L’ASIA COME METODO NEGLI STUDI SULL’EDUCAZIONE
ASIA AS A METHOD IN EDUCATION STUDIES

a cura di Tiziana Pedrizzi

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INTRODUZIONE

E’ assai diffusa oggi la percezione del grande sviluppo economico dell’area dell’Est asiatico, meno quella del desiderio di riscossa che quest’area sta maturando in termini di ideologie e di valori. E si sa che, senza una egemonia su questi terreni, non si dà vero dominio.

Nel campo degli studi sociali e di quelli relativi al campo educativo qualcosa si sta muovendo. Nel 2010 usci un testo che fece molto rumore nel campo degli studi sociali nell’area dell’Estremo Oriente Asia as a method: Towards deimperialization di K.Chen. La sua tesi fondamentale era che gli studiosi di quell’area avrebbero dovuto svincolarsi da un rapporto di sudditanza nei confronti dell’Occidente, sia in termini di dipendenza che di controdipendenza.

L’interesse per queste posizioni ha dato frutti anche nel campo degli studi sull’educazione e nel 2015 esce Asia as a method in education studies a cura di  Hongzhi Zhang, Philip Wing Keung Chan e Jane Kenway presso  Routledge London con l’obiettivo di dar conto di  “Battaglie per costruire immagini di nuova ricerca in risposta alle sfide di Chen”.

In questa pubblicazione si analizzano alcune delle questioni fondamentali poste da quel testo del 2015,  tuttora particolarmente interessante anche per noi occidentali.

“L’ASIA COME METODO”: LE APERTURE CONCETTUALI DI CHEN

2Il punto di partenza continuamente dichiarato è la grande pressione sugli studenti, ricercatori e studiosi asiatici dell’area del Pacifico che affrontano grandi spese per i loro studi e sono sottoposti a grande stress anche di tipo psicologico. I ricercatori asiatici sono sempre più consapevoli delle proprie capacità e del proprio valore, ma sono obbligati alle regole occidentali (uso della lingua, regole delle citazioni). Anche l’Australia e la Nuova Zelanda – tutta l’area oceanica insomma-si sentono sempre più spazio asiatico nel secolo asiatico, il che fra l’altro per loro ha il vantaggio di essere collocate non più lontano, ma vicino al baricentro dello sviluppo mondiale come esplicitamente dichiarato nel documento governativo Australia in the Asian Century del 2012.

Asia come metodo significa usare l’idea di Asia come un punto di ancoraggio immaginario e le società asiatiche come reciproci punti di riferimento. Ciò secondo Chen può portare perfino ad una differente idea della storia del mondo.

L’obiettivo nelle scienze sociali diventa dunque analizzare l’Asia in una logica interasiatica, considerando l’Occidente non come punto di riferimento obbligato, ma come un riferimento fra gli altri. Neppure però come un nemico cui contrapporsi in chiave di indigenismo. Il nazionalismo- nativismo sono stati necessari per la decolonizzazione, ma possono essere limitanti. La nuova parola d’ordine è: localismo internazionale.

Un concetto fondamentale di Chen è quello di Traslazione. I concetti e le pratiche da essi derivate, nel passare da un contesto all’altro, cambierebbero di natura, perché, soggetti alle forze sociali esistenti nel nuovo contesto, debbono negoziare con dense storie locali, per prendere radici in suolo straniero. Ne esce qualcosa di nuovo, un prodotto localizzato di un processo di fusione. La società locale definita da Chen come entità base non viene però vista in chiave romantica ed “essenzializzata”. Del resto i centri imperiali e le colonie si costituiscono reciprocamente: pezzi di occidente sono stati inglobati nella realtà asiatica e viceversa.

Alla base quello che Chen definisce come materialismo storico geo-coloniale che sottolinea le condizioni spaziali e storiche delle relazioni di potere, riscoprendo Marx, con cui i movimenti di liberazione avrebbero avuto a che fare. Però decolonializzando il materialismo storico che è stato concepito per l’Europa e deve invece essere ripensato per altri paesi che non hanno avuto alla base il modo industriale di produzione. In questo nuovo modello, dunque, deve essere data più importanza allo spazio, perché ogni modo di produzione genera il suo spazio organizzato e pertanto ogni processo è stato esperito in modi diversi. Finito il colonialismo, se ne sono sviluppate come continuazione estensioni strutturali con il neoimperialismo della guerra fredda che ha creato vincenti e perdenti anche all’interno dei nuovi stati-nazione.

Oggi lo sviluppo cinese dà l’opportunità di confrontarsi con i metodi occidentali e la tradizione occidentale non è più adatta ad interpretare la Cina secondo una tradizione univoca di eredità culturale ed antica saggezza. L’esempio che viene portato è, dal nostro comune punto di vista, particolarmente impegnativo. A Hong Kong, prima della ricongiunzione alla Cina, si è messo in moto un forte movimento contro la prevista introduzione -sia pure molto graduale- nel curricolo di un insegnamento di “moralità e cultura nazionale cinese”. Gli autori si domandano se fosse questa una posizione giusta. Secondo loro è opportuno considerare anche punti di vista differenti da quello pro democratico, forse infetto da occidentalizzazione.

3Secondo Chen è necessario arrestare il “flusso strutturale di desiderio verso Europa ed USA” dovuto all’ossessivo riferimento all’Ovest. La superiorità dell’Ovest è stata elevata a verità universale, considerando i colonizzati come elementi immaturi che richiedono guida: lo spettro dei sentimenti di conseguenza generati nei colonizzati va dalla sottovalutazione di sé al risentimento ed alla ostilità verso l’Ovest. Nonostante si tratti di un compito difficile per l’incredibile potere dell’Ovest nelle geografie internazionali del sapere, l’immaginazione culturale deve far riferimento e creare diverse forme e strutture culturali (quadri di riferimento) generate dall’incontro fra il colonialismo e le risorse locali. Compito del ricercatore è dunque quello di decolonizzare l’immaginario culturale per distruggere il “vecchio occhio imperiale”, al fine di ricostruire e riarticolare una immaginazione nuova e più democratica.

Attraverso questa impostazione di “sincretismo critico”, studiare insomma l’Asia attraverso l’Asia e non attraverso le teorie europee e statunitensi sull’ Asia, affette da neocolonialismo in chiave di globalizzazione.

Quale è ad esempio l’esperienza della modernità realizzatasi nel Terzo Mondo?

DIALOGO EST-OVEST
tre casi di ricerca educativa in Cina e Australia

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Anche questo capitolo parte dalla assunzione dei principi base della proposta culturale di Chen. Secondo l’autore, dietro le ricerche in scienze umane in Asia c’è la dipendenza dall’ Ovest come centro di produzione del sapere. Ma oggi si riscopre il valore della multiculturalità e le ricerche transculturali sono diventate centri caldi del sapere e della ricerca. I paradigmi occidentali non spiegano tutto: solo il sapere creato a livello locale può dare spiegazioni a livello globale.

La modernità comprende infatti parti importanti della cultura dell’Ovest, ma non ne è completamente condizionata. Il localismo internazionale insomma nasce dall’incontro fra storia locale e storia coloniale; in questo quadro è utile riscoprire la cultura tradizionale e la sapienza locale. Un esempio di localismo internazionale possono essere gli studenti cinesi e/o asiatici in Australia.

Primo contributo

Il primo contributo pone l’accento sul termine ed il concetto cinese di Mohe che potrebbe essere tradotto con il termine Competition che sottende la fusione di cooperazione e di reciproche limitazioni. L’esempio proposto riguarda la soluzione del problema di insegnanti in soprannumero e da pensionarsi risolta in una fusione di istituti di educazione cinesi e mira a far comprendere i processi di decisione ed aggiustamento in Cina, di possibile utilizzazione anche in Occidente. Fare concessioni, compensare i perdenti è lo spirito cui si sono informate le decisioni in proposito. Si può dire che anche in Occidente si fanno concessioni, compromessi e mediazioni: ma qui non si tratta di un atteggiamento residuale, se non marginale ed ufficialmente magari deprecato, bensì di una regola filosofica di comportamento pubblico.

Secondo contributo

Il secondo contributo ha come oggetto l’esperienza di educazione australiana di studenti cinesi e lo scontro-incontro fra due diverse impostazioni. In Cina è quasi esclusivo da parte dell’insegnante un ruolo di nutrimento/accudimento (nurturing) che concentra molto gli insegnamenti in una esclusiva chiave di trasmissione, anche a causa della forma degli esami cinesi. In Australia invece secondo il modello occidentale (anglosassone) i tempi sono più lunghi e diluiti, le informazioni date sono minori e maggiore il ruolo autonomo degli studenti. L’ipotesi è quella di un passaggio dall’essere apprenditori passivi a pensatori attivi. Ma con juicio…

Terzo contributo

Il terzo contributo tratta della cura genitoriale e della devozione filiale di tradizione confuciana fra i cinesi in Australia. Teatro le scuole del week end di lingua e cultura cinese: i giovani sono recalcitranti, ma i genitori e parenti li spingono alla frequenza non solo per attaccamento alla tradizione, ma anche per ragioni utilitarie: sapere le due lingue è utile per il lavoro. Anche qui la mediazione fra due interessi e tesi contrastanti viene vista in chiave di compromesso utile per ambedue le parti.

LA PERCEZIONE DEL SILENZIO GIAPPONESE NEL CONTESTO EDUCATIVO AUSTRALIANO

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Anche qui in premessa l’aspirazione a muoversi oltre l’Ovest ed oltre la dittatura di alcuni grandi maestri che impongono il loro punto di vista in inglese. Anche se è vero che l’Ovest si trova in una posizione privilegiata, tuttavia abbisogna di aiuto e deve darsi da fare al di fuori dalla sua torre d’avorio per creare una ricerca di alto livello. Per promuovere lo sviluppo del sapere in un modo ampio, sviluppando tutti i potenziali, è necessario sviluppare rapporti orizzontali ed olistici fra i comportamenti diversi e fra tutte le ricerche esistenti. L’inglese non è adatto ad essere la lingua di ricerca sempre e dappertutto. Allo stesso modo i fenomeni asiatici debbono essere analizzati dagli asiatici, per essere veramente compresi.

In questa ricerca viene posto al centro il comportamento degli studenti giapponesi in Australia che agli occhi degli occidentali non è normale, perché partecipano poco alle discussioni. Il silenzio viene interpretato come segno di difficoltà linguistiche, della difficoltà a dividersi fra la concentrazione nell’ ascolto, nella comprensione e nella partecipazione, di reazione negativa a circostanze indesiderate, di rispetto per una autorità assoluta, di timidezza ansietà ed ignoranza.

Agli occhi degli asiatici, invece, il silenzio è una espressione di modestia e di educazione poiché lo studente ideale è attento, concentrato, calmo e non verbalmente aggressivo. Gli studenti conoscono e possono controllare le funzioni conoscitive del silenzio. Infatti il bisogno sociale di modestia configura un comportamento positivo che sostituisce l’uso della parola “senza che sia necessario essere centro di attenzione esprimendo opinioni in continuazione”. La tesi della ricerca è che peraltro parlare può danneggiare l’apprendimento più del silenzio.

In conclusione, sia il silenzio che la parola possono essere produttivi e perciò tutti gli atteggiamenti vanno bilanciati in relazione al contesto. Per mantenere l’accordo all’interno della comunità possono perciò essere negoziati reciprocamente

Tema tutt’altro che marginale a livello della futura riflessione pedagogica internazionale. In PISA, dopo i primi posti delle tigri asiatiche, si è cominciato a concentrare l’attenzione – fra i potenziali fattori causali – sul clima disciplinare di classe. Cominciano a diffondersi perplessità sull’utilizzo di metodologie esclusivamente induttive e di attivizzazione permanente in tutti i campi dell’apprendimento e per tutti i livelli di potenziale.La tesi in proposito ad esempio dell’ultimo testo di Scheerens coincide con quella di questi ricercatori asiatici. Le due modalità di conduzione didattica basate rispettivamente su cognitivismo e costruttivismo – in mancanza di evidenze ultimative a favore dell’una o dell’altra – dovrebbero essere utilizzate in modo complementare in relazione alle tipologie di apprendimento da acquisire ed alla maturità dei soggetti.

“ASIA COME METODO” DI COMPLESSITÀ E DI DIALOGO
Il rapporto fra l’estremo oriente asiatico e la Nuova Zelanda e l’Australia

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Il testo riveste un particolare interesse perché mette a fuoco il rapporto fra l’Estremo Oriente asiatico e l’area oceanica (Australia, Nuova Zelanda) che non è generalmente all’attenzione di una visione del mondo europea e che ha tuttavia grande importanza perché costituisce un ponte fra la cultura occidentale ed una orientale di primo livello.

La Nuova Zelanda, secondo gli autori, è diventata un forte esportatore di educazione occidentale che nell’area asiatica viene considerata il meglio, anche perché questo paese viene visto come una Britannia vicina e più amichevole, una sorta di paradiso senza forti divisioni di classe e razziali. In realtà fino ad ora gli asiatici ne sono sempre stati tenuti lontani, in quanto “pericolo giallo” e solo con la crisi e la globalizzazione dopo il 2007 il paese si è aperto alla immigrazione sulla base della educazione e degli skills e non della razza. Infatti il decollo economico – e non solo dell’Asia – si è verificato contemporaneamente all’entrata della Gran Bretagna nell’Unione Europea, con la conseguente caduta dell’interscambio commerciale fra UK e Nuova Zelanda. Tuttavia, secondo gli autori, la Nuova Zelanda non sarebbe una Britannia del Sud migliore: il mito del buon rapporto con i Maori è infondato, perché questi in effetti sono stati derubati di terra e risorse. I Maori furono collocati a metà fra i Bianchi e le Altre Razze, ma furono marginalizzati come i Cinesi e le interazioni fra le razze di quello che gli autori chiamano provocatoriamente “il Resto” (i non Bianchi) furono ignorate anche nella Gran Bretagna “buona”.

Il rapporto fra le diverse razze e nazionalità è in questo contributo messo particolarmente a fuoco. La gerarchia sentita sarebbe: Gran Bretagna – Nuova Zelanda – East Asia a sua volta gerarchizzata in Giappone – Taiwan – Cina. All’interno del mondo cinese, poi, Hong Kong e Taiwan sono avvantaggiate perché si sono orientate verso l’Ovest 20-30 anni prima della Cina che ha cominciato a farlo solo con Teng Hsiao Ping. Infatti, anche se la struttura fondamentale è Ovest contro il Resto degli Altri, il razzismo si gioca anche all’interno del Resto ed anche lì ci sono le stratificazioni. In Nuova Zelanda ad esempio i Cinesi sono considerati middle class mentre i Maori rimangono working class. Dunque, il testo auspica che il dialogo prima di tutto avvenga all’interno del Resto degli Altri e solo poi con l’Ovest.

Tornando al tema fondamentale, l’Ovest non punterebbe più sulla forza, ma sull’egemonia, perché viene visto come migliore, più moderno, più civilizzato. Ciò genera anche lo sfruttamento di giovani studenti asiatici in Nuova Zelanda che fanno lavoretti per mantenersi e, o vengono pagati pochissimo o addirittura pagano per potere poi avere il permesso di residenza.

Centro del contributo è la affermazione che gli studenti Altri cioè non bianchi ed in particolare asiatici in Nuova Zelanda non devono essere più “Cash Cow” cioè Mucche da mungere, ma quello che in effetti sono, cioè risorse culturali. Questi studenti sono peraltro stati orientati dall’Illusione che l’Ovest sia la patria dell’esaltazione del pensiero critico “out of the box”, fuori dagli schemi. Si tratterebbe appunto di una illusione: in realtà l’asiatico è a priori out of the box e per integrarsi deve pensare inside the box, dentro agli schemi. La cultural responsivness, la sensibilità culturale, un pilastro della autodefinizione occidentale, viene definita come l’abilita di imparare dagli altri e di relazionarsi con la gente della propria cultura, cosi come con quelli che provengono da altre culture. Ma, anche se viene proclamata come criterio di valore accademico, è vuota retorica, se non c’è colloquio e rispetto per l’ideologia della minoranza. Secondo la teoria delle interferenze e del multiculturalismo e del sincretismo critico di Chen, tutte le culture sono allo stesso livello e le diversità devono essere protette. Verso l’Ovest non c’è dunque ostilità, perché è sentito come una risorsa culturale, ma in prospettiva si vede il passaggio di potere culturale dall’Ovest all’ Asia. Condizione ne sarebbe non solo capire le parti differenti dell’ Asia (vedi sopra), ma trascenderle per cambiare il mondo.

La rivendicazione del Confucianesimo serve a rivendicare l’autonomia e la stima necessarie per questo avanzamento. Secondo questa impostazione, le teorie occidentali possono essere sostituite dal confucianesimo, che fu assunto come ideologia dell’impero 500 anni dopo la sua nascita, come strumento di glorificazione della Grande Cina. Quando l’Impero collassò, il confucianesimo fu sradicato da Mao Tse Tung come il Vecchio, causa del collasso di fronte all’Ovest…

Nel campo educativo si tratta di coltivare nuove prospettive e di cambiare le priorità e le gerarchie nel curriculo. Esempio: l’idea di gioco come base dell’apprendimento nell’infanzia che è alla base della formazione degli insegnanti in Nuova Zelanda fatica ad affermarsi nel Resto a causa delle resistenze culturali.

Come in quasi tutti gli altri contributi risulta evidente la sproporzione fra le premesse relative all’impegnativo quadro di sostituzione dell’Ovest come egemonico sul mondo e gli esempi portati. Tuttavia il ruolo del gioco – come, in altre esemplificazioni, il ruolo del silenzio – nel campo educativo coglie un punto cruciale e sensibile della pedagogia dell’Ovest caratteristico della pedagogia attivistica di stampo anglosassone e delle sue pretese di totalitarismo pedagogico, ad oggi tuttavia non sempre supportata da evidenze di sicuri successi.

VERSO LA DEIMPERIALIZZAZIONE DELLE STRATEGIE DELL’ISTRUZIONE
I casi della introduzione del task based learning e della reflective practice nel contesto indonesiano

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In Indonesia la battaglia per l’indipendenza ha avuto un aspetto relativo all’autonomia dei sistemi educativi dal modello originario olandese, anche se, nella globalizzazione internazionalizzata, la colonizzazione olandese continua, con i giovani che vanno all’estero per la formazione superiore. Sono state realizzate infatti riforme caratterizzate da cambiamenti culturali, che trovano però grossi ostacoli nelle strutture culturali tradizionali (obbedienza totale, ricerca dell’armonia, tendenza ad evitare conflitti) Si registrano pertanto contro l’Occidente movimenti di studiosi ed intellettuali che però pendono verso l’indigenismo, atteggiamento culturale che in Indonesia è peraltro problematico, per la presenza di influenze religiose e filosofiche diverse, se non contrastanti, come il Confucianesimo e l’Islam.

Il valore di vivere in armonia è stato molto sostenuto, così come in Australia, a causa delle numerose isole e razze che debbono essere tenute insieme. Ma, a parere degli autori, l’obiettivo della armonia sociale è stato usato per consolidare il potere della maggioranza contro le minoranze. Il multiculturalismo potrebbe essere anche un costrutto colonizzante ed in effetti in Indonesia il motto “diversi nell’unità” è diventato uno strumento di divisione e perciò di potere, poiché la negoziazione per ottenere consenso fa vincere i ceti privilegiati. Le minoranze vengono insomma viste come in uno zoo gerarchicamente ordinato e dal colonialismo olandese si sarebbe passati dunque con Suharto al neocolonialismo giavanese. L’apprendimento viene dunque orientato ad uno stile collettivista per evitare conflitti.Di conseguenza è necessario analizzare le caratteristiche dei diversi contesti e delle diverse pratiche educative per capire le rispettive compatibilità e pertanto la eventuale positività dell’innesto.

Gli esempi di pratiche educative dominanti estrapolate dal contesto occidentale che vengono qui prese in considerazione sono il TBL (Task Based Learning) e la RP (Reflective Practice).

L’inserimento del Task Based Learning, un approccio di insegnamento basato su compiti specifici, è risultato positivo perchè fondato sul lavoro in gruppo che è adatto ad una società di impostazione collettivista, che per di più non ammette che si facciano e soprattutto si mettano in evidenza errori.

Mentre, e per la stessa ragione, la Reflective Practice, pratica riflessiva, non è assolutamente adatta al contesto culturale indonesiano, perché non può essere realizzata se si vuole sempre evitare di urtare i sentimenti altrui, il che è un elemento cruciale del contesto antropologico locale.

VIETNAM, L’OVEST E IL SE’ PLURALE NELLA EDUCAZIONE TRANSNAZIONALE

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Anche qui ci si rifà a Chen che sintetizza l’atteggiamento dell’Est verso l’Ovest in risentimento e desiderio. Mentre il “dell’Ovest è caratterizzato dall’individualismo e dall’attività, il “Sé” confuciano mette al centro le relazioni sociali e ha come obiettivo l’affrontare profonde trasformazioni senza perdere la propria identità spirituale. Nella tradizione asiatica confuciana non c’è un Io ed un Loro, ma un Noi (famiglia, razza etc) ed un Loro, cosicché in realtà il singolo individuo ne risulta “espanso”.

Ma nell’immaginario dell’Ovest, l’Est viene rappresentato come differente, irrazionale, depravato, infantile ed arretrato. E l’Ovest schiaccia l’Est con l’oggettivazione del sapere, sottolineando ciò che gli studenti asiatici non sanno e non ciò che sanno. Nel mercato della educazione superiore gli asiatici vengono quindi trattati con superiorità solo come consumatori delle illusioni che vengono loro vendute.

Peraltro, poiché qui si parla di Viet Nam, è chiaro che non esiste una sola Asia – che rischierebbe di identificarsi nella Cina – ma più Asie. Si direbbe che qui venga teorizzato che il centro è il soggetto, l’individuo, non la nazione, per difendersi dalla egemonia nazionale cinese; bisognerebbe perciò parlare di aspetti non internazionali ma transnazionali. E, come nella classica impostazione di Chen, il “Sé” asiatico non deve essere opposto, ma complementarizzato al “Sé” occidentale.

La ricerca si basa su interviste a studenti vietnamiti che frequentano corsi di perfezionamento post-laurea presso sedi di università occidentali dislocate nel loro paese; l’obiettivo è indagare l’impatto dei valori occidentali sulla loro formazione.

Uno studente esprime il proprio sentire in modo particolarmente incisivo quando sintetizza la situazione così: è come se avessimo chiesto una Coca Cola e ci fosse stata data una Pepsi (il che dimostra la grande famigliarità dei giovani vietnamiti con i consumi occidentali). Solo apprendimenti strumentali di gestione del business insomma e non competenze di alto livello, mentre la costruzione del dal punto di vista morale ed intellettuale è forte nella traduzione confuciana. Secondo la ricerca, nell’Ovest queste premesse idealistiche sarebbero state realizzate solo negli anni ’60: l’impressione è che qui ci si trovi di fronte all’introiezione del mito kennediano, nonostante le premesse demistificatorie dei miti occidentali.

Un contributo su cui riflettere a fondo per la critica che fa alle promesse non mantenute della educazione occidentale. E’ vero qui si parla sostanzialmente dell’universo di valori del mondo anglosassone, ma il nostro tanto sbandierato umanesimo mediterraneo come reggerebbe alla pugna?

VIETNAM: IL RUOLO CONTROVERSO DELLA LINGUA INGLESE E DEGLI INSEGNANTI DI INGLESE

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La ricerca ha come focus gli insegnanti della lingua inglese in Viet Nam, paese in cui la professione di insegnante è in generale molto rispettata e quella di insegnante di inglese è anche molto redditizia economicamente. Tuttavia è anche contestata perché viene considerata imperialista e portatrice di valori alieni.

La domanda chiave della ricerca è se l’insegnamento dell’inglese sia un fattore di valorizzazione e potere oppure di deculturalizzazione. La commutazione di codice linguistico sarebbe, secondo gli autori, un elemento di potenziamento e non di deculturalizzazione: una tesi sviluppata contro l’ostilità politica all’inglese. Del resto la interferenza linguistica non sarebbe evitabile né sempre dannosa. E per di più in VietNam la lingua inglese non era alla base della colonizzazione ed attualmente l’inglese viene asiaticizzato dando luogo allo Singlish ed allo Chinglish.

A favore della tesi della valorizzazione viene ampiamente sviluppata l’argomentazione secondo cui le diverse caratteristiche delle lingue aiutano a dare voce a diversi sentimenti e possono essere utili in diverse situazioni. Per esempio, la semplicità dei pronomi inglesi aiuta a rivolgersi agli altri e a parlare in pubblico in un contesto culturale come quello asiatico estremamente formale, in cui la complicazione e la estrema varietà dei registri linguistici formalizzati -paradossalmente frutto di un’antica civiltà- rendono ciò quasi impossibile o comunque estremamente difficoltoso. E del resto anche il nazionalismo asiatico ha un limite e copre imperialismi e colonialismi interni all’Asia.

Nazionalismo e globalismo sono quindi complementari e non confliggenti; perciò ci può essere un terzo spazio di coesistenza ed ottimizzazione delle due lingue, e perciò delle due culture, a cura degli insegnanti. Da un lato la globalizzazione e l’uso dell’inglese possono essere una risorsa culturale superando il localismo e l’opposizione all’occidente. Dall’altro però è necessario anche evitare la idealizzazione dell’Occidente come società libera ed aperta che porta come risultato alla colonizzazione culturale.

Con una sintesi anche a noi comprensibile, il contributo identifica nella moralità (insegnamento delle regole) un elemento cruciale della identità e del ruolo dell’insegnante vietnamita, mentre nello sviluppo dello studente quello dell’insegnante occidentale. Il percorso diventa dunque quello di trasformarsi da guida morale a guida morale critica al fine di bilanciare tradizione con modernità, identità con innovazione. Il pensiero critico viene dunque individuato nella capacità di arricchire i propri punti di vista tradizionali e nazionali senza perdere la propria identità. Questo non vale solo nei confronti delle culture occidentali ma anche di tutte le altre culture. Divenire insomma “dinamici, mobili e moderni”, ma senza di perdere di vista i valori fondamentali che caratterizzano l’essere vietnamita.

BANGLADESH: SFIDE NELL’APPLICAZIONE DELLE METODOLOGIE DI RICERCA OCCIDENTALI

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La tesi della ricerca è che anche le metodologie di ricerca sono legate alle culture da cui provengono. Tuttavia in premessa si afferma che la definizione di cosa sia Asia non è semplice: nella impostazione di Chen il Medio Oriente non si riconosce, mentre paradossalmente lo fa di più l’Australia. Emerge poi un dualismo fra l’asse cino- giapponese e quello che ha come baricentro l’India, alla cui area culturale appartiene il Bangladesh. Come in India, infatti, il sistema educativo del Bangladesh – modellato sul sistema inglese – ha fra le sue caratteristiche l’abitudine ad ispezioni improvvise, con notevoli poteri decisionali nei confronti delle scuole. Perciò qualsiasi attività di ricerca rischia di essere equiparata ad una ispezione, con tutte le conseguenze del caso.

Oggi, poiché il sistema educativo è pesantemente sostenuto dai donatori stranieri, gli occidentali hanno ruoli guida ed impongono i loro metodi senza conoscere la realtà locale. Prima di realizzare importanti riforme venivano infatti realizzate ricerche in modo solo superficiale: non è un caso se poi le riforme non abbiano preso piede. Le tradizionali ricerche input-output infatti portano molto spesso a conclusioni sbagliate o carenti e la conseguenza ne è stata che l’espansione della istruzione è stata quantitativa e non qualitativa.

A proposito di questa osservazione, si può dire che essa è attualmente molto condivisa non solo e non principalmente per quanto riguarda l’area asiatica, ma soprattutto per l’area africana ed anche in parte per quella del Sudamerica.

A proposito delle metodologie di ricerca da utilizzare in un simile contesto è cruciale che non presentino rischi per la sopravvivenza e la vita delle scuole. La richiesta di permesso per raccogliere dati è problematica sia per una attitudine generale alla reticenza, sia perché le autorità temono che durante la ricerca emergano informazioni che blocchino i finanziamenti; emerge perciò fortemente la necessità di usare anche le relazioni personali, come è tipico di questo tipo di società. Anche nel reclutamento dei partecipanti alla ricerca è necessario fare molta attenzione, poiché per il desiderio di soddisfare un universitario – che è considerato gerarchicamente e socialmente superiore – spesso vengono reclutate troppe persone, che per lo più non sono né realmente interessate né competenti e perciò abbassano il livello dei risultati.

Sempre sulla stessa lunghezza d’onda, gli autori affermano che non bisognerebbe dare per scontata la comprensione delle terminologie usate nei questionari on line. Questi andrebbero pertanto evitati, in modo da rendere possibile la spiegazione delle domande durante la somministrazione e questa dovrebbe essere condotta in modo che le risposte avvengano separatamente, per garantire la loro attendibilità. Un altro ostacolo da superare poi è il desiderio di compiacere chi si trova in una posizione superiore e di evitare conflitti e contrapposizioni che genererebbe la tendenza a cercare la risposta giusta anche sulle scale Likert.

Viene da osservare che la società del Bangladesh, cosi come quelle asiatiche, non è poi, per queste caratteristiche, radicalmente diversa dalle nostre e che queste avvertenze metodologiche dovrebbero rientrare nelle capacità professionali dei ricercatori anche occidentali. Qui però viene da ricordare che già in altri contributi si e fatto riferimento a rigidità super occidentalizzanti dei ricercatori inviati dai “donatori”, non sempre versati per propria formazione meramente economica o ingegneristica in sottigliezze antropologiche.

CONTRO IL METODO ASIACENTRICO: PRODUZIONE TEORETICO-LINGUISTICA DI SAPERE FRA AUSTRALIA E CINA

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Questo capitolo parte da una contestazione piuttosto radicale alla impostazione di Chen, che sostiene che l’Est ha avuto grande importanza nello sviluppo scientifico e che quindi non è stato solo l’Ovest a guidarlo; nei secoli il flusso di idee è dunque stato in più direzioni. L’Asia di Chen sarebbe costituita sostanzialmente da Cina, Taiwan e Giappone; il rapporto con l’Australia si spiega poi con il fatto che quel continente sarebbe stato colonizzato dagli asiatici se il divieto di immigrazione dall’Est non ne avesse determinato la sua attuale natura “bianca”. Ma i quadri di riferimento di questa battaglia di autonomizzazione dall’Ovest non possono che essere multipli ed a livello internazionale.

Dunque si dice no ad un quadro di riferimento alternativo a quello dell’occidente, ma sinocentrico: la prospettiva internazionale asiatica non può essere limitata a quella dell’area ad egemonia cinese. Il testo poi approfondisce la polemica: in tempi di grande crescita pacifica della sua ricchezza, come pensa la Cina che verrà presa la sua ipotesi? come imperialismo… Del resto il secolo terribile della Cina, il 900, sarebbe stato anche dovuto a forze centripete di barbarie autoinflitta. Se non riconosce ciò – insiste il contributo – come può sfuggire alle accuse di narcisismo e di chauvinismo?

L’argomento specifico della ricerca è il Progetto ROSETE realizzato avendo come perno l’università australiana di West Sidney su tematiche relative al curriculum. La metodologia utilizzata è quella derivante dal concetto di ricerca-azione introdotto in Cina da un allievo di Dewey. Obiettivo di ROSETE è rendere il cinese insegnabile in contesto esterno utilizzando le metafore cinesi o indiane come strumenti teorici.

Secondo le teorie linguistiche dell’Ovest tutti i rifugiati che arrivano in Australia sono illetterati, la cultura cinese è solo sapere locale (local wisdom) ed i suoi detti e metafore sono vecchi modi di dire (old says) In opposizione a questo pregiudizio la ricerca parte dagli old says e li teorizza come concetti astratti, creando così un quadro di riferimento teorico astratto non solo occidentale.

COMMENTO FINALE

Questo libro, apparentemente di tema esotico, può ricoprire un grande interesse anche per italiani che si occupano di scuola.

Siamo infatti ancora portati a pensare che il grande sviluppo attuale dell’Estremo Oriente, che è sotto gli occhi di tutti, sia essenzialmente fatto di produzione di massa di merci di basso valore e di basso costo – con qualche spiraglio nel campo tecnologico – e che la cultura sia colà o un fatto di old says come si dice in un contributo o di mera e di pedissequa imitazione dei nostri modelli e paradigmi.

Scopriamo invece che, insieme con l’alzare la testa dal punto di vista economico, colà si rialza la testa anche da quello culturale ed ideologico. Ed è cruciale questo rapportarsi all’Occidente non in termini di subordinazione, ma neanche di opposizione nativista, come invece è stato e per certi versi è ancora tipico di culture meno sofisticate di quelle dell’estremo oriente asiatico. Qui si sta impostando invece il rapporto in termini di parità, di serena osmosi alla pari appunto, e in prospettiva di riottenuta superiorità. Che poi questo avvenga riscoprendo Marx e riscoprendo che la geografia e la storia possono declinare in termini vari questa visione del mondo è interessante, se non curioso, agli occhi di noi vecchi europei.

La base di questa risorgenza ampiamente evocata è poi anche materiale. La intellettualità soprattutto del campo universitario vuole liberarsi dal giogo anglosassone – più che occidentale – giogo concretizzato dall’uso della lingua inglese, dall’obbligo delle citazioni dei guru inglesi o statunitensi etc. Vuole anche scuotersi dal giogo dell’ignorare i contributi asiatici: ma qui interviene il problema della lingua, anzi delle diverse e numerose lingue.

Infatti c’è un ma…che non è tanto più quella di superare gli schematismi di un Ovest liberal/liberista buono contro un Est comunista cattivo. Cosa vuol dire infatti Asia? Subito si delinea fra i contributi della zona cinogiapponese e quelli della zona indiana – cui si aggancia il VietNam per noti motivi storici – un contrasto che mira ad evitare che alla egemonia anglosassone occidentale si sostituisca quella cinese.    Il Medio Oriente invece, a detta dei diversi contributi, è fuori dai giochi: nei paesi musulmani vige la centralità della religione e non ci si basa su sapere occidentale ma neppure su un sapere nuovo, ma sul sapere islamico, anche, se non soprattutto, dopo la guerra al terrore. L’Australia e la Nuova Zelanda invece si stanno accostandoall’Asia: uno dei tre focus crosscurriculari del piano di studi australiano è la conoscenza dell’Asia, che potrebbe costituire una sorta di sliding door. Ma gli australiani per il momento rispondono poco.

E i contenuti? parliamo della scuola. Siamo chiaramente agli inizi, ma qualcosa si intravvede. Non tanto, nonostante il titolo stesso del libro, nel metodo perchè le osservazioni nel contributo a ciò specificamente dedicato non contestano alle radici le metodologie occidentali, ma si limitano a sottolineare la necessità di tenere conto della realtà del contesto. Osservazione valida sempre, se non fosse che chiaramente la ubris neoliberista, insieme alla formazione economico ingegneristica dei missi dominici dei “donatori” internazionali (Banca Mondiale, ONU nelle sue diverse articolazioni etc) ha fatto danni o comunque non ha portato benefici proporzionali agli investimenti. Gli asiatici sarebbero forse d’accordo sul fatto che sarebbe utile integrare le formazioni ingegneristico-economiche con quelle storico-geografiche nonchè filosofico letterarie tipiche del vecchio Foreign Office.

Da notare la sottolineatura della necessità di una formazione dell’Io, forse con una parziale spostamento di baricentro verso una formazione umanistica. I continui rimandi al confucianesimo sono dovuti probabilmente alla prevalenza cino- giapponese nei contributi, ma anche nelle altre aree orientali potrebbero non mancare riferimenti di significativo, se non pari valore. Particolarmente interessante il contributo sul Vietnam in cui gli studenti ed i ricercatori paragonano quanto viene offerto dai corsi, chiaramente di impostazione aziendalistica di università occidentali, ad una Pepsi in luogo della Coca promessa: apprendimenti sostanzialmente strumentali e non quella formazione dell’uomo tanto sbandierata.

Ed il fastidio per forme esasperate di attivismo, cosi ben delineato nel contributo giapponese che rivendica l’utilità e la bellezza del silenzio rispettoso nel rapporto educativo. In questo, come in altri contributi, viene riconosciuto lo stile passivizzante della tradizionale pedagogia orientale e la necessità di dare all’insegnante non più solo un ruolo “morale”, ma anche di formazione alla critica, con questo accettando l’impostazione occidentale. Ma al tempo stesso si rivendica la necessità e la liceità di un atteggiamento rispettoso, disponibile all’ascolto e non artificialmente ed obbligatoriamente intromissivo. Perché “essere nutriti“ significa anche “rimuginare ed assimilare” magari con una maggiore profondità. Vengono alla mente riflessioni sull’attuale temperie antropologica italiana: noi non abbiamo avuto, ahimè, bisogno dell’attivismo – non molto diffuso come pratica reale – per escludere il rimuginare e l’assimilare rispettoso dalle attività intellettuali prevalenti dei nostri giovani, poi cittadini.

Tornando all’Asia, l’impressione è però che siamo solo agli inizi e forse un ripensamento anche in chiave critica di alcuni nostri apriori e modelli – sentiti talvolta come indiscutibili – potrebbe aiutare l’Ovest nel futuro ormai prossimo a conservare il meglio della propria identità e tradizione.

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