con una evidente ruolo invasivo sull’autonomia delle istituzioni scolastiche e sui compiti delegati alle Regioni ed agli enti locali. Che dire?
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Alcune domande – retoriche – si impongono:
a) Ha senso prevedere pareri obbligatori dei dipendenti (intendesi sindacalisti) “… sugli indirizzi in materia di definizione delle politiche del personale della scuola” (art.2. co.2); quando funziona la fitta trama della RSU e i cinque livelli di contrattazione nazionale Aran, ministeriale, regionale, provinciale e di istituto? … e anche (ibidem, lett. c) “sulla quota nazionale dei curricoli dei diversi tipi e indirizzi di studio”; quando il sindacato gode di un controllo totale sugli organici, tanto da aver impedito con successo qualsiasi attuazione del curricolo dell’autonomia, dell’inserimento di discipline opzionali, della gestione efficace della flessibilità del curricolo?
b) E ancora: che senso ha la rappresentanza maggioritaria di tutto il personale della scuola, quando il Sindacato ha il controllo quotidiano (e il veto) su tutto quello che avviene nella scuola attraverso le RSU, la contrattazione obbligatoria e la cogestione “sull’organizzazione generale dell’istruzione” (ibidem, co.2. lett. d) ad ogni livello dell’amministrazione?
c) E che cosa ci fanno i tre esponenti della Conferenza unificata Stato-Regioni (art.2 co.5), come ospiti di un Consiglio che ignora le nuove competenze esclusive delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale o concorrenti in materia di istruzione?
d) Come si concilia l’autonomia delle istituzioni scolastiche “costituzionalmente garantita” con il fatto che il Consiglio regionale dell’Istruzione “esprime parerei obbligatori in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, di attuazione delle innovazioni ordinamentali, di distribuzione dell’offerta formativa e di integrazione tra istruzione e formazione professionale, …” (art.4.co.1) senza la voce delle istituzioni scolastiche in quanto tali, i cui interessi vengono confusi con quelli del personale che vi lavora?
d) Che senso ha il parere obbligatorio di un Consiglio esplicitamente corporativo “sul reclutamento e mobilità del personale e di attuazione degli organici funzionali di istituto” (art.4.co.1), quando era esclusa già dalla legge 421/92 ogni interferenza “di parte”’; per cui ancora una volta si confonde l’interesse legittimo dei “privati lavoratori” con quello di una pubblica istituzione come la scuola?
e) Qual è il ruolo dei consigli scolastici locali, se non si tiene conto delle ragioni del palese fallimento dei Consigli scolastici distrettuali, tra le quali la principale è stata la persistenza e la consistenza dei poteri e delle funzioni dell’amministrazione statale periferica? Appare vuota retorica l’elenco che qui viene ancora una volta ripetuto con una ostinata pigrizia: I consigli scolastici locali “hanno competenza consultive e propositive nei confronti dell’amministrazione scolastica periferica e delle istituzioni scolastiche autonome in merito all’attuazione dell’autonomia, all’organizzazione scolastica sul territorio di riferimento, all’edilizia scolastica, alla circolazione delle informazioni sul territorio, alle reti di scuole, all’informatizzazione, alla distribuzione dell’offerta formativa, all’educazione permanente, all’orientamento, alla continuità tra i vari cicli di istruzione, all’integrazione degli alunni con handicap, all’attuazione del diritto alla studio, all’adempimento dell’obbligo di istruzione e formazione, al monitoraggio dei bisogni formativi sul territorio, al censimento delle opportunità culturali e sportive ai giovani” (art.5 co.2). Per sbrigare questi pareri quanti funzionari dovranno sedere permanentemente in consiglio a discutere, studiare, consultare, predisporre atti e deliberazioni attese con ansia dalle amministrazioni interessate?
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Manca qualcosa? Anche la mia sarebbe una domanda retorica…….
Diciamo che vorrei dare definitiva sepoltura a questi zombi, e immaginare nuovi organismi in grado di aiutare le scuole a crescere. Vorrei ridisegnare gli organi collegiali, in coerenza con le competenze assegnate alle Regioni dal Titolo V della Costituzione e, soprattutto, con il riconoscimento esplicito che la Costituzione assegna all’autonomia delle scuole. Vorrei guardare al futuro, insomma. Tante volte, in realtà, l’abbiamo fatto, anche poco più di un anno fa a commento delle Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche statali, varate il 28 marzo 2012 dalla VII Commissione Cultura della Camera con l’accordo di tutte le forze politiche che sostenevano il Governo Monti, metamorfosi “unitaria” del progetto Aprea. Norme anch’esse accantonate come i tanti progetti sugli OOCC che in questi anni sono approdati in qualche anfratto del Parlamento.
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…Mi inviti a nozze! Che si dovrebbe fare, mi chiedi? Ecco alcune questioni cruciali:
– liberare gli organi collegiali territoriali da ogni competenza in merito alla gestione del personale (mobilità, disciplina, ecc.), assicurata dalla rete delle rappresentanze sindacali e dalla stretta maglia delle relazioni contrattuali a tutti i livelli del sistema. Organismi come i consigli scolastici provinciali e lo stesso Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione debbono essere cancellati;
– istituire organismi coerenti con la decentralizzazione prevista dalla Costituzione, alle Regioni, agli EELL e alle istituzioni scolastiche autonome. Alla luce delle evidenti difficoltà decisionali della politica e del conseguente immobilismo degli ultimi anni, nonchè della palese necessità di riempire vuoti istituzionali, che rischiano di disgregare il sistema delle scuole autonome, è urgente riflettere sulla necessità di:
- istituire una Conferenza permanente degli assessori regionali all’istruzione e alla formazione professionale (un po’ come la Ständige Konferenz der Kulturminister der Länder in der Bundesrepublik Deutschlands,Conferenza permanente dei ministri dell’Educazione e degli Affari Culturali dei Länder nella Repubblica Federale tedesca), che dovrebbe essere l’interlocutore organizzato delle politiche nazionali dell’istruzione e formazione. In questa fase dovrebbe finalmente dare corso alla decentralizzazione delle competenze in materia di istruzione prevista dall’art.28, comma 4, del decreto legislativo 226/2005, che è in stallo da 8 anni. L’ ultimo tentativo di accordo Stato-Regioni per l’applicazione del Titolo V in materia di istruzione è stato del 19 giugno 2012;
- creare un organismo tecnico permanente per l’elaborazione dei curricoli nazionali e la definizione degli standard di funzionamento delle istituzioni scolastiche, che potrebbe finalmente costituire una guida all’azione amministrativa delle regioni e, nello stesso tempo, impedire derive mercantilistiche che danneggiano e disorientano l’utenza;
- infine prevedere la costituzione di un organismo regionale rappresentativo delle istituzioni scolastiche autonome (non delle classiche componenti, insegnanti, ATA, studenti, genitori, ecc.), con articolazioni anche provinciali o subprovinciali. Le scuole autonome – nello stesso spirito della legge istitutiva – hanno cambiato il paesaggio degli interessi rappresentati e debbono costituire i primi interlocutori delle politiche regionali e locali.
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Grazie Rosario.
Come siamo bravi noi dell’ADi! Forse è per questo che non ci ascoltano mai. Ma verranno tempi migliori, mai arrendersi…..
[stextbox id=”download” defcaption=”true”]1) Decreto legislativo del 30 giugno 1999, n. 233 sulla “Riforma degli organi collegiali territoriali della scuola, a norma dell’articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n.59”.[/stextbox]
[stextbox id=”info” caption=”Link”]
1) ADi La riforma degli Organi Collegiali – Se non siete pronti…, 29 marzo 2012
2) A. Cenerini, SARÀ LA VOLTA BUONA? Nuova bozza di accordo Stato Regioni per l’attuazione del Titolo V in materia d’istruzione, settembre 2012
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