Trame di relazioni della Generazione Z

Elena Marta, docente di Psic. sociale e di comunità, Membro del comit. Scientifico dell’O.G. - Istituto Toniolo

Buon pomeriggio a tutti e a tutte. Ringrazio per questo invito, anche perché, questa mattina mi sono sentita “a casa” sentendo i temi che sono stati affrontati. Molte delle cose che pensavo di dirvi sono in parte già state introdotte e questo mi fa molto piacere, nel senso che mi facilita il compito. Che cosa ho pensato di narrarvi oggi? Perché anche questa che vi propongo è la narrazione che noi come gruppo di ricerca, quando dico noi dico l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, stiamo realizzando in questi anni con giovani adolescenti.

Allora, l’idea è quella di provare a raccontarvi quello che è emerso da queste indagini che periodicamente facciamo, se volete curiosare su www.rapportogiovani.it trovate molti dati e molti documenti in chiaro proprio perché lo spirito del lavoro che facciamo è uno spirito di condivisione, con chiunque abbia voglia con noi di ragionare sul tema degli adolescenti e dei giovani adulti. Questa rilevazione sugli adolescenti, con gli adolescenti, nasce nel 2017, l’Osservatorio nasce nel 2012, quando ci rendiamo conto che è interessante studiare cosa i giovani (ndr: dopo la fine della scuola secondaria di secondo grado) ci dicono, ma è anche importante aggiungere la fase precedente e quindi mettersi in ascolto degli adolescenti. Adolescenti delle scuole, Infatti come sapete è difficilissimo raggiungere adolescenti che non sono a scuola. Adolescenti delle scuole con campioni nazionali e con approfondimenti locali, sia attraverso dei questionari sia attraverso dei focus group.

Molto spesso sono ricerche compartecipate dagli adolescenti, nel senso che con gli adolescenti cerchiamo anche di capire ogni anno quale potrebbe essere il tema che sta loro a cuore trattare e spesso con loro andiamo a co-costruire gli strumenti che poi usiamo.

Quindi una ricerca che vuole ascoltare questa generazione, liberando il campo da una serie di stereotipi, perché – e lo dico da subito – queste ricerche non sono ricerche che stanno dalla parte degli adolescenti, da adulti non ci interessa stare da una parte o dall’altra. Ci interessa capire, capire però con mente sgombra da pregiudizi ed evitare di prendere la parte per il tutto. Dico questo perché molto spesso quando si parla degli adolescenti si parla di persone che attraversano una fase di criticità e l’attenzione tendenzialmente viene posta sulle criticità – che ci sono e nessuno lo nega – ma l’approccio che noi abbiamo voluto usare parte da alcuni presupposti che, pur tenendo conto di tutto quello che conosciamo di questa fase della vita, prova a rileggerlo in maniera più articolata e più complessa

Ci muoviamo secondo quelli che sono i principi della psicologia di comunità, considerando gli adolescenti e le adolescenti soggetti attivi in un contesto, ricordandoci sempre che sono teste pensanti, che stanno in un contesto come la scuola o in altri contesti, che in questi contesti ci mostrano quello che riescono, che possono, quello che noi consentiamo a loro di mostrarci. Soggetti attivi vuol dire ragazzi che sono portatori di risorse, che sono portatori di talenti, ciascuno il proprio. È difficile standardizzarli perché i ragazzi hanno talenti e risorse differenti, ma è lo sguardo che poniamo su di loro, è già stato detto stamattina, che molto spesso fa la differenza e consente ai ragazzi di manifestarsi nelle loro fatiche e nelle loro risorse e di mostrare a noi quello che noi andiamo cercando.

L’altro aspetto è di provare a considerare la scuola come una comunità, ma anche come un nodo all’interno di una comunità locale. Quindi un nodo comunitario in rete che potrebbe, dovrebbe, sarebbe interessante, che si mettesse in rete con altre realtà – che sono le associazioni genitori, come già spesso accade, i contesti locali – una rete dove ciascuno ha pari dignità, evitando che la scuola sia invasa da iniziative esterne. O che la scuola sia vista come il laboratorio in cui sperimento delle cose, poi se serve alla scuola serve ai ragazzi. Questo è un altro discorso.  Ma evitare l’isolamento della scuola.

Quello che noi abbiamo potuto sperimentare nel lavoro di comunità che facciamo è che la scuola da sola non ce la fa, le istituzioni da sole non ce la fanno. Allora forse è il momento di leggere la propria azione educativa come comunità all’interno di una comunità più ampia e quindi accedere a una dimensione di reti integrate in cui una generazione adulta – avendo in mente che il suo compito è quello di far crescere cittadini che sono soggetti attivi in un contesto – rischia insieme la responsabilità, ciascuno dal proprio punto di vista, di far crescere questi cittadini.

L’altro elemento che vorrei sottolineare è l’approccio che abbiamo scelto, ossia il positive development. Le positive development – e in questo senso recuperiamo aspetti che abbiamo sentito stamattina – sostanzialmente sottolinea che noi siamo fatti delle relazioni che viviamo e dei contesti in cui viviamo. Cosa vuol dire quindi per un adolescente crescere? Vuol dire vivere delle relazioni che sperimenta. A scuola, in famiglia, nella società sportiva, nel gruppo musicale… vivere delle relazioni e dei contesti. E questo, trattandosi di relazioni, è un gioco bidirezionale. Gli adolescenti mettono il loro e noi mettiamo il nostro ed è, si diceva anche stamattina, dall’interazione tra le due generazioni che si costruisce quello che loro vivono a scuola, che gli insegnanti vivono a scuola, che in qualche modo i dirigenti vivono a scuola.

Allora questo sguardo del positive development va oltre un paradigma cui forse siamo abituati che è quello dei fattori di rischio e dei fattori di protezione. Certamente l’adolescenza è una fase difficile, è una fase che ha dei rischi evolutivi e dei rischi non evolutivi, è importante proteggere gli adolescenti dalle situazioni di rischio. Ma il paradigma del rischio e della protezione dal rischio parte sempre dal leggere in prima battuta il rischio e a vedere meno invece quella parte di risorse, quella parte di talenti che vanno invece potenziati e sviluppati. Allora il positive development, ripeto, dice “io lo so che ci sono le situazioni di rischio, però è importante lavorare”.

Pensate che il positive development nasce in alcuni quartieri newyorkesi da psicologi di comunità che, lavorando in quartieri marginali, hanno sperimentato che l’approccio del rischio e della protezione dal rischio non era efficace più di tanto, per lavorare con questi ragazzi in situazione di marginalità. Allora pur avendo in mente che c’è quella componente di rischio, il positive development invita a pensare ai ragazzi come portatori di competenze, chi più chi meno, ciascuno le sue.  Crescere vuol dire trovare un contesto e delle relazioni che mi aiutano a far crescere queste competenze, trovare il modo perché quelle competenze possano essere testate e diventare efficaci, trovare una traiettoria che non dimentica le mie fatiche, che ha in mente la mia situazione di difficoltà, ma vede in me anche qualcos’altro.

Noi diciamo sempre, posa su di me uno sguardo di fiducia e di speranza perché, lo vedremo, i ragazzi sentono talvolta che noi facciamo fatica a fidarci di loro. Se non c’è fiducia non c’è speranza, se non c’è speranza non c’è progettazione del futuro. I ragazzi sono consapevoli che da soli non ce la fanno, ma sono anche consapevoli che, se vediamo solo le loro fatiche e non anche le loro capacità, in un qualche modo prendiamo una parte per il tutto.

Il positive development valorizza i contesti e sostanzialmente riconosce che l’adolescente compie degli sforzi, perché gli adolescenti devono muoversi, non si vuole passivizzare gli adolescenti o pensare che loro non debbano fare la loro parte. Questo è un approccio che ridà dignità e richiama alla responsabilità e quindi dice: “io adulto faccio la mia parte, ma so che tu puoi fare la tua e allora falla, ti aiuto, ci sono, però tu fai la tua parte”. E va a misurare soprattutto le variabili, le competenze su tutti i fronti, la possibilità di provare fiducia nei diversi contesti e di sentirsi oggetto di fiducia, la capacità di costruire relazioni, lo sviluppo armonico del carattere, quindi la componente etica e morale dello sviluppo dei ragazzi, la capacità di avere cura, e anche il contributo che loro possono dare alla crescita personale della loro famiglia e della comunità. Perché attraverso questa misura noi gli meta-comunichiamo che noi sappiamo che loro possono dare un contributo. Non importa se è piccolo o grande, ciascuno lo darà in base alle proprie capacità però: “tu un contributo lo puoi dare, lo sai dare, io credo nel valore del contributo che tu darai”.

Ora vorrei presentarvi sinteticamente alcuni risultati che vengono dall’ultima rilevazione, quella che è confluita nel testo “Adolescenti nell’era del doppio dramma”, che ha provato a sondare cosa vuol dire dal loro punto di vista essere adolescenti oggi dopo una pandemia, in una situazione di conflitti che oggettivamente loro non si aspettavano, che nessuno si aspettava. Loro però si sono sentiti intrappolati in questo mondo adulto che ha fatto fatica a gestire una pandemia e fa fatica anche a comprendere, spiegare, a gestire situazioni di grandi conflitti.

Non mi soffermo sulla metodologia. È un campione di studenti – di licei, di istituti professionali, di istituti tecnici – rappresentativo della popolazione italiana di studenti delle superiori. Accanto a questo campionamento, ci sono poi due campionamenti, ciascuno con 800 ragazzi, tra i 14 e i 19 anni, 12 focus group che abbiamo fatto in tutta Italia, proprio con l’obiettivo, di misurare le loro competenze, di provare a misurare una variabile che ci sembra interessante che è questa del mattering, cioè il pensare di contare per gli altri, che ha dentro due radici, il pensare che gli altri mi riconoscono come  valore e il credere che questo valore mi consente di dare un contributo significativo. E poi ai ragazzi nei focus group abbiamo chiesto: “Come stai vivendo questo momento?”, “Che cosa potrebbe aiutarti a crescere?”, “Che cosa ha voluto dire per te la situazione che hai vissuto e che stai vivendo e che cosa invece pensi che sia per te un freno alla tua crescita?”

 

I risultati

Vi presento proprio a pennellate alcuni risultati, poi se volete approfondire qualcosa è in chiaro sul sito dell’Osservatorio Giovani e qualcosa si trova anche nei nostri testi. Tra i testi presentati nella prima slide, c’è un approfondimento, una ricerca-azione partecipata che abbiamo fatto con il tavolo Don Milani di Pordenone, il titolo del testo è Fateci domande intelligenti. Il titolo viene dall’affermazione di uno studente con cui abbiamo costruito il questionario, con cui abbiamo commentato i dati, che è stato molto attivo nella parte anche di presentazione dei dati a tutta la comunità. Il docente che ce l’aveva in classe pensava: “questo ragazzo è sempre stato un po’ passivo, un po’ nascosto, di quelli che non ti danno problemi perché stanno lì buoni”. Pensare di partecipare a una ricerca l’ha molto motivato e scherzando, il docente gli ha detto, ah, ma allora, ti sei svegliato? E lui “Tranquillo- dice- prof, non è che mi sono svegliato, è che se mi fate domande intelligenti, vi rispondo, se mi trattate come uno stupido me ne sto nel mio brodo. E quindi fateci domande intelligenti” è la sua formulazione.

Poi, guardate, lo sapete voi meglio di me. I ragazzi dicono le cose come le sanno dire, ma se li stiamo ad ascoltare – tra l’altro mi piace molto nelle lingue orientali, se non erro, nella lingua giapponese, l’ideogramma di ascoltare dice: vedere e sentire – se io li vedo per quello che loro sono e li ascolto per quello che sono, sono un’avventura fantastica. Poi ti fanno arrabbiare, poi ti fanno venire il mal di stomaco, poi… va bene, questo fa parte della vita, però c’è anche l’altra realtà.

Allora, nei dati che noi abbiamo considerato, che riguardano i ragazzi, in questo senso andando oltre gli stereotipi, si riconoscono una capacità di cura e di empatia nei confronti degli altri. Sono loro percezioni, ma se li vogliamo agganciare, dobbiamo partire da come loro si percepiscono. Poi gliele possiamo confermare o sconfermare queste percezioni, ma se non entriamo in sintonia e non capiamo dove loro si posizionano, con la testa, con la pancia e con il cuore, diventa poi difficile che riusciamo a costruire insieme.

Quindi queste sono le loro percezioni: Cura ed empatia i maschi percepiscono di avere più risorse delle femmine, tranne che nella cura. Torniamo di nuovo a vedere il passaggio tra i 15-16 anni come un passaggio critico. Sembrava che la soglia fosse stata anticipata, spostata.  Nelle rilevazioni che noi facciamo – e questa è la conferma, dato che è dal 2017 che monitoriamo la cosa – 15-16 anni è tornata ad essere di nuovo la fase in cui hanno bisogno di essere accompagnati di più. Il mattering, il pensare di poter contare in famiglia è più alto che a scuola. Ma la loro percezione della scuola è che non è ancora passata del tutto la lunga scia della Covid, che l’organizzazione non è ancora tornata come prima. L’aspetto importante è che le aree di questo poter contare sono interdipendenti e la correlazione tra il mattering a scuola è fortemente correlato con il pensare di contare rispetto agli amici. Quindi la scuola è vista come contesto anche di socializzazione che ti insegna a costruire la relazione con un altro pari, a partire da una relazione verticale. Il mattering a scuola è quello più correlato con le 5C. Questo dice del grande lavoro che voi fate, vi restituisce anche dalle percezioni dei ragazzi il valore di quello che voi fate. Se si sentono valorizzate/i a scuola, sentono di avere più competenze, sentono di potersi fidare più degli altri, sentono di poter costruire e c’è proprio questo circolo virtuoso tra sentirsi valorizzati e l’impegno nella comunità. Credo che questo sia un bel dato per voi, che dà una grossa responsabilità, ma dice anche che quello che fate non è vano, che anzi per i ragazzi ha una grossa importanza.

In maniera molto sintetica, qui sono riassunti tanti temi che sono l’esito dei Focus Group. Vi dico solo un paio di cose che mi sembrano interessanti e che vorrei condividere con voi.

D’accordissimo con tutte le ricerche che dicono che i ragazzi hanno un problema di ritiro sociale, hanno un problema di isolamento, hanno un problema di mood depresso. Però attenzione, di nuovo, non prendiamo la parte per il tutto. Non ci sono solo questi adolescenti. Ci sono tanti adolescenti che in questo momento vivono un’altra emozione che è la rabbia.

Questi ragazzi sono arrabbiati con noi. Ma tanto! Perché? Perché durante la pandemia noi li abbiamo illusi che avremmo cambiato le nostre priorità. Gli abbiamo detto con quegli imbarazzanti striscioni sui balconi: “Siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti interdipendenti, ma ci vogliamo un bene dell’anima”… Loro c’hanno creduto, loro c’hanno creduto davvero e hanno iniziato a cambiare le loro priorità valoriali, hanno incominciato a vedere la vita in modo diverso, hanno incominciato a vedere che non è vero che siamo tutti sulla stessa barca, perché c’era chi aveva un barchino fatto di carta che rischiava di affondare subito alla prima folata di vento e c’era chi aveva uno yacht e che forse questo non era tanto giusto, anche se loro erano sullo yacht, ma si sono resi conto delle ingiustizie sociali. Hanno provato a fare un cambio di marcia e finito il Covid, gli abbiamo detto “Sai che c’è? Scherzavo, non ci avrai mica creduto davvero?” Loro ci avevano creduto davvero.

Quindi si sono sentiti traditi. È una società del mostrarsi, dove gli adulti molto spesso sono poco coerenti, dove gli adulti non ti vedono come qualcuno in fase di crescita, ma dall’altra parte il Covid ha fatto riscoprire loro anche un’altra cosa, non solo la consapevolezza di sé, di cosa vuol dire costruire il sé, ma anche la consapevolezza delle relazioni autentiche.

Sanno riconoscere l’adulto autentico e dell’adulto autentico si fidano. Lo vanno a cercare, ne hanno bisogno, sanno che da soli non ce la possono fare, ma vogliono un adulto coerente, non un adulto perfetto, loro ce l’hanno detto. Vogliamo capire come si fa di diventare grandi anche nelle imperfezioni, non come non si cade, ma come ci si rialza quando si cade, non nell’iperprestazione. Non possiamo essere iperprestativi su tutto. Possiamo essere noi stessi, ma ci ha aiutate ad essere noi stessi?

Una ultimissima cosa, poi qui ci sono molti altri dati, ma solo due cose. Gli abbiamo chiesto “a che cosa serve la scuola secondo voi”. Ve le faccio scorrere velocissimamente. Sono tutte domande a cui hanno dato una risposta di accordo tra 79 e 80%. La scuola deve promuovere un pensiero orientato al futuro oltre che la conoscenza storica. Loro non capiscono questa guerra. Alcuni ci hanno detto “mi spiegano la guerra punica, ma io questa guerra ce l’ho dietro casa”. E io siccome vengo da un Covid, ho pensato di over-compensare quello che ho perso con il covid, e la guerra mi fa così tanto paura che io vado a over-compensare ancora di più. “Tutto, piglio tutto quello che posso pigliare, perché domani io non so cosa accade. Un covid, due guerre, e cosa accade ancora? E tu non sai rassicurarmi come adulto. Quindi…” Però credono che la scuola sia capace di fare questo e debba fare questo, che debba avere uno sguardo interdisciplinare, che debba aiutare a collegare le problematiche locali a quelle mondiali, che debba essere un luogo di ragionamento e non di apprendimento nozionistico.

Chiudo con questa slide. Abbiamo chiesto – ma sui temi della sostenibilità, glielo abbiamo chiesto negli anni su altre cose – “chi è più importante per te?” Guardate: per primi vengono i genitori, gli esperti, ma subito dopo ci sono gli insegnanti.

Il collega già stamattina ve l’ha detto. La scuola rimane un punto di riferimento assolutamente fondamentale per i ragazzi. Poi a volte lo dicono male, a volte lo riconoscono dopo, a volte fanno fatica, ma rimane sicuramente un luogo da cui loro si aspettano di avere non solo nozioni, ma anche formazione per la loro crescita.

E credono in voi quando effettivamente, in maniera autentica, li accompagnate in questa crescita. Grazie.

IL VIDEO DELLA RELAZIONE

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