A. Schleicher – WORLD CLASS: come costruire un sistema scolastico per il XXI secolo

Andreas Schleicher, Seminario Internazionale ADi 2019

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INTRODUZIONE

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Se mi chiedete che cosa hanno in comune i sistemi educativi più avanzati del mondo vi rispondo che è la volontà di capire cosa succede negli altri Paesi, anche lontani e di culture diverse, ed è la capacità delle loro classi di gettare lo sguardo al di là delle proprie pareti e vedere che cosa succede nell’aula del vicino e nelle altre scuole.

Il mondo cambia velocemente ed è molto più facile educare i ragazzi per il nostro passato piuttosto che per il loro futuro.
Come genitori a volte siamo parte del problema non della soluzione. Ci sentiamo in ansia quando i nostri figli non studiano più quelle cose che per noi erano così importanti.
Come insegnanti ci è più congeniale insegnare quello che abbiamo imparato rispetto a quello che abbiamo imparato ad insegnare.
Come politici l’istruzione può farci perdere le elezioni, ma non ce ne farà mai vincere una, perchè ci vuole tempo per tradurre le buone idee in risultati.

Preparare gli studenti per il loro futuro

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Il mondo cambia a una velocità incredibile, solo dieci anni fa sono arrivati gli smartphones e ci siamo trovati di colpo la conoscenza a portata di mano in ogni momento. Poi è arrivato il mondo virtuale. Sembrava stupendo, ma alcune delle cose che apparivano così semplici sono diventate molto complicate.

Pensate all’alfabetizzazione. In passato insegnare a leggere era semplicemente fare apprendere quello che era scritto in un libro. Quando un ragazzo non conosceva qualcosa andava a vedere nell’enciclopedia e assumeva come corretto quello che c’era scritto. Adesso gli studenti vanno su Google e trovano trentamila risposte alle loro domande e nessuno dice loro qual è la risposta giusta e quella sbagliata, cos’è vero e cosa è falso. L’alfabetizzazione non riguarda più l’estrazione della conoscenza ma la costruzione della conoscenza, è un navigare nell’ambiguità e questo richiede una bussola affidabile per trovare il proprio orientamento.

Per gli studenti rapportarsi a questo mondo, comprendere le diversità della società è molto più complesso di quanto non lo fosse per noi. La scuola ha allora una missione importante: guidarli attraverso queste esperienze della diversità.

La digitalizzazione

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Secondo l’indagine Pisa, la metà dei giovani quando non è connessa si sente male, è come se avesse sete e non potesse bere.

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Fra il 2012 e il 2015 il tempo trascorso dagli studenti online è quasi raddoppiato in Italia e anche negli altri Paesi.

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Il mondo virtuale sta diventando il mondo reale, e questo cambia incredibilmente il futuro dell’educazione.
Tantissime cose stanno cambiando e spesso in termini contraddittori.

La digitalizzazione infatti:

  • è insieme un processo di grande democratizzazione – tutti possono partecipare, collaborare attraverso la tecnologia – ma anche di grande concentrazione di potere a una velocità incredibile;
  • esalta la personalizzazione – tutti possono farsi sentire, scrivere qualcosa su Twitter e divulgarla in tutto il mondo – ma al contempo produce una grande omogeneizzazione, schiaccia l’individualità, determina una cultura unica, tende ad omologare ogni cosa;
  • è un fattore di potenziamento e valorizzazione – le più grosse aziende oggi esistenti sono partite da un’idea non da un grande patrimonio, Google e Facebook hanno creato il prodotto prima di avere i soldi – ma può anche essere fonte di deresponsabilizzazione, di riduzione di alcune capacità, per esempio siamo diventati schiavi del navigatore e abbiamo perso il senso dell’orientamento.

La digitalizzazione nel mondo del lavoro

Gli stessi grandi mutamenti sono avvenuti e continuano ad avvenire nel mondo del lavoro.

Le capacità manuali e routinarie stanno scomparendo, diventano facili da digitalizzare e da automatizzare, mentre avanzano i compiti ad alto contenuto tecnologico.

Ecco alcuni dati

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Le competenze che calano più velocemente sono manuali, sono le capacità cognitive routinarie, mentre quelle che aumentano di rilevanza nella nostra società sono le competenze di risolvere problemi complessi, di pensare in maniera immaginativa.

L’importanza delle competenze sociali

Pensate per un attimo alle competenze sociali. Non sono assolutamente d’accordo di chiamare queste competenze soft skills. Se io penso alle soft skills penso a cose come la scienza, la matematica. Ne sono personalmente un esempio: ho studiato fisica, ho imparato tantissime cose di fisica, ebbene oggi quelle competenze sono per così dire evaporate, perché la scienza è cambiata a una velocità esponenziale e se entrassi oggi in un laboratorio di fisica mi sentirei un alieno. Il tipo di competenze che noi consideravamo hard skills oggi sono le più elusive, mentre quelle che effettivamente rimangono dentro di noi e che diventano sempre più rilevanti sono il carattere, la nostra capacità di lavorare e pensare in maniera autonoma, di pensare e lavorare con gli altri.

Parlare di competenze sociali è facile, ma realizzarle in classe è estremamente difficile Facciamo un esempio: tutti parliamo della collaborazione, che viene anche testata dall’indagine Pisa, ma che facciamo a scuola? I ragazzi sono seduti nei banchi, noi facciamo lezione e alla fine li esaminano per vedere cosa hanno imparato e se sono migliori del compagno accanto. Non è questo il modo di sviluppare la collaborazione o altre social skills. C’è una grande contraddizione fra l’ambiente di apprendimento e le competenze necessarie per il mondo di domani.

La gara fra tecnologia ed educazione

C’è una sorta di gara fra tecnologia ed educazione che si ripete nelle grandi fasi storiche.

Prima della grande rivoluzione industriale né la tecnologia né l’educazione erano veramente importanti per la grandissima maggioranza delle persone. Con l’arrivo della prima rivoluzione industriale e l’avanzare della tecnologia, molte persone sono rimaste indietro, generando sofferenza sociale. Ha cominciato allora a diffondersi la scolarizzazione pubblica di massa e le persone si sono via via allineate alle norme e alle esigenze della società industriale. Questo ha generato grande prosperità.
Adesso si ripropone la stessa situazione con la rivoluzione digitale: la tecnologia è più avanti delle persone e questo crea una grande sofferenza sociale. Se tanti laureati hanno difficoltà a trovare lavoro e al tempo stesso i datori di lavoro dicono che non trovano le persone con le competenze giuste, significa che si è allargata la separazione fra i bisogni della società e la formazione prodotta dai sistemi educativi.

Che fare allora per tenere il passo e rigenerare prosperità?

COMPETENZE E CURRICOLI NELL’ERA DIGITALE

Farò riferimento a dati OCSE, per dare conto delle competenze necessarie per affrontare le nuove sfide dell’era digitale. Competenze che derivano dalla giusta coniugazione e integrazione fra rinnovate conoscenze, abilità e valori.

Le conoscenze, le abilità e i valori nell’era della digitalizzazione

Quali conoscenze, abilità e valori sono necessari per affrontare il mondo della 4^ rivoluzione industriale?

Per rispondere utilizzerò nuovamente dati prodotti dall’Ocse.

  • Le conoscenze.
    Il sapere è ovviamente sempre importante, ma il tipo di conoscenze necessarie sta cambiando molto velocemente. La conoscenza dei contenuti sta perdendo rapidamente il suo valore originario. Non è più tanto importante possedere molte conoscenze di fisica o di biologia quanto piuttosto padroneggiare la capacità di pensare come uno scienziato, di progettare e capire esattamente quali sono i quesiti necessari all’investigazione e quali quelli irrilevanti.
    E’ più importante comprendere il significato di una funzione esponenziale che saperla calcolare.
    E’ importante la capacità di pensare come uno storico, più che avere nozioni di storia- nomi, luoghi e fatti. E’ importante la comprensione di come la narrazione della società emerge e si sviluppa, e di come i contenuti mutano mentre essa avanza e si dipana.
    Ed è importante la comprensione profonda delle fondamenta delle discipline e la capacità di pensare in maniera trasversale alle discipline, oltrepassando i confini di ciascuna.
  • Abilità.
    sc14La conoscenza non è che una parte della storia. L’altra parte riguarda le abilità, le skill. Nel mondo moderno non veniamo più premiati solo per quello che sappiamo, ma soprattutto per quello che facciamo. Questo è importantissimo.
    Quando si considerano le skill, la prima cosa di cui si parla riguarda l’aspetto cognitivo: il pensiero critico, la creatività. Certo è molto importante, ma le competenze più richieste oggi sono quelle sociali ed emozionali: la curiosità, il coraggio, la leadership, l’empatia, la capacità di lavorare con persone diverse da noi, che pensano in modo diverso da noi.
    Ieri ve ne ha parlato il mio collega Mario Piacentini, illustrandovi le competenze globali che stiamo esaminando all’OCSE, la capacità di esaminare i problemi locali, globali ed interculturali, di comprendere ed apprezzare differenti prospettive e visioni del mondo, di interagire con rispetto ed efficacia con gli altri e condurre azioni responsabili nei confronti della sostenibilità e del benessere collettivo.
  • I valori.
    sc15Considero i valori una delle chiavi del futuro. Si è per molto tempo pensato che insegnare i valori fosse un compito della famiglia non della scuola, alla quale competerebbe solo l’insegnamento delle discipline accademiche, come è stato fatto per centinaia di anni. Nei sistemi scolastici più avanzati questa impostazione viene ormai messa in discussione. Bisogna cercare di individuare i valori nell’insegnamento di tutte le discipline.
    Vi faccio un esempio. L’insegnamento dell’educazione fisica a Singapore non ha solo l’obiettivo di rendere atletici gli studenti, ma anche di sviluppare il senso di responsabilità per sé e per gli altri, di promuovere il coraggio e la capacità di leadership.
    I valori sono al cuore dell’educazione. Se le persone non percepiscono e non vivono i valori non sentiranno mai l’appartenenza alla comunità sociale, non sapranno mai orientarsi nelle diversità e cominceranno a costruire muri, rendendo la comunicazione sempre più difficile.

Dalle conoscenze, abilità e valori alle competenze

Quelle che vedete nella figura sopra sono le competenze fondamentali secondo l’OCSE, che sono il frutto di una buona coniugazione ed integrazione di conoscenze, abilità e valori.

  1. La prima è ovvia, ed è quella che ci distingue dai computer. E’ la capacità di pensare in maniera creativa e laterale e creare nuovi valori.
  2. La seconda è la capacità di affrontare e riconciliare tensioni e dilemmi. Il mondo non è bianco e nero, buono e cattivo e gli studenti devono saper navigare nell’ambiguità.
  3. La terza è il saper assumersi responsabilità.

Se vogliamo fare acquisire ai nostri studenti queste competenze, dobbiamo metterli al centro, renderli autonomi, attivi e responsabili. Ma gran parte dell’educazione continua a considerare gli studenti discenti passivi. Dobbiamo invece aprirci ai nuovi modelli pedagogici. E’ facile insegnare agli studenti quello che abbiamo imparato, procedere per verità consolidate, ma quello che conta oggi è insegnare a mettere in dubbio anche ciò che veniva dato per acquisito ed essere aperti alle novità.
E’ facile imparare, ma è molto più difficile disimparare e reimparare, porsi domande, esprimere idee e mettere in forse quelle che credevamo consolidate.
E ancora, occorre saper prendere le distanze e vedere il quadro complessivo, vedere il bosco non i singoli alberi. Siamo inondati di informazioni ma ne capiamo veramente il significato, ne cogliamo le strutture e i fondamenti?
Infine è molto importante agire, ma come? Vi porterò due esempi, il Canada e il Giappone, due paesi che hanno alti punteggi in PISA.

Le competenze nel curricolo: il Canada

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Il Canada ha un sistema educativo molto valido, è insieme molto performante e molto equo.
Se guardiamo la figura sopra vediamo che i canadesi pongono una grande attenzione al pensiero critico che impegna e attraversa tutte le discipline.
La comunicazione è pure molto importante.
Ma se andiamo a verificare le competenze sociali, la collaborazione non compare. Questo non significa che i canadesi non insegnino la socializzazione ai ragazzi, ma non fa parte del curricolo, non appare come dato obbligatorio nell’insegnamento.

Le competenze nel curricolo: il Giappone

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Il Giappone è un altro sistema educativo molto buono, con alti punteggi nelle indagini internazionali.
Se guardiamo la figura sopra osserviamo che il pensiero critico è poco rilevante nel curricolo giapponese, mentre lo era molto in quello canadese. Ma se consideriamo le competenze sociali, che erano del tutto trascurate nel curricolo canadese, qui sono estremamente importanti. Una cosa molto interessante, che abbiamo verificato attraverso PISA, è che Cina e Giappone, culture per vari aspetti simili, hanno entrambi ottimi risultati nel problem solving individuale, ma risultati del tutto diversi nel social problem solving, il problem solving in team. Il Giappone va benissimo mentre la Cina ha risultati molto scadenti. Il sistema educativo cinese esalta infatti la competizione non la collaborazione, mentre quello giapponese è estremamente collaborativo, gli studenti giapponesi lavorano sempre in gruppo, cucinano con gli insegnanti, i più bravi aiutano i più deboli.

Ma andiamo oltre, esaminiamo una competenza oggi molto importante: l’ imprenditorialità. Ebbene nel curricolo giapponese l’imprenditorialità è irrilevante

In conclusione

Anche i sistemi educativi più avanzati hanno ancora molte cose da migliorare per poter affrontare con successo le sfide di questo secolo

SFATARE ALCUNI MITI

Vediamo ora quali sono le strategie che possiamo adottare per far avanzare i nostri sistemi educativi.
Vorrei cominciare sfatando alcuni miti che molto spesso impediscono di progredire. Ne esaminerò cinque fra i più diffusi:

  1. La povertà è un destino
  2. Gli immigrati abbassano i risultati
  3. Il tempo e il denaro sono tutto ciò che conta
  4. Le classi piccole hanno sempre risultati migliori
  5. Il successo dipende dal talento

1° Mito: la povertà è un destino

E’ diffusa la convinzione che la povertà segni il destino degli studenti, che chi viene da una condizione sociale svantaggiata non possa migliorare più di tanto. Tutti a parole approvano l’inclusione, ma la considerano poi irrealizzabile nella pratica.

Ora voglio mostrarvi uno dei grafici più interessanti dello studio comparato PISA a dimostrazione che la povertà non è un destino.

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Nell’immagine sopra abbiamo confrontato i risultati di studenti con lo stesso background sociale, culturale ed economico. Vedete indicati nella parte bassa con puntino rosso e relativa barra la performance degli studenti delle famiglie più svantaggiate nei vari Paesi e come possiamo immediatamente notare ottengono risultati molto diversi. Per esempio il dieci per cento degli studenti più socialmente svantaggiati in  Vietnam ha risultati comparabili con quelli degli studenti italiani di livello socio-economico medio, e fa molto meglio degli studenti più benestanti di molti Paesi del Sud America. Quindi la povertà non è un destino. Ma che cosa fa il Vietnam per fare progredire anche i ragazzi più poveri? E’ una questione culturale? No è una questione politica. In Vietnam sanno attirare e fare lavorare gli insegnanti e i presidi più bravi nelle classi e scuole più difficili. Prendete per esempio un preside in una delle migliori scuole in Vietnam, ebbene è arrivato lì dopo aver dimostrato di saper migliorare una delle scuole più povere e difficili del Paese. Lo stesso per gli insegnanti. E’ così che si progredisce, dimostrando di saper migliorare scuole difficili nei luoghi più poveri e svantaggiati. Ed è per questo che gli studenti svantaggiati hanno risultati migliori.

Una ricetta molto semplice. In Vietnam, ma anche in Cina, se portate la scuola ad avere alti risultati guadagnate di più e potete assumere più esperti e più insegnanti, ma solo in scuole svantaggiate che dimostrate di saper fare progredire. Una ricetta semplice ma che dimostra che la povertà non è un destino.

2° Mito: gli immigrati abbassano i risultati

E’ opinione comune che la presenza di studenti immigrati nelle classi abbassi i risultati. Ebbene l’abbiamo testato.
Ecco lo abbiamo testato e abbiamo verificato che i Paesi da cui gli immigrati provengono fa la differenza, ma l’influenza del Paese in cui gli immigrati arrivano e vanno a scuola ha un impatto tre o quattro volte maggiore.
Abbiamo verificato che studenti con lo stesso background, provenienti dallo stesso Paese hanno risultati del tutto diversi a seconda del Paese in cui arrivano e vanno a scuola.

Ed è per questo che all’Ocse non vediamo un rapporto fra performance complessiva dell’educazione e la percentuale degli studenti immigrati presenti. E’ dunque la capacità del sistema educativo di essere veramente inclusivo che conta ed è quella che fa davvero la differenza.

3° Mito: denaro e tempo sono tutto ciò che conta

Un’altra questione piuttosto controversa è la convinzione di molti che i soldi siano risolutivi. Ebbene i soldi sono necessari, ma non risolutivi, lo capite dal grafico sotto, che è frutto di una ricerca collegata a PISA. Vorrei aggiungere che certamente in Italia si dovrebbero investire più risorse nell’educazione, ma come si investono i soldi è altrettanto importante.

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Lo stesso vale per il tempo. Ci sono grandi differenze nella quantità di tempo che gli studenti passano a scuola.

Guardate il grafico sotto. In blu è indicato il tempo che gli studenti passano a scuola e in giallo il tempo che trascorrono per i compiti o altre attività a casa.

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Facciamo alcuni esempi.
Negli Emirati Arabi Uniti gli studenti passano 60 ore a studiare, più delle ore di lavoro degli adulti.
In Finlandia invece ne trascorrono circa la metà.
E se consideriamo l’Italia vediamo che anche qui le ore di studio sono molte.
Ma se parliamo di produttività dell’educazione, se analizziamo quanto lo studente impara per ora d’istruzione vediamo che in Finlandia, Germania, Svizzera e Giappone gli studenti imparano molto in poco tempo mentre negli Emirati Arabi Uniti in tanto più tempo imparano molto meno.

Quindi non è semplicemente questione di aggiungere più tempo al sistema scuola, dipende da come si utilizza questa  risorsa preziosa

4° Mito: le classi più piccole hanno sempre migliori risultati

Il quarto mito riguarda la convinzione che le classi piccole diano sempre migliori risultati. Si tratta di un’altra questione che riguarda le risorse: il rapporto sudenti/ insegnanti.

Abbiamo testato anche questo. Guardate il grafico sotto.
Sull’asse verticale è indicato il rapporto studenti- insegnanti, più in basso si va e più generoso è il sistema educativo.
Sull’ asse orizzontale è indicata la dimensione delle classi e si vede chiaramente che c’è una grande differenza fra i vari Paesi.
Ho fatto un confronto fra due paesi: gli Stati Uniti e la Cina, le due economie più grandi del globo. Dai dati che abbiamo raccolto si può vedere che sono entrambi generosi, hanno entrambi molti insegnanti per 100 studenti.

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Ma se sono molto simili da questo punto di vista, sono però molto diversi per dimensione delle classi. In Cina le classi sono molto numerose mentre negli Stati Uniti sono molto piccole. Su tutte vale una considerazione: i soldi possono essere spesi una sola volta e vale moltissimo come si spendono. Se le classi sono piccole non si possono pagare molto gli insegnanti e gli insegnanti non possono fare altre cose oltre all’insegnamento. Ora in Cina gli insegnanti insegnano la metà delle ore degli americani, fra le 11 e le 16 ore a settimana, ma lavorano complessivamente molto di più degli insegnanti americani.

Che cosa fanno nel tempo restante?

  • Sviluppano e migliorano la loro professione: osservano le lezioni degli altri insegnanti, si sforzano di fare ricerca insieme. Le attività per il loro sviluppo professionale durano 150 ore all’anno: un grande investimento per la propria carriera.
  • Dedicano tempo ai singoli studenti.
  • Dedicano tempo ai genitori.

In conclusione la classe piccola può dimostrarsi una trappola, utilizza e assorbe molte risorse che poi non si possono allocare ad altre attività.

Non vi mostro il grafico per l’Italia perché l’Italia è un caso speciale: è l’unico Paese che è riuscito ad avere contemporaneamente molti insegnanti e classi grandi. E’ un mistero!

Le classi piccole piacciono di più agli insegnanti?

Ora potrete dirmi che è vero che le classi piccole non sono così efficaci, però piacciono molto agli insegnanti. Ebbene noi abbiamo indagato anche questo aspetto. Guardate il grafico sotto: non è la dimensione della classe che rende gli insegnanti più soddisfatti del loro lavoro.

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Allora mi chiederete cos’è che dà più soddisfazione agli insegnanti nel lavoro che fanno. Dalle nostre indagini la risposta è risultata molto chiara e molto simile nei vari Paesi testati:  il fattore predittivo più importante della soddisfazione dell’insegnante è il grado di professionalismo del sistema educativo.

Vediamo dal grafico sotto cosa questo significa in concreto.

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I fattori che determinano la soddisfazione degli insegnanti per il loro lavoro sono:

  • Le conoscenze degli insegnanti: conoscenza della materia che insegnano, conoscenza di come gli studenti imparano, conoscenza dei singoli studenti. Gli insegnanti difficilmente conoscono uno ad uno i propri studenti, eppure questo fa una grande differenza a livello di ambiente e di apprendimento.
  • L’ autonomia professionale: la possibilità degli insegnanti di creare un ambiente innovativo, di costruire percorsi personalizzati. Attenzione però, autonomia professionale non significa “faccio quello che mi pare”. Autonomia professionale significa fare la cosa giusta per il bene della professione. Per esempio se siete un pilota di aerei e vi dicono e vi insegnano come atterrare controvento, non potete un giorno decidere di provare ad atterrare nella direzione del vento e vedere come va. E’ chiaro il pilota non lo può fare, però noi in classe spesso lo facciamo, vogliamo sperimentare singolarmente, ma non è in questo che consiste l’autonomia professionale. L’autonomia professionale è intrinseca alla comunità professionale, è parte di essa. Questo mi porta a considerare il terzo aspetto molto importante.
  • La cultura della collaborazione.

Sono queste tre cose insieme che determinano la soddisfazione degli insegnanti per il proprio lavoro, che sostengono la convinzione di fare bene il proprio lavoro, che aumentano la fiducia in se stessi.

5° Mito: il successo dipende dal talento

L’ultimo mito che vorrei sfatare è che il successo dipenda solo o soprattutto dal talento.
Ebbene gli studenti dell’Asia orientale, che ottengono grandi successi, credono più nell’impegno che nel talento. Fra tutti i giudizi che le persone danno di sé, quello che ha più influenza è relativo alla propria capacità di portare a termine un compito con successo.

La ricerca mostra che la consapevolezza della responsabilità dei propri risultati influenza la motivazione, rendendo gli studenti più disposti ad impegnarsi, convinti che da loro dipende l’esito desiderato.

LE CARATTERISTICHE DEI MIGLIORI SISTEMI EDUCATIVI

Abbiamo finora considerato gli aspetti – i miti – che in qualche modo si frappongono al miglioramento dell’istruzione, guardiamo ora in positivo a quei fattori che favoriscono il suo progredire e il suo innovarsi.

Il desiderio di risultati immediati da parte dei politici viene sempre frustrato dalla lentezza della ricerca, ma oggi la nostra conoscenza di cosa funziona è molto migliorata.

Vi indico sei fattori che sono caratteristici dei sistemi scolastici con alti rendimenti:

  1. Fare dell’educazione una priorità.
  2. Credere che tutti gli studenti possano imparare.
  3. Avere alte aspettative.
  4. Attuare un insegnamento di qualità.
  5. Allineare gli incentivi.
  6. Potenziare la leadership ad ogni livello.

Tratterrò solo una parte di questi 6 fattori

1° Rendere l’educazione una priorità

Il primo fattore è il valore che la società e i politici attribuiscono all’educazione. Ovviamente tutti affermano a parole l’importanza dell’educazione, ma dirlo non basta, bisogna fare la prova del nove: verificare se l’insegnamento sia o non sia una professione appetibile.
Questa verifica è stata fatta dall’Ocse. Abbiamo analizzato la percezione del valore dell’insegnamento da parte degli insegnanti. Lo vedete nel grafico sotto.
A Singapore, in Corea e in Finlandia, l’insegnamento è percepito come professione di alto valore, tutti aspirano a fare gli insegnanti e questo senza che, come in Finlandia e Singapore, gli stipendi siano eccezionali. Si aspira all’insegnamento non perché sia una professione interessante dal punto di vista economico ma perché lo è dal punto di vista intellettuale, perché l’ambiente in cui è inserita è gratificante.
Se ora prendiamo in esame la Francia, dove vanno a scuola i miei figli, vediamo che solo cinque insegnanti su cento pensano che insegnare sia una professione che abbia valore e sia apprezzata nella società.

sc33Si potrebbe obiettare che la percezione degli insegnanti non conti molto, ma se la si mette in correlazione con i risultati dell’apprendimento si vede che rappresenta a livello internazionale forse il fattore predittivo più importante delle performance, come si evince dalla figura sotto.

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E’ difficile definire il fattore causa/effetto, vale a dire stabilire se gli insegnanti acquisiscono valore nella società perché sono bravi, o se  i migliori vogliono fare gli insegnanti perchè la professione ha un grande valore nella e per la società. In ogni caso è indubbio che il valore che la società attribuisce all’educazione è un fattore distintivo fondamentale.

2° Credere che tutti gli studenti possano imparare

Il secondo fattore, apparentemente semplice, ma difficilissimo da realizzare è la convinzione profonda che tutti gli studenti possano imparare. E’ l’idea dell’inclusione, che a differenza del passato significa trovare il modo giusto perché ciascuno possa apprendere.
Ai tempi della prima rivoluzione industriale vigeva il concetto di uguaglianza che significava che tutti erano trattati allo stesso modo a scuola. Era una sorta di catena di montaggio che selezionava al suo interno chi era destinato a un lavoro manuale e chi a un lavoro intellettuale.

Poi è stato introdotto il concetto di equità, ossia dare di più a chi ha di meno, fornire più risorse a chi ha più bisogno, es. più insegnanti per gli studenti svantaggiati.
Il futuro richiederà il passaggio al principio di giustizia, che significa eliminare le barriere che si frappongono alla partecipazione, alla collaborazione di tutti come presupposto del successo scolastico e di quello successivo nella vita e nel lavoro. Nell’era industriale il problema era ridistribuire le risorse per garantire a tutti un salario che permettesse di vivere e stare bene. Ora non è più sufficiente, non è più solo un problema di ridistribuzione della ricchezza, perché per partecipare, per essere un cittadino attivo è necessario avere conoscenze, quindi è l’educazione che fa la differenza, non c’è equità nella società se non c’è equità nella scuola. E’ quindi una questione di rimuovere le barriere, le cause dell’iniquità.

Quando guardiamo alla situazione dei vari Paesi, alcuni dei dati più interessanti  sono quelli relativi alla variazione delle performance tra le scuole e dentro le scuole. Se osserviamo il grafico sotto, vediamo che in un Paese come la Finlandia c’è solo il 5% di variazione nella performance fra le scuole, in pratica tutte le scuole hanno successo.  Questo avviene perchè c’è un forte senso di collaborazione nel sistema. I presidi in Finlandia lavorano i due terzi del tempo dentro alla propria scuola, ma il restante terzo lo dedicano a livello di Comune insieme a  presidi di altre scuole, per risolvere insieme i problemi non solo della propria scuola ma del sistema scolastico del proprio territorio.

Anche in Cina, che pure è dall’altra parte del mondo, gli insegnanti collaborano moltissimo fra scuole, hanno una piattaforma digitale collaborativa in cui possono presentare le proprie idee, i propri progetti e i propri piani delle lezioni, rendendoli visibili a tutti gli altri insegnanti. E più il loro materiale viene scaricato, utilizzato, criticato, più aumenta la loro reputazione Alla fine dell’anno non si chiede agli insegnanti solamente quali risultati hanno acquisito con i propri studenti ma anche quale contributo hanno dato al sistema educativo e quale reputazione si sono conquistati.
Tutto questo produce un sistema equo con variazioni assolutamente limitate nelle performance.

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3° Reclutare e trattenere i migliori insegnanti

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E veniamo al terzo fattore: reclutare e trattenere i migliori insegnanti. Nessun sistema può migliorare se non sono coinvolti gli insegnanti. Da nessuna parte la qualità di un sistema educativo è superiore alla qualità dell’insegnamento.
Ritorno allora alle tre questioni fondamentali della professione docente: conoscenze professionali, autonomia professionale e cultura collaborativa.
I sistemi scolastici migliori selezionano e formano i loro insegnanti con cura. Da essi ci si aspetta  un’alta conoscenza professionale, che significa conoscenza della propria disciplina, delle modalità di apprendimento della disciplina ma anche la capacità di intraprendere una formazione interdisciplinare che metta in grado gli studenti di vedere i problemi attraverso lenti multiple. Ci si aspetta che siano in grado di realizzare l’apprendimento per problemi e progetti, nonchè l’apprendimento immersivo, che significa sapere che alcune cose non si insegnano, ma vengono direttamente colte dagli studenti

E di nuovo autonomia professionale, strettamente correlata alla comunità professionale e quindi alla cultura collaborativa.


Intendo soffermarmi in particolare sulla cultura della collaborazione e fornirvi alcuni ulteriori elementi
(v. figura sotto), perché è molto importante.

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Non mi riferisco ad una collaborazione superficiale, molto comune e diffusa, gli insegnanti infatti sono persone socievoli, si scambiano i materiali, condividono le risorse e parlano spesso con e degli studenti, mi riferisco ad una collaborazione profonda, cioè alla opportunità di scambi costanti, rigorosi, critici, tra cui la capacità di osservare reciprocamente e insieme discutere le lezioni dei colleghi.  E’ in queste forme di collaborazione profonda che si evidenziano le differenze fra Paesi e le persistenti arretratezze.
Prendiamo l’osservazione delle classi. In moltissimi Paesi solamente un insegnante su dieci osserva regolarmente le lezioni degli altri colleghi. Ma come si può imparare senza essere esposti regolarmente a quello che fanno gli altri insegnanti?

I dati ci dicono che la collaborazione professionale è molto rara tranne in alcuni Paesi. Ma è questa che determina un reale sviluppo professionale collettivo, che aumenta il senso di responsabilità, la fiducia in se stessi e insieme la soddisfazione per il proprio lavoro.

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Sono stati calcolati i punteggi dei vari Paesi in merito a conoscenze, autonomia, reti collaborative, si veda la figura sotto. E’ molto interessante analizzare le differenze fra i vari Paesi.

Il sistema più avanzato a livello di professionalità docente è l‘Estonia, un Paese relativamente povero dell’Europa nord orientale. Perché l’Estonia ha risultati così buoni? Perché c’è una grande autonomia professionale degli insegnanti, sono creativi, hanno significative capacità progettuali, ecc.
Se guardiamo alla Cina (Shanghai) l’autonomia è molto limitata, ma sono i più bravi a livello di collaborazione, di condivisione di capacità di lavorare insieme.
Se potessimo combinare quindi l’autonomia professionale estone e la cultura collaborativa cinese otterremmo la migliore professione docente al mondo.

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Per concludere sugli insegnanti, voglio parlarvi di una cosa che è un po’ difficile da accettare: gli insegnanti non fanno sempre quello che dicono.

Quello indicato nella figura sotto è un esempio britannico.

Quando abbiamo chiesto agli insegnanti britannici che cosa significa essere un bravo insegnante,  hanno fornito una visione molto costruttivista dell’educazione:

  • il 96% ha risposto che il loro ruolo è di facilitare gli studenti nelle loro ricerche;
  • l’86% ha affermato che gli studenti imparano meglio quando trovano le soluzioni da soli;
  • il 74% ha sostenuto che pensare e ragionare sono più importanti del contenuto disciplinare..

Ma se gli insegnanti britannici facessero quello che dicono non userebbero la memorizzazione come strumento importante di insegnamento/apprendimento.

Se guardiamo i dati (v. figura sotto) vediamo che la Gran Bretagna è in cima alla classifica nell’uso della memorizzazione e quindi c’è un gap fra quello che gli insegnanti pensano/dicono di fare e quello che fanno in realtà.
Come possiamo colmare questo divario? Dando agli insegnanti opportunità migliori di vedere che cosa fanno nella realtà. Gli insegnanti dei Paesi nella parte bassa della lista hanno comportamenti molto diversi.
Vorrei farvi notare una cosa interessante. Se vi avessi chiesto all’inizio quali sono i Paesi che utilizzano molto la memorizzazione, quasi tutti avreste pensato alla Corea e al Giappone. Certo lo facevano, ma ora con l’avvento del 21° secolo le cose sono cambiate, sono andati oltre e hanno cominciato a lavorare diversamente, enfatizzando di più l’apprendimento profondo e la motivazione intrinseca. In Europa invece non siamo sostanzialmente cambiati e procediamo come prima.

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Dal confronto che ci permette PISA, possiamo vedere come le cose stiano cambiando in vari Paesi.

Guardate la figura sotto. Vedete che per problemi relativamente facili la memorizzazione rimane una strategia efficace, ma  per i problemi più complessi la memorizzazione è un ostacolo. Non è neutra, è negativa. Quindi se dovete risolvere un problema che richiede un ragionamento matematico o un modello matematico e provate disperatamente di ricordare la risposta giusta la troverete mai.

Oggi il tipo di cose che sono facili da insegnare e da memorizzare sono fatte dai computer, mentre i compiti complessi sono quelli che sono ancora svolti dalla mente umana.

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Se consideriamo i risultati dell’apprendimento, vediamo che i fattori predittivi più importanti sono: la capacità di elaborazione, la capacità di collegamento delle idee, il pensiero laterale. Pertanto gli insegnanti che continuano a porre eccessiva enfasi sulla memorizzazione educano gli studenti al passato non per il futuro. Non tutti sono d’accordo con questo, perché effettivamente la memorizzazione rimane uno strumento utile per operazioni semplici, ma è dimostrato che si pone in termini negativi rispetto a problemi difficili e complessi.

4° Incentivare l’innovazione

L’ultimo punto che vorrei sottolineare riguarda la capacità di innovazione dei sistemi educativi. Abbiamo analizzato i Paesi a livello globale, chiedendo agli insegnanti se il sistema ricompensa chi è più innovativo.

Ebbene, solo un quarto degli insegnanti ha risposto affermativamente.
Tre quarti degli insegnanti hanno affermato che la scuola è un ambiente ostile all’innovazione.

Forse non è proprio così, ma questa è la loro percezione e se non si riuscirà a cambiare questa percezione sarà molto difficile cambiare le cose. Quindi è molto importante incentivare l’innovazione.

FARE SI’ CHE LE RIFORME SI REALIZZINO

La strada della riforma dell’istruzione è piena di buone idee che sono state attuate male, allora ecco alcuni input per far si che le riforme si realizzino:

  1. Capire perché la riforma è così difficile da realizzare.
  2. Costruire consenso.
  3. Coinvolgere la professione docente.
  4. Impostare la direzione.
  5. Costruire capacità.
  6. Guardare oltre.

1° Perché la riforma è così difficile

E’ importante innanzitutto capire perché le riforme dell’istruzione siano così difficili da realizzare. Di seguito schematicamente i principali motivi di tale situazione:

1. Lo status quo ha molti protettori.

  • L’ambiente sociale nei confronti dell’istruzione è sostanzialmente conservatore;
  • tutti sostengono la riforma, salvo che per i loro figli;
  • coloro che sostengono la riforma spesso cambiano idea quando capiscono cosa comporta.

2. Si può perdere un’elezione, ma non vincerla sui temi dell’istruzione. I politici poco si spendono sull’istruzione per:

  • la complessità e la lunghezza della traiettoria del percorso riformatore che vanno oltre i cicli elettorali;
  • il divario sostanziale tra il momento in cui viene sostenuto il costo della riforma e il momento in cui si concretizzano i benefici.

3. Asimmetria di costi e benefici nelle riforme dell’istruzione.

  • E’ facile fare deragliare le riforme da parte di gruppi di interesse.
  • I costi sono sicuri, i benefici no

4. Raramente chi ha interessi a mantenere lo status quo sgombera il campo e lascia la strada alle riforme.

2° Costruire il consenso, considerando la parte invisibile dell’iceberg

Le leggi, le regole, le strutture e le istituzioni su cui i leader educativi tendono a focalizzarsi sono solo la punta dell’iceberg.
La parte invisibile dell’iceberg è molto più grande e sta sotto il pelo dell’acqua: sono le credenze, le motivazioni e i timori di chi è coinvolto nell’educazione.
Tutto questo porta a dire che i leader educativi per avere successo con le riforme devono saper condividere comprensione e responsabilità del cambiamento, costruire adeguate competenze e creare il giusto clima con misure di rendicontazione finalizzate a incoraggiare l’innovazione piuttosto che limitarsi alla mera osservanza delle disposizioni.

3° Coinvolgere la professione docente

Gli insegnanti devono essere autenticamente coinvolti nelle riforme se si vuole che siano in grado di sostenerne la realizzazione.
I politici invece non sempre hanno una percezione precisa delle capacità e competenze potenziali degli insegnanti, così si focalizzano troppo sul portare le loro regole dentro le classi anziché portare le buone pratiche educative dentro il sistema scolastico.

4° Impostare la direzione

Individui e gruppi sono più disponibili ad accettare cambiamenti che non sono necessariamente di proprio interesse, se loro, e più in generale la società, comprendono le ragioni di questi cambiamenti e il ruolo che devono ricoprire all’interno della strategia complessiva.

5° Guardare oltre

I sistemi scolastici che si sentono minacciati da modi di pensare alternativi rimangono intrappolati in vecchie pratiche. Quelli che progrediscono sono quelli che sono aperti al mondo e pronti ad imparare con e dai leader educativi a livello mondiale.

I leader educativi devono pertanto guardare non solo avanti, ma anche al di fuori. Non per copiare soluzioni da altri, ma per guardare seriamente ed in modo equilibrato alle buone pratiche sia nel proprio Paese che altrove e per capire che cosa funziona e in quali contesti.

Conclusioni

La tecnologia e la globalizzazione hanno implicazioni dirompenti per la nostra struttura economica e sociale, ma queste implicazioni non sono predeterminate.
E’ la natura delle nostre risposte collettive a questi sconvolgimenti che ne determina gli esiti, così come il rapporto fra la frontiera tecnologica e gli agenti culturali, sociali, istituzionali ed economici che noi mobilitiamo.

In conclusione una buona educazione per tutti è un obiettivo raggiungibile e il nostro compito non è rendere l’impossibile possibile, ma il possibile raggiungibile. E’ interamente alla nostra portata offrire un futuro a milioni di studenti che attualmente non ce l’hanno.
Ed è fondamentale riuscire a mobilitare, condividere le idee e diffonderle nella professione se vogliamo che la scuola cambi davvero; ed è per questo che penso che l’ADi, la vostra Associazione, sia così importante!

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