Quale sapere per la scuola del XXI secolo

Olli-Pekka Heinonen

Grazie e congratulazioni. Grazie per avermi invitato a questo evento molto interessante nella bellissima città di Bologna. E congratulazioni per aver scelto un tema così importante.

Penso che, quando un’organizzazione di spessore pone come tema centrale “il senso”, questo significa che stiamo vivendo tempi particolari. E questa è proprio la domanda che dovremmo porci.

In che mondo stiamo vivendo? E nel rispondere a questa domanda, credo che non siamo stati molto bravi a cogliere i tempi. Siamo bravi a notare cambiamenti rapidi, come ad esempio il COVID. Lo abbiamo notato, abbiamo reagito, sono successe tante cose.

Ma non siamo così bravi a notare cambiamenti lenti e graduali come, per esempio, il deterioramento del benessere e le sfide psicologiche che i giovani stanno affrontando. Abbiamo parlato molto dell’impatto del COVID su questi aspetti. In realtà questi cambiamenti non sono iniziati con il COVID, bensì molto prima. In molti Paesi, possiamo vedere una tendenza dal 2012 ad oggi.

Quindi siamo in un certo senso, secondo l’analogia di Noam Chomsky, come la rana nella pentola d’acqua che si riscalda, incapaci di accorgerci di ciò che sta realmente accadendo. E credo che questa sia anche in gran parte la situazione in cui ci troviamo, in cui il mondo sta operando. Questo è ciò che vorrei condividere con voi oggi.

Credo che tutti noi abbiamo la sensazione che il mondo non funzioni più nel modo in cui pensavamo funzionasse. C’è qualcosa che non va. Ma abbiamo anche la sensazione di non vedere ancora chiaramente il nuovo che sta emergendo.

Penso che stiamo davvero vivendo in una sorta di “tempo tra mondi”, come lo chiama Zak Stein. E questo è un momento in cui la questione del significato, del senso, deve essere osservata e affrontata. Cosa intendo quando dico che il mondo non funziona più come pensavamo?

Vi mostro, nell’immagine sopra, il panorama dei rischi globali del World Economic Forum. Devo dire che mi piace molto di più la visualizzazione delle sfide rispetto a quella degli obiettivi globali sostenibili. Perché gli obiettivi sostenibili sono visualizzati come belle scatole separate l’una dall’altra. E poi c’era l’idea che possiamo prendere una singola scatola e fare qualcosa in proposito. Ma non è così che funziona il mondo. Nel mondo le sfide che affrontiamo sono interconnesse.

E questa è davvero la grande sfida, vedere la sovrapposizione e la natura viva di quelle sfide. Perché molte di queste sfide sono legate a noi esseri umani. Quindi non saranno singoli scienziati, o innovatori o politici che riusciranno a risolverle. E neppure l’intelligenza artificiale può risolverle.

Siamo nel secondo anno della guerra in Ucraina: se chiedessimo all’intelligenza artificiale di risolverla, non ci riuscirebbe. Perché questa e molte altre sfide, dipendono da noi, da ciò in cui crediamo, da come agiamo e da come ci trattiamo tra di noi. Sono legate alla natura dei sistemi umani, alla parte vivente di essi.

L’ambiente in cui operiamo è cambiato. Pensiamo ancora di vivere in un mondo semplice e noto. Quello che vedete, nell’immagine sottostante, è un modello di David Snowden chiamato modello Cynefin.

Il mondo semplice è un mondo in cui hai le risposte giuste.  Sai qual è la cosa giusta da fare. E in un mondo del genere puoi centralizzare le cose. Puoi fare una divisione del lavoro: tu occupati di questo, tu di quello, e tu di quell’altro. E funziona perfettamente. Ma non è più il mondo in cui viviamo.

Viviamo in un mondo complesso, dove la domanda su quale sia la risposta giusta è un mistero. Non sappiamo nemmeno se esista una risposta. E non ci sono più le cosiddette best practices.

Perché c’è un’emergenza continua che, ancora una volta, dipende dalla natura viva dei sistemi. Non siamo bravi a capire quel tipo di mondo. In realtà, la buona notizia è che i giovani lo capiscono meglio di noi.

In diversi sondaggi, si vede che loro conoscono la natura interconnessa della realtà. Vedono anche che le nostre sfide devono essere risolte attraverso la co-creazione, lavorando insieme, collaborando. Non separando le cose e assegnando compiti a questa o quella organizzazione.

Ci siamo resi conto di essere alieni nelle nostre stesse case. Non c’è bisogno di andare altrove per sperimentare uno shock culturale.

Vediamo che si sta avverando il principio secondo cui la mappa non è il territorio. Le mappe che abbiamo sembrano chiaramente  disconnesse dal territorio, e questo fa parte della crescita della complessità.

Le nostre società stanno diventando più complesse. E questo ci porta all’etimologia della parola “complessità”. In Italia, la radice latina è “cum” (insieme) e “plexus” (intrecciato), intrecciato insieme. È come un reticolo. Per me, quindi, “complesso” è una parola positiva.

È come collegare i punti, passare a un livello superiore di comprensione. E questo è proprio inerente allo sviluppo umano, all’apprendimento. Si tratta di osservare cose che potrebbero sembrare contraddittorie o poco chiare e capire come si collegano tra loro. Alcuni ricercatori parlano di una sorta di divario di complessità, ovvero la nostra capacità cognitiva che non riesce a comprendere la complessità del mondo. E questo ci porta alla domanda su come possiamo affrontare questa situazione. E, naturalmente, una risposta è che dobbiamo lavorare di più insieme. Dobbiamo utilizzare di più le capacità gli uni degli altri. Dobbiamo lavorare non solo per la saggezza individuale, ma per la saggezza collettiva. La saggezza che noi, come umanità, possiamo portare avanti.

E questa è, ovviamente, una sensazione che anche le giovani generazioni hanno. Ieri abbiamo parlato dell’ansia e persino della rabbia che provano le giovani generazioni. Sentono questa rabbia per essere nati in un mondo con molte sfide, come il cambiamento climatico, che è un problema che sentono fortemente.

E provano anche molta rabbia nei confronti dei decisori e di noi adulti che non siamo capaci di fare abbastanza quello che loro vorrebbero fosse fatto. In un sondaggio dell’Università di Bath, il 75% degli studenti tra i 15 e i 26 anni ha detto che il futuro è un posto spaventoso e troppi di loro hanno dichiarato di credere che il mondo finirà durante la loro vita.

Pensate quale visione del mondo sia questa per cercare di costruire e vivere per il domani. Non possiamo dire che questi sono problemi dei giovani, che sono problemi sociali e che qualcun altro dovrebbe occuparsene. Noi siamo gli educatori. Siamo responsabili del loro apprendimento e se non c’è benessere, non c’è apprendimento, questo è chiaro.

Dunque, dobbiamo trovare modi per affrontare queste questioni. E ciò ci riporta alla domanda su che cosa abbia senso. Che cosa ha senso per i giovani? E come possiamo assicurarci che quella connessione dove avviene l’apprendimento, quell’interfaccia tra lo studente e il mondo, rimanga la più chiara possibile? E poi c’è il supporto dell’insegnante, della scuola e del sistema educativo per allineare davvero i valori a quel momento dell’apprendimento.

Questo ci porta alla grande questione dei compiti meta-educativi. Innanzitutto, il compito di trasferimento intergenerazionale.

Tutto ciò che abbiamo raggiunto finora come umanità deve essere trasferito alle nuove generazioni affinché siano in grado di impegnarsi in questo mondo. Questo rimane importante anche in futuro. Ma c’è una questione: se diamo loro solo ciò che siamo stati capaci di creare, stiamo anche dando loro gli stessi problemi che quel pensiero ha creato. Quindi non è abbastanza. Dobbiamo metterli in condizione di trovare anche nuove soluzioni. E questo richiede molta umiltà da parte nostra come educatori.

Inoltre, dobbiamo essere capaci di dare loro le competenze per creare o trovare la propria strada nel mondo. E, naturalmente, questo riguarda in gran parte la discussione sulle competenze del XXI secolo di cui parliamo da 25 anni. Ho iniziato a pensare che le chiamiamo competenze del XXI secolo perché ci vorrà un intero secolo per imparare ad insegnarle. Spero che non sia così, perché non abbiamo, e le giovani generazioni non hanno, tutto quel tempo. Dobbiamo essere capaci di farlo più velocemente.

Per riassumere, siamo passati dalle fabbriche dove il corpo e le mani degli esseri umani erano centrali, agli uffici, dove la mente è l’aspetto centrale, la parte cognitiva è la cosa più importante. E, se penso che oggi l’intelligenza artificiale, in molti sensi, è più veloce e talvolta molto più affidabile di noi esseri umani nel gestire alcune competenze cognitive, che cosa ci rimane? Credo che la risposta sia nel modo in cui ci trattiamo a vicenda. Come siamo in grado di metterci d’accordo su obiettivi condivisi da raggiungere insieme? E come siamo capaci di trovare significato, di capire che cosa è rilevante per noi come esseri umani? Perché nessun altro può rispondere a questa domanda se non noi stessi.

E questa è una capacità profondamente umana: in un breve lasso di tempo , di fronte a una grande quantità di informazioni, afferrare che cosa è rilevante. Dovremmo sfruttare questo potere che abbiamo sviluppato come parte dell’evoluzione umana. Dal periodo della società industriale, abbiamo ancora nell’istruzione una sorta di tradizione del “one size fits all”, un modello unico per tutti, il taylorismo che a volte troviamo nell’istruzione.

Dalla società dell’informazione abbiamo il pregiudizio verso la conoscenza accademica. E queste sono cose per cui ora dovremmo guardare all’educazione in modo molto più olistico, sapendo che ci sono diversi modi di conoscere, ci sono diverse cognizioni. In noi, come esseri umani, ragione ed emozioni non sono separate, tutto è interconnesso.

Inoltre, essendo noi esseri psicofisici, il fatto di avere un corpo ci consente di conoscere in modo incarnato tutto ciò che sappiamo. E anche gli aspetti morali e culturali, che con lo sviluppo della realtà aumentata stanno diventando molto più importanti.

Questo ci porta alla grande questione del tempo e della scuola. La scuola è un’istituzione caratterizzata da luogo, tempo e routine. Ma come possiamo trovare il tempo per tenere in conto le nuove esigenze? Come possiamo combinare e sintetizzare le cose più importanti che vediamo per le giovani generazioni?

Ieri abbiamo parlato della narrazione e del racconto, che è un modo per condensare le cose preziose da trasmettere. Credo che ci siano altri modi per fare la stessa cosa, come la questione dei concetti (molto vicine a me, ad esempio nel sistema IB), che riguardano la comprensione concettuale, avere dei macro-concetti attraverso cui combinare contenuti disciplinari, abilità, valori e atteggiamenti.

Abbiamo bisogno di questa connessione anche in termini interdisciplinari, ed è una grande sfida.

Per fare questo, penso che i nostri sistemi nazionali debbano imparare che a volte, nell’educazione, “less is more”, meno è meglio. Alcune cose devono essere lasciate fuori, altrimenti non facciamo un buon lavoro.

Il sistema IB lo fa attraverso l’approccio dell’indagine e della comprensione concettuale, per assicurarci che, ad esempio, nell’educazione climatica, mettiamo insieme le diverse discipline e materie, per guardare allo stesso problema da prospettive diverse.

Collegandole, si crea anche un linguaggio comune e, ancora una volta, questo crea apprendimenti significativi per gli studenti.

Nell’esempio del corso di educazione climatica, gli studenti capiscono che le diverse materie in realtà parlano della stessa realtà e credo che questa sia la grande sfida che dobbiamo affrontare.

Grazie

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