Ogni istituzione, al di là delle funzioni specifiche che deve assolvere, plasma un’etica pubblica. Istituzioni efficaci ed efficienti oltre a soddisfare i bisogni dei cittadini, favoriscono l’aggregazione sociale ed il civismo. Al contrario istituzioni inefficaci e inefficienti, non solo non garantiscono alcuni basilari diritti, ma alimentano il cinismo, la diffidenza, la slealtà nei confronti delle istituzioni e l’indisponibilità a riconoscersi corresponsabili dell’attuazione di valori comuni.
Le istituzioni mal funzionanti producono dunque dis-valori e finiscono per ostacolare la consapevolezza di un comune destino e l’obbligazione morale verso la comunità nazionale.
Posta in questi termini la questione delle responsabilità dell’istituzione scuola cambia prospettiva, ed è chiamata a fare i conti con il fatto che tra i giovani, per il concorso di una pluralità di cause remote e recenti, vige oggi una sorta di “analfabetismo istituzionale”, associato a un modello culturale fatto di diffidenza per le istituzioni democratiche e di sfiducia verso gli altri.
Rispetto a questo stato delle cose la scuola non rappresenta un antidoto, anzi, perchè accanto alla sua pedagogia esplicita non sa sviluppare quell’educazione implicita, che si attua nella pratica quotidiana e nelle sue regole, troppo spesso ignorate o violate.
C’è molto da fare per lo studio approfondito dell’educazione implicita .
L’esercizio che proponiamo non ha finalità scientifiche o pretese di fondare una nuova pedagogia, ma è un invito a guardare “da lontano”, con sguardo quasi etnologico l’ambiente in cui lavoriamo, e in cui vivono milioni di giovani futuri cittadini.
Sono microanalisi che sfuggono agli sguardi distratti di molte persone, compresi i politici e i sindacalisti, tutti impegnati nella GRANDI riforme.
1. LA VIOLAZIONE DELLE REGOLE
A) Perché in Italia l’anno scolastico non inizia mai regolarmente?
A memoria d’uomo l’anno scolastico in Italia non ha mai avuto un inizio regolare, nemmeno durante il fascismo, che aveva promesso anche i treni in orario!
Nel costante marasma delle nomine, di tutti i tipi, tantissimi alunni a settembre cominciano la scuola senza avere certezza di chi saranno i loro insegnanti.
Che immagine si saranno fatti della scuola milioni di bambini/ragazzi (poi cittadini) che hanno vissuto questi caotici inizi d’anno scolastico, che spesso si protraggono per mesi con cambio di insegnanti?
Che considerazione per una istituzione che dovrebbe educare con l’esempio e il rispetto delle regole?
Eppure, dai più questo caos istituzionale di ogni inizio di anno scolastico non è considerato nè un ostacolo all’eguaglianza dei cittadini nè una forma grave di dis-educazione.
Ma noi continuiamo a chiedere: “E’ davvero troppo pretendere per tutti un regolare inizio di anno scolastico? E con inaugurazione ufficiale in ciascuna scuola, perchè i riti hanno un alto valore simbolico, sono parti fondamentali dell’educazione implicita.
2. L’INCURIA DEL BENESSERE A SCUOLA
A) Perché gli studenti italiani non vanno a scuola volentieri?
Il rapporto Pisa Ocse 2012 ha fatto emergere che il 38% degli studenti italiani di 15 anni ritiene che la scuola sia un luogo in cui non si ha voglia di andare.
Il nostro Paese si trova in 54° posizione, con altre 10 nazioni in cui gli studenti sono fra i meno felici, ma con ben 53 nazioni sopra di noi in cui gli studenti sono più felici.
Nel 2016 la situazione non è molto cambiata secondo il ritratto che dei ragazzi italiani ha fornito il Rapporto sulla salute e il benessere dei giovani pubblicato dall’ufficio europeo dell’ Organizzazione mondiale della Sanità (OMS 2016).
L’indagine, che viene condotta ogni quattro anni, presenta i dati raccolti nel biennio 2013-2014 su un campione di ragazze e ragazzi di 11, 13 e 15 anni.
Secondo lo studio dell’Oms, solo il 26% delle undicenni e il 17% dei coetanei maschi dichiara che la scuola gli “piace un sacco”. Un dato che, a 15 anni, scende rispettivamente al 10% e 8%. Lo ‘stress da scuola’ colpisce il 72% delle quindicenni e il 51% dei ragazzi.
Essere felici di andare a scuola è un sentimento estraneo alla nostra immagine dell’istituzione, che ha radici antiche e si basa essenzialmente sulla separazione tra istruzione ed educazione.
Il rifiuto di considerare il problema del benessere degli allievi non è una lacuna o un difetto, è una vera e propria concezione della scuola: si crede che il piacere non sia formativo e che abbia a che fare con l’inutile, il futile e il lassismo. Allora, come mai molti ragazzi trovano piacere nello sforzo di correre, di scalare montagne, di fare piccoli lavori di ogni genere, di imparare la musica o di leggere i sette tomi della saga di Harry Potter? Come mai molti studenti che rifiutano il lavoro scolastico mettono straordinarie energie e una considerevole ostinazione nell’imparare cose “gratuite” e disinteressate fuori dalla scuola? Come mai lettori “forti” rifiutano le letture scolastiche e giovani virtuosi di informatica rifiutano l’apprendimento della matematica di scuola?
Tutto questo ci dice che c’è qualcosa che potrebbe ispirare una scuola dove i giovani abbiano voglia di andare.
La ricerca del piacere di andare a scuola non consiste solo nell’offrire un ambiente di lavoro piacevole, essa cerca in primo luogo di produrre gli attori di una società democratica. E nessuno mai imparerà l’etica democratica senza avere esperienza di vita democratica. Senza di ciò c’è temere che un gran numero di allievi imparino a sogghignare, misurando la distanza tra la vita scolastica com’è e gli appelli rituali alla solidarietà, all’onestà, all’uguaglianza, alla tolleranza e al rispetto reciproco che essa professa un’ora per settimana per ignorarli tutto il resto del tempo.
La ricerca del benessere degli allievi è una sfida politica. La scuola è una istituzione educativa nella quale il sentimento del benessere degli allievi non può essere una variabile vagamente sentimentale… deve essere una vera politica delle scuole.
B) Perché in Italia non esiste il concetto del diritto alla pausa nella organizzazione del tempo e degli spazi scolastici?
Almeno dal XVII secolo, Il tempo vuoto – detto anche tempo bianco – tra una lezione e l’altra ha assunto varie denominazioni: intervallo, ricreazione, sosta, “stacco”, e altro ancora, ma in Italia non esiste una parola che lo identifichi con precisione. Questo imbarazzo del vocabolario è dovuto alla difficoltà dei legislatori di concepire il concetto stesso del diritto inalienabile dei bambini e dei ragazzi di ricrearsi entro l’orario scolastico.
I Gesuiti, in questo, non avevano nè timidezze né rivali e lo chiamavano ricreazione ordinaria e straordinaria, e seppero stabilire norme precise e dettagliate, citando persino Orazio: Omne tulit, qui miscuit utile dulci (Raggiunge la perfezione chi sa unire l’utile al dilettevole, Orazio, Ars poetica).
La Repubblica non ha mai avuto nemmeno la tentazione di dare un nome a questa “cosa” da concedere gli allievi, tanto che nel concepire i curricoli e la stessa architettura scolastica non ha mai preso in considerazione “il benessere degli studenti”. Prova ne sia che non esistono circolari, direttive, note dirigenziali e tanto meno norme di legge per assicurare il diritto alla ricreazione. Esistono orari scolastici senza nemmeno un intervallo o con intervalli brevissimi.
Non è così in altri Paesi europei dove nella costruzione degli orari di lezione sono molto attenti a garantire a tutti – dai bambini ai giovani – un tempo di riposo adeguato: in Germania (Baviera) dopo due ore di lezione di 45’ (oggi una lezione è di 90’) ci si deve fermare per 25’ e alla quarta ora si va obbligatoriamente a pranzo (1 h e 50’). In Finlandia ogni ora è costituita da 45’ di lezione/studio e 15’ di ricreazione. E negli altri Paesi la ricreazione è integrata non solo nell’organizzazione del tempo scuola, ma anche in quella dello dello spazio e nella tipologia degli arredi. Sono previsti luoghi per leggere, per giocare, per meditare in solitudine, panche e poltrone dove sedersi comodamente, fare uno spuntino o semplicemente socializzare…
Per avere la prova di questa diversa concezione dello stare, o meglio del vivere, a scuola basta un’occhiata all’arredo dei nostri cortili scolastici, concepiti in Italia come una piazza d’armi, nuda di ogni cosa, ostile ad ogni tentazione di comfort e di relax….
C) Perché in Italia gli allievi non hanno un armadietto personale e non hanno docce da usare dopo l’educazione fisica?
L’armadietto personale in dotazione a ciascun alunno esiste in tutte le scuole del mondo dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di 2° grado.
Il Italia sono una rarità: nonostante le ricorrenti polemiche sugli zainetti e il peso dei libri, un allievo deve portarsi a scuola lo stretto necessario per lo studio… tutto il resto se lo porta clandestinamente. Lo studente non ha nessun posto o luogo dove mettere qualcosa di personale, ma nemmeno i libri di testo che quel giorno non gli servono. L’unico spazio legittimo del nostro è l’aula e lì c’è bisogno solo della nuda testa.
Perché, dopo le ore di educazione fisica, agli studenti italiani non è concesso di fare una doccia? Perché anche l’educazione fisica è una materia di studio, possibilmente con libro di testo e interrogazioni!
Perché tutto questo?
Perché la scuola italiana – quasi senza eccezione – non concepisce l’allievo come persona integrale, il suo compito è occuparsi della sua “istruzione” secondo il curricolo, tutto il resto è inutile e dispersivo, se non dannoso.
D) Perché in Italia gli alunni non giocano a calcio a scuola?
Il bellissimo film TIMBUKTU di Abderrahmane Sissako (2014) racconta di ragazzi che organizzano un’infuocata partita di calcio ma … senza pallone, perché la città di Timbuktu è nelle mani di un gruppo di fondamentalisti islamici che sparge il terrore e impone ogni tipo di divieto, tra cui il calcio e la musica. Ci piace ricordare questo episodio, evidentemente al di fuori di qualsiasi paragone con la nostra scuola! La nostra scuola, va comunque detto, “non gradisce” che i bambini e i ragazzi pratichino il gioco del calcio e spesso lo vietano
Alcuni segnali:
- la Dirigente di un istituto comprensivo proibisce il calcio con la giustificazione che discrimina le ragazze;
- un’altra fa giocare solo le ragazze perché i maschi sono troppo “forti”…;
- in molti regolamenti si legge: “Sono proibiti i giochi pericolosi, in particolare il gioco del calcio, durante l’intervallo e anche nel periodo di tempo successivo alla mensa”.
Il calcio pare addirittura vittima di una condanna morale a cominciare dalle nostre scuole primarie, dove le attività sportive competitive sono considerate diseducative e sostituite dalle cosiddette attività motorie con contenuto “terapeutico”, dove nessuno rischia di farsi male, non esistono vere regole, nessuno perde, non si gioca e non si suda (come per i Gesuiti, è permesso solo il ludus sine sudore… si può giocare ma senza sudare!)
Per molti insegnanti la competitività è una disposizione che la scuola non dovrebbe promuovere e quindi non sono neppure sensibili al problema delle regole della competizione. Èd è un errore perchè: a) in tal modo si evita di affrontare il tema delle regole della competizione, che invece riguardano il grande tema valoriale della giustizia distributiva; b) non si può ignorare la competizione, dal momento che viviamo in un mondo in cui la competizione esiste e il non riconoscerlo prepara solo a soccombere; c) non è vero che tra solidarietà e competitività ci sia una contraddizione insanabile, anzi nello sport, ma non solo, per essere meglio competitivi bisogna essere solidali (“fare squadra”), anzi, la solidarietà si rafforza quando bisogna unire le forze per meglio fronteggiare l’avversario, ma anche perché è necessario distinguere tra ambiti dove è legittima la competizione e ambiti dove deve prevalere la solidarietà e viceversa.
3. LA MANCANZA DI EDUCAZIONE POLITICA
A) Perché in Italia gli studenti godono del diritto di assemblea, ma non sanno cosa farsene?
In nessuna parte del mondo è riconosciuta agli studenti un’autonoma e autogestita assemblea generale di istituto in orario scolastico.
Un esperimento di democrazia diretta che dura da più di quaranta anni, dove però non si decide niente che riguardi concretamente la condizione degli studenti: gli orari di lezione, la pulizia dei locali, la condizione dei servizi igienici, la durata delle pause, l’efficienza o l’esistenza dei servizi interni e della mensa, la logica dei criteri di valutazione, l’organizzazione delle attività sportive o elettive… in sostanza la qualità della loro vita dentro la scuola.
Ma nemmeno si fa politica.
Nessuno si preoccupa della formazione degli allievi che organizzano ed animano l’assemblea, o si candidano all’elezione del consiglio di istituto e di classe. Né si offrono opportunità di formazione agli studenti in occasione delle scadenze referendarie ed elettorali a livello territoriale e nazionale.
Nessuno si occupa di addestrare gli studenti non solo ad organizzare l’assemblea, ma anche a parteciparvi. Così o la disertano in massa o, i pochi che restano, fanno libero esercizio retorico per le brevi e piccole “carriere politiche”.
Eppure sarebbe possibile impegnare gli allievi – di tutte le età – alla loro crescita civile e politica: in primo luogo all’argomentazione razionale, libera, dialogica, critica e problematica; quella che Cavalli chiama la pedagogia della controversia e gli americani il metodo del debate. Questo significa offrire ai giovani “esercizi” con i quali si apprende ciò che riguarda la democrazia, i valori e i principi che la fondano, i concetti che permettono di comprenderla… esercitandola.
Così facciamo brutte figure anche nel mondo.
Nella recente assemblea mondiale dei giovani che provano a fare i delegati delle Nazioni Unite (Change The World), “ la performance degli italiani è stata a malapena presentabile: la proprietà di linguaggio, la chiarezza dell’espressione, in particolare nella situazione più ardua, ovvero quella di esporre in poco tempo, il proprio pensiero a una vasta platea che ti valuta. Le capacità vivono sull’improvvisazione ed è lampante l’assenza di training al riguardo. Non è questione di un Weekend all’Onu: è un gap nella formazione, destinata a penalizzare le prospettive. Il confronto coi ragazzi americani è sconcertante. Tanto questi ultimi hanno appreso i rudimenti dell’espressione in pubblico, della comunicazione codificata, del discorso nei suoi sviluppi retorici o dibattimentali, tanto i giovani italiani sono in difficoltà a connettere forma e contenuti” (Il Sole24ore, 2016).
B) Perché gli studenti in Italia imparano a “copiare” a scuola?
Cominciano, in piccola percentuale alla scuola primaria, poi diventano schiere fino a raggiungere (loro confessione) il 62% nei licei e negli istituti tecnici e professionali. Sono dei veri campioni, e anche illustri accademici sono stati sorpresi a copiare interi capitoli dei loro saggi, senza conseguenze. Gli insegnanti, in grande maggioranza, chiudono un occhio ed anche due.
Attraverso la tolleranza della copiatura si trasmette di fatto l’idea che i meccanismi di distribuzione delle ricompense e i loro esiti possono essere manipolati, che a essere premiate non sono le prestazioni e le competenze, ma le capacità di manipolazione e che quindi la “giustizia” non è cosa di questo mondo. L’autorità dell’insegnante viene percepita come vulnerabile, aggirabile, neutralizzabile, ma comunque ostile. La “solidarietà della classe” è salva, ma l’idea che l’autorità possa essere “giusta” viene irrimediabilmente compromessa.
Ma è solo un problema morale?
C’è di mezzo ben altro: lo stato confusionale in cui versa la valutazione dopo infiniti cambiamenti, il rifiuto dell’uso delle prove oggettive (“la cultura non si misura”) e criteri di valutazione non esplicitati e la cui applicazione non è trasparente. Così gli allievi sono indotti a generalizzare e si fanno l’idea che l’autorità è sostanzialmente arbitraria e che per difendersi dall’arbitrio è necessario adottare comportamenti opportunistici, oppure contestativi.
Ma c’è anche l’assurdità del curricolo fatto da un numero impressionante di discipline in concorrenza tra loro e infine il cambiamento della popolazione scolastica, che in grande maggioranza ha un atteggiamento strumentale verso la scuola (a che cosa serve?): per la nostra cultura una bestemmia contro la retorica della scuola disinteressata.
Non è quindi un problema solo morale né disciplinare ma culturale, prodotto tipico di una istituzione dove pare naturale il timore degli allievi nei riguardi del giudizio del professore, il loro sentirsi sempre sotto attacco, la trascuratezza dei loro bisogni e delle loro proposte. Considerato da questo punto di vista il ”copiare” assume una luce nuova che chiarisce i danni causati da un certo modo di funzionare della nostra scuola.
In un’ottica di agire pubblico il passarsi i compiti e altre forme di solidarietà fra studenti “fregando l’insegnante”, invece che espressioni di un’altruistica solidarietà appaiono come l’anticamera degli episodi di corruzione e di trasgressione delle leggi ( v. tutte le forme di violazione fiscale) a cui quotidianamente assistiamo.
4. MANCANZA DEL SENSO DI APPARTENENZA
A) Perché agli allievi non è data nessuna responsabilità nella cura della propria scuola, ed è mantenuto in vita, solo in Italia, il “bidello”?
In tutti i Paesi, tranne l’Italia, agli allievi sono affidati compiti di cura e pulizia degli ambienti scolastici, così come incarichi nel servizio di mensa.
Gli studenti francesi sono responsabili della propria aula e fanno attenzione che non ci siano cartacce o altro alla fine dell’ora. In Paesi come il Giappone, in Finlandia e oggi anche in alcuni Licei tedeschi il compito di tenere puliti i banchi, le aule e i corridoi fa parte dei normali doveri degli allievi. In Usa (ma anche in altre nazioni) la vigilanza nei corridoi o nelle zone “sensibili” è garantita dagli studenti e dalla video sorveglianza.
In tutta Europa non esiste personale interno per le pulizie; le pulizie generali sono affidate, un paio di volte la settimana, a un’impresa di pulizie esterna,
L’Italia è l’unico caso nel mondo dove resistono i bidelli, promossi a collaboratori scolastici, il che significa che collaborano con qualcuno che fa il lavoro… ma loro cosa fanno veramente? Quello che stabilirono i Gesuiti 400 anni fa: vigilanza e pulizia dell’aula.
Questa atipica situazione presenta due aspetti: uno riguarda il personale ed uno gli allievi.
Per quanto concerne gli allievi, che è ciò che qui più ci interessa, l’attività di pulizia e piccola manutenzione loro affidata, fin dalla scuola dell’infanzia, sarebbe un’efficace stimolo nei confronti del senso di appartenenza alla scuola, ed è una vera e propria forma di educazione. In quanto tale non dovrebbe mai essere assegnata “per punizione” ( unico caso in cui in Italia agli studenti è richiesto questo “servizio”) , ma come attività sistematica di chi deve imparare a “vivere” nella scuola e a rispettarla.
Dal punto di vista del personale, del così detto personale non docente, il problema, come scrive un ottimo dirigente scolastico è che “chi c’è non serve e chi serve non c’è”. Abbiamo pletore di bidelli, ma non abbiamo: 1) né un medico scolastico, nè un infermiere, che con un migliaio di adolescenti sarebbero un presidio indispensabile oltre a un aiuto alla prevenzione, all’educazione sanitaria, sessuale e alimentare; 2) un “competente” responsabile per la sicurezza; 3) un tecnico in grado di gestire le reti internet ecc, 4) un giardiniere, 5) un elettricista e/o un addetto all’ordinaria manutenzione.
Non citiamo qui i documentalisti/ bibliotecari di cui si dirà al punto successivo.
Molto di questo personale dovrebbe essere gestito e assunto direttamente dalle scuole – come fino al 1975 negli istituti tecnici e professionali – con contratti “normali” di diritto privato. Ma non capiterà mai. “ Nella scuola solo dipendenti statali!” Così parlò il Sindacato!
B) Perché in Italia gli allievi frequentano pochissimo le biblioteche scolastiche ?
Finora le biblioteche nelle nostre scuole, tranne pochissime eccezioni, sono rimaste dei depositi di cultura morta (ovvero scolastica), senza che nessuno si occupi di organizzarla, aggiornarla, animarla.
In tutta Europa le biblioteche nelle scuole sono luoghi amati dagli allievi e aperti tutto il giorno. Non sono biblioteche né scolastiche né para-scolastiche, ma strutture funzionanti dove chiunque può trovare ciò che gli serve per un’informazione, per soddisfare una curiosità, per coltivare un hobby, per riflettere nel silenzio di un luogo colorato e confortevole, per discutere con i compagni, per sperimentare quello che si chiama l’effetto serendipity, la sorpresa di trovare ciò che non si cerca.
Negli altri Paesi europei, l’allievo non trova personale col compito di “conservare” un archivio o un deposito di carta, ma una guida competente… se ne ha bisogno.
Anche in questo caso la lettura di alcuni regolamenti interni della scuola è molto istruttiva: “Nessuno può accedere alla biblioteca senza essere accompagnato da un insegnante.”
E altrettanto istruttivo è come, in molti altri Paesi, il nostro allievo entra a scuola: “Alle otto le porte sono aperte e coloro che arrivano in anticipo possono andare alla mensa a prendersi una bevanda calda, in classe… nella biblioteca aperta fin dalle otto di mattina… entrano a casa loro. Senza alcun bidello o insegnante a fare da vice-mamma” (Marianella Sclavi, A una spanna da terra, 2005)
CONCLUSIONE
Reinventare l’istituzione scolastica
Abitudini, riti, cerimonie, divise, gesti, personaggi, simboli che sono affiorati nella lunga storia della nostra scuola solo in alcuni periodi, con gli anni Settanta sono stati gradualmente cancellati, se ne è persa la memoria ed anche il valore.
È vero che l’indigestione fascista di queste pratiche e dei relativi valori era giustificato dal loro segno autoritario e spesso fasullo, ma quell’apparato che oggi ci sembra così ingombrante e ridicolo è stato il più potente strumento di consenso e di socializzazione di un’intera generazione di ragazzi, spesso caduti sui campi di battaglia sbagliati, ma anche in quelli della giustizia e della libertà.
Oggi, pur con una nuova sensibilità e diversa consapevolezza, dobbiamo tornare a curare, sistematicamente, la dimensione simbolica ed emotiva del vivere insieme.
Si tratta di curare momenti tipici come l’inizio dell’anno scolastico (che deve avere una sua solennità e una partecipazione collettiva) e la sua conclusione, la consegna dei diplomi e dei premi a chi si è particolarmente distinto, ma anche la promozione tra gli allievi di iniziative di produzione culturale, come il giornale scolastico, l’annuario della scuola e le mostre, l’organizzazione dell’associazionismo, il miglioramento dell’ambiente, anche coinvolgendo genitori e studenti.
Si tratta anche di curare la memoria della scuola, come creare un piccolo museo con documenti, oggetti, immagini delle conquiste, dei successi della propria scuola.
E ancora, non costa molto fissare un giorno dell’anno, in cui il dirigente scolastico consegna ufficialmente – davanti a tutti gli studenti, gli insegnanti, il personale e i genitori – il certificato di cittadinanza italiana agli alunni figli di stranieri; oppure organizzare una giornata per salutare gli insegnanti o il personale che va in pensione, per il quale questo tipo di scuola lascia la porta sempre aperta per mille forme di collaborazione possibile.
Ugualmente occorre un’enorme attenzione a tutte le pratiche che creano benessere e rendono piacevole l’andare a scuola e il viverci.
Questa modalità di gestione non è solo una tecnica manageriale per ottenere consenso, sviluppare lo spirito di corpo tra gli insegnanti, aumentare il senso di appartenenza all’istituzione, ma è anche il prodotto di un lungo lavoro di riflessione politica, pedagogica ed educativa, che parte dalla geniale costruzione del collegio gesuitico, passando per le public school inglesi per arrivare ai migliori esempi di scuole statali e private oggi esistenti nel mondo.
Organizzare la scuola come una comunità democratica non è un atto magico. Esige una forma di immaginazione sociologica e di ingegneria sociale, pedagogica e didattica, affinchè l’esperienza quotidiana sia allo stesso tempo favorevole all’educazione e all’istruzione.
Un’osservazione conclusiva.
La scuola è cambiata ma non si è riformata, essa non è stata in grado di gestire e padroneggiare i suoi cambiamenti e di immaginare una organizzazione nuova, regole e quadri più efficaci e meglio adatti alla natura dei problemi da affrontare. In questo senso si può dire che se la scuola è certamente organizzata e diretta, non è invece governata e guidata.
Tutti gli appelli alla buona volontà e alla disponibilità e i provvedimenti frenetici che investono oggi la scuola, generano un profondo sentimento di crisi, perché è il modello istituzionale che è profondamente ammalato.
Attraverso i problemi di organizzazione e di management emerge allora la questione di sapere se l’istituzione scolastica può sopravvivere e resistere ai cambiamenti che la investono, o se occorra, oggi, immaginare un’altra forma istituzionale, un’ altra modalità di insegnare ed apprendere.