Dalla filosofia il senso dello studio e il germe della felicità

Ilaria Gaspari

Vi ringrazio di questo spazio per parlare, sono molto onorata di questa occasione e anche un po’ emozionata. Sono qui per raccontarvi una storia personale, non perché ritenga che la mia storia sia particolarmente importante, ma perché credo che ci siano degli spunti, che nella piccola storia di una studentessa che è cresciuta ed è diventata una persona che ha deciso di dedicare la sua vita alla ricerca e alla scrittura, possano esserci degli spunti che aiutano a riflettere sul ruolo che le guide possono avere nella costruzione della personalità di chi inizia a entrare in contatto con il sapere sui banchi di scuola.

Non è la storia di una “vocazione”, come spesso si dice a sproposito parlando di quello che si decide di fare, magari anche con una certa angoscia di non saper riconoscere la vocazione che ci aspettiamo di sentir tuonare nella mente., Ma è la storia di come si può essere aiutati a imparare ad ascoltare quella piccola voce interiore che in uno dei momenti più tragici della storia della filosofia, il processo di Socrate, Socrate stesso chiama con un nome che ai suoi concittadini e accusatori suona un poco oscuro ed è il nome di Daimon. Ecco, io la voce del mio Daimon ho imparato a sentirla molto tardi, ma ho avuto per fortuna, nel corso della mia vita e della mia formazione, l’aiuto di alcune persone che mi hanno incoraggiata ad ascoltarla.

Nonostante questo, nel momento in cui a 18 anni mi sono trovata a dover scegliere a quale facoltà mi sarei iscritta, un po’ per via della mia indecisione, un po’ perché sentivo l’esigenza di trovare un “metodo” o quantomeno una direzione che mi spingesse verso una strutturazione forte del mio pensiero, e un po’ perché non avevo idea di che mestiere volessi fare da grande, ho deciso di iscrivermi a filosofia. E questa scelta è stata naturalmente accolta con reazioni di vasto disappunto, dallo scandalizzato allo spaventato. Questo è successo, lo so per esperienza, a molte persone, nel corso della storia, che hanno scelto di dedicarsi a facoltà umanistiche e continua a succedere. Questi commenti hanno a che fare con il fatto che questo tipo di scelte non indirizzano a una professione precisa. Sarebbe un peccato però se vincesse la diffidenza, precludendo alle persone che hanno un certo tipo di sensibilità e anche un certo interesse, di potersi rispecchiare in un patrimonio inestimabile di testi e di voci che rispondono ad alcune delle loro domande, che li aiutano a cercare la loro strada.

Io per fortuna, in questo coro di voci discordi rispetto alla mia scelta di iscrivermi a filosofia, avevo alcuni punti fermi. Uno di questi era la mia professoressa di italiano del liceo, che è stata per me un vero faro in quegli anni di formazione e che mi ha detto molto esplicitamente che secondo lei sarebbe stato un peccato se io avessi scelto di prendere una decisione rispetto alla facoltà a cui mi sarei iscritta solo sulla base del lavoro che avrei potuto fare un giorno. Mi aveva dato un consiglio estremamente controcorrente, un consiglio anche preoccupante a sentire le voci giustamente preoccupate per esempio dei miei genitori che, pur avendomi coltivata sempre molto nell’amore per l’arte, per tutto quello che è umanistico, si ponevano il problema che magari un domani mi sarei trovata disoccupata. Questa stessa paura del non trovare un posto all’interno della società, nel momento in cui si sceglie di iscriversi a una facoltà umanistica, io la ritrovo oggi nelle parole, nelle domande, nelle preoccupazioni delle studentesse e degli studenti che incontro quando giro nelle scuole per un progetto della mia casa editrice che manda alcuni autori e alcune autrici a incontrare gli adolescenti nelle scuole a parlare con loro dei propri libri.

Io ho scritto per Einaudi due libri, uno si intitola Lezioni di Felicità ed è la storia di un’indagine nel pensiero greco antico proprio alla ricerca del bandolo della matassa che porta alla felicità e che fa anche della felicità un tema portante della ricerca di senso a livello filosofico, quindi non semplicemente una questione di benessere personale, ma una postura rispetto al vivere. In quel libro ho cercato di provare a recuperare questa idea della felicità come un modo di ritrovare un senso all’interno della propria postura e di far coincidere disciplina del pensiero e disciplina di vita. Era un’idea molto semplice, quasi naturale, quando la filosofia era giovane, nell’antichità, e che si è un po’ dispersa nel corso del tempo, nel momento in cui la filosofia specializzandosi in una serie di scienze importantissime e di progressi notevolissimi ha perso in qualche modo quella sua unità originaria fra lato pratico e lato teoretico. Ecco io in quel libro ho fatto questo lavoro cercando di trattare la filosofia come una materia viva.

Poi ho scritto un altro libro animato in un certo senso dallo stesso proposito, un libro dedicato alle emozioni lette da un punto di vista filosofico, le emozioni come si sono dispiegate nel corso della storia della filosofia e come ci raccontano il nostro essere creature fatte allo stesso tempo di corpo e di mente, di testa e di cuore. Come il nostro vivere, la nostra esperienza biologica della vita, in qualche modo si incontra con la possibilità inestimabile che noi abbiamo di elaborarla in un discorso teorico, in un discorso culturale, in un discorso che intreccia voci attraverso i secoli alla ricerca del senso ultimo di quella che è – per usare le parole di Michel de Montaigne, che è in un certo senso l’ispiratore di tutto questo mio viaggio filosofico – il senso della condizione umana. Ecco quindi che quando giro nelle scuole per parlare di questo libro con gli studenti, gli studenti mi parlano molto di ansia, di ansia per i voti, di ansia per le valutazioni, di ansia di non avere un domani un posto nel mondo che loro immaginano troveranno, se si iscriveranno a determinate facoltà, o se decideranno di indirizzare il loro percorso con l’obiettivo di trovarsi un lavoro sicuro, un posto sicuro nel mondo.

Ecco io in quei momenti ringrazio la mia professoressa di italiano che al contrario mi aveva indirizzata verso una posizione più scomoda, una posizione di ricerca, una posizione che naturalmente era più stancante e più difficile da sostenere, ma che mi ha portata effettivamente a mettermi continuamente in discussione. Sapendo che il sentiero che avrei percorso avrebbe avuto delle interruzioni, degli inciampi, che non si sarebbe trattato di una via maestra da un punto A a un punto B e sapendo che, se non fossi riuscita ad arrivare a quel secondo punto, mi sarei potuta sentire persa.  Io ho deciso, studiando filosofia, di sentirmi persa in partenza, ho deciso di accettare di accogliere su di me l’angoscia, ma anche la felicità dello smarrimento e, all’interno di questo smarrimento, di trovare una traiettoria che corrispondesse alle mie domande e che le mie domande potessero intrecciarsi ad altre domande e ad altre risposte lontane nel tempo che avrei potuto esplorare proprio grazie alla mia curiosità e proprio grazie alla costanza nello studio.

Credo che questo tipo di incoraggiamento sia importante, credo che sia importante recuperarlo anche provando a restaurare un’immagine della filosofia come disciplina dello studio e della vita che abbiamo un po’ perduto da un lato con l’idea – che dobbiamo inculcare nelle persone giovani – che dobbiamo tutti vivere misurandoci con un ideale di efficienza e dall’altro facendo pesare l’ombra del fallimento su tutte le loro scelte e le loro azioni.

Credo che recuperare invece l’idea di un sapere umanistico con la sua profondità e anche con la sua capacità di mettere continuamente in discussione, di dichiarare continuamente un desiderio inesausto di conoscenza che è tensione – la tensione che, nel simposio di Platone, Socrate attribuisce alla figura di Eros in quanto filosofo, in quanto consapevole delle sue mancanze – ecco credo che questo ci aiuterebbe ad offrire alle studentesse e agli studenti l’opportunità di considerare con occhi diversi anche la possibilità di perdersi, la possibilità di esplorare, la possibilità di meravigliarsi, di lasciarsi cogliere alla sprovvista dallo stupore che deriva da una pratica della cultura che tratta la cultura come materia viva e non come una lingua morta, ma come una lingua da imparare a parlare in profondità.

Ecco a questo proposito c’è una piccola storia che mi piace raccontare quando incontro gli studenti e le studentesse e che ci può aiutare a mettere in prospettiva questa diffidenza crescente per le discipline umanistiche rispetto alla loro utilità, rispetto all’idea che la disciplina umanistica non serva a niente perché non offre una via d’uscita sicura, se non magari quella della ricerca o dell’insegnamento. Perché effettivamente la preparazione umanistica serve ad arricchire, ma serve anche a offrire uno sguardo diverso, uno sguardo che cerca instancabilmente prospettive nuove per guardare alle cose e offre la possibilità di risolvere i problemi completando una cultura scientifica che non si pone in contrapposizione con quella umanistica, ma anzi in una complementarità e in una continuità che dovremmo riconoscere. Togliendo così dalla testa dei ragazzi e delle ragazze il peso di dover prendere una decisione escludente e soprattutto il peso di sentirsi perduti senza prospettive di ritrovare una strada nel momento in cui scelgono invece di coltivare la strada del dubbio, della ricerca e soprattutto di un orizzonte che si costruisce giorno per giorno.

Questa piccola storia non per caso Platone la fa raccontare a Socrate, che era morto già da qualche anno, ma che viene risuscitato nel dialogo che si intitola Teeteto proprio con l’intenzione di raccontare questa storiella, che è entrata a far parte del canone dei luoghi comuni su quelli che sono i limiti della ricerca filosofica ed è una storia che riguarda il primo dei filosofi, Talete. È significativo che Platone la faccia raccontare proprio a Socrate perché Socrate era stato irriso, come Talete in questa storia, dai suoi concittadini, era stato processato e nel corso del suo processo aveva tirato fuori questa figura del daimon, quella voce interiore che lui fin dall’infanzia racconta di aver seguito senza tradire se stesso come unica direzione possibile: seguire la propria eudaimonia, la propria felicità, rappresenta per lui unica direzione possibile per rimanere fedele a se stesso costruendosi un destino che si impernia tutto sul perseguire la conoscenza, la ricerca quindi come fine della vita stessa. Socrate si lascia condannare a morte dai suoi concittadini, ne è ben consapevole, perché si difende con parole che sono troppo difficili e quindi nel momento in cui nel Teeteto Platone gli fa raccontare la storia di Talete sta sovrapponendo al piccolo aneddoto un significato in più. Quello del fatto che molte volte chi persegue una conoscenza invisibile agli altri può risultare inviso, può risultare incompreso e può essere deriso, con conseguenze che possono essere anche molto gravi come è accaduto appunto al povero Socrate.

Questa storia è la storia di Talete che inciampa mentre guarda il cielo, per studiare i fenomeni celesti, che è fra i primi a non attribuire ai capricci degli dèi e alla cosmologia mitologica, ma a indagare come fenomeni veri e propri che si verificano secondo delle leggi che sono le leggi della natura. Lui guardando il cielo, guardando la luna, inciampa in un pozzo e viene deriso da una servetta di passaggio. Questa storia rappresenta da un lato il riscatto del buon senso comune con i piedi per terra nei confronti di chi sta con la testa per aria, cerca cose più grandi di noi e non riesce a guardare dove mette i piedi. L’idea è quella che i professoroni, i grandi teorici, quelli che si occupano della filosofia non sanno neanche guardare dove mettono i piedi, insomma, che studiare filosofia è inutile.

Ma c’è un’altra storia che mi piace accostare a questa che già di per sé  – nel momento in cui Platone l’ha resa eterna infilandola nel suo dialogo e quindi facendola arrivare fino a noi – rappresenta il riscatto del filosofo. In quel momento Socrate rivendica quel coraggio, quel coraggio di essere deriso, quel coraggio di cadere nel pozzo, quel coraggio di rischiare di farsi male, di inciampare pur di guardare il cielo. Ma c’è un’altra storia invece più pragmatica che riguarda sempre Talete, che mi sembra completi molto bene questa e che ci dia la misura di quanto lo studio della filosofia, rappresentato in questo piccolo apologo dalla figura di Talete, possa allargare invece i nostri orizzonti anche da un punto di vista pratico perché cercare soluzioni da altre prospettive serve ad allargare il campo del  possibile. Questa storia vede sempre Talete protagonista, Talete che ha indagato i cieli, Talete che grazie a questa sua indagine è diventato in un certo senso un prototipo di meteorologo e che quindi riesce a prevedere che in un certo anno il raccolto delle olive sarà particolarmente abbondante.

E allora cosa fa? Unico caso forse nella storia della filosofia, diventa un filosofo imprenditore e guadagna anche molti soldi perché prende in affitto tutti i frantoi della regione, così quando i suoi compaesani dovranno fare l’olio lui li potrà subaffittare traendone appunto un profitto. Raro esempio di filosofo che si arricchisce, ma soprattutto esempio del fatto che quello sguardo rivolto al cielo che gli era costato l’inciampo e le risate della servetta in realtà è quello che gli permette di prevedere quello che tutti gli altri, dediti a guardare la terra, a tenere ben presenti le cose pragmatiche, non avevano saputo prevedere: il raccolto più abbondante.

Ecco credo che questo esempio sia molto calzante del fatto che noi dobbiamo ricordarci che la filosofia, questo allargamento dello sguardo che non teme di inciampare, che non teme di perdersi – che non teme di rimanere senza una professione dai contorni ben precisi – potremmo presentarlo come una forma di arricchimento. Non ovviamente in senso finanziario, come è stato realizzato nella storia da Talete e credo da pochi altri – ma nel senso di arricchimento della prospettiva da cui guardare alle cose, arricchimento della gamma delle soluzioni possibili ai problemi che affliggono l’umanità e che rimangono identici dai tempi in cui Socrate finiva processato dai suoi concittadini perché poneva domande scomode fino a oggi.

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