Nelle scorse settimane, la scelta di alcuni studenti di non sostenere il colloquio dell’Esame di Stato ha sollevato un dibattito acceso, diventato rapidamente una bolla mediatica. Non partecipare all’ultima prova non è un semplice atto di ribellione: solleva interrogativi sul significato dell’esame, sul rapporto fra studenti e istituzioni scolastiche, e sul valore che oggi attribuiamo alla conoscenza. L’opinione pubblica si è divisa tra chi ha liquidato il gesto come narcisismo giovanile “da Instagram” – un atto effimero e autoreferenziale – e chi lo ha interpretato, invece, come una protesta consapevole contro una scuola percepita come formale, competitiva e distante. Ma in entrambi i casi, il dibattito ha mancato il bersaglio: invece di interrogarsi sul significato reale di questa protesta, si è preferito semplificare e giudicare.
Eppure, anche se si è trattato di episodi sporadici, che potrebbero essere ignorati sia per il loro numero insignificante (4 su 268.577, pari a 0,00149%), sia perché non rappresentano l’espressione di una base studentesca (non c’è stata da parte degli studenti una messa in discussione dell’Esame di nei mesi precedenti né una reazione di adesione o contestazione a posteriori alle azioni di questi 4 studenti), tuttavia ci pare che non vadano ignorati perché ci spingono a porci una domanda essenziale: cosa vogliamo che sia davvero l’Esame di Stato? E, più in profondità, che tipo di scuola stiamo delineando?
Da anni, l’Esame di Stato mostra un’ambivalenza strutturale. Da un lato è presentato come coronamento di cinque anni di scuola superiore, momento di sintesi e celebrazione del percorso compiuto. Dall’altro lato, conserva la retorica e la struttura di una “verifica finale”, come se in pochi giorni si dovesse certificare tutto ciò che uno studente ha imparato. Ma se le competenze sono già valutate durante l’anno e il Consiglio di classe esprime un giudizio articolato, a cosa serve davvero l’Esame? A ratificare decisioni già prese? O a rimettere tutto in discussione?
In questo vuoto di senso si inserisce la protesta, che coglie un nodo reale: la distanza tra valutazione e relazione educativa. Il colloquio finale, pur nella sua forma più aperta, è spesso percepito dagli studenti come un rituale vuoto, non come un confronto autentico. E in questo contesto, non stupisce che qualcuno abbia deciso di chiamarsi fuori.
Naturalmente, si potrebbe obiettare che la prova è tutt’altro che selettiva: nel 2025, il 99,7% degli studenti è stato promosso, con quasi il 10% che ha ottenuto il massimo dei voti. Ma proprio questa apparente “mitezza” dell’Esame solleva altre domande. Se tutti passano, qual è il suo valore effettivo? E soprattutto: come si concilia questo con i dati che ci arrivano dalle prove INVALSI? I dati INVALSI 2025, presentati alla Camera, fotografano un quadro ben diverso. Dal 2019, in tutte le regioni si registra un calo nel numero di studenti che raggiungono i traguardi attesi in lingua italiana. In alcune zone si arriva al -21%. A fronte di diplomi distribuiti in massa, si parla ormai apertamente di dispersione scolastica implicita: studenti che formalmente terminano il ciclo, ma che non hanno acquisito le competenze di base. Un fenomeno silenzioso, ma dagli effetti devastanti: perdita di opportunità, aumento delle disuguaglianze, delegittimazione del valore stesso del titolo di studio.
Uno studio recente del Politecnico di Milano[1], in collaborazione con INVALSI, propone azioni concrete per invertire la rotta: rafforzare la scuola dell’infanzia, sostenere le famiglie, investire nella formazione dei docenti, garantire continuità didattica. In altre parole, anche in questo caso risulta evidente che, per ottenere risultati veri e duraturi sugli alunni, occorre investire sul percorso scolastico e sulle relazioni tra i diversi soggetti che compongono la scuola. Non è sufficiente cambiare sull’onda emotiva la prova finale di maturità, che — dati alla mano — oggi promuove anche chi non ha raggiunto i traguardi previsti.
Certo, il gesto dei quattro studenti che hanno scelto di non sostenere il colloquio dell’esame di Stato rappresenta una presa di posizione forte, simbolica, che merita ascolto e attenzione. Tuttavia, proprio per la serietà dell’atto, pur attenuata dal fatto che sapevano già di essere matematicamente promossi, occorre anche interrogarsi su ciò che comporta: è possibile, è giusto che un esame di Stato venga considerato valido in assenza di una delle sue prove? Che messaggio si trasmette agli altri studenti, agli insegnanti, alla società?
Non si tratta di prendere le difese delle determinazioni ministeriali, né di minimizzare il disagio espresso da questi ragazzi, ma di porre una domanda di fondo: che senso ha oggi l’esame di Stato, se può essere aggirato o se il suo significato è così svuotato da renderne superfluo il colloquio finale? È un interrogativo educativo e culturale, non burocratico: un esame serio deve richiedere un confronto, non per giudicare astrattamente, ma per valorizzare la conoscenza, la riflessione, la crescita. Senza questa tensione, il rischio è che anche le proteste si disperdano nel vuoto di gesti che non lasciano traccia.
Il colloquio dell’Esame di Stato, almeno nelle intenzioni originarie, dovrebbe essere un momento di sintesi e di verifica complessiva: non un mero quiz, ma l’occasione per dimostrare di saper collegare saperi, ragionare in autonomia e restituire il frutto di anni di studio. In questo senso, rinunciarvi significa rinunciare a un banco di prova importante, ma anche rinunciare a misurarsi con uno degli obiettivi centrali della scuola: formare persone capaci di affrontare situazioni nuove con gli strumenti cognitivi e culturali acquisiti.
Negli ultimi anni, però, la struttura del colloquio è cambiata in modo significativo. La prova del 2025 —giustamente definita da molti docenti un percorso “patchwork”, tra Educazione civica, restituzione del PCTO, confronto sull’orientamento e collegamenti pluridisciplinari — rischia di frammentare l’attenzione e di ridurre il peso della verifica effettiva delle conoscenze disciplinari. A questo si aggiunge l’eliminazione della terza prova scritta: uno strumento che, pur con limiti e disomogeneità, aveva comunque la funzione di dare spazio a più discipline e di valorizzare un approccio sistematico ai contenuti.
Qui sta il nodo: non si intende essere nostalgici di un modello d’esame “vecchio stile”, ma di difendere il ruolo centrale delle conoscenze all’interno del percorso formativo della secondaria di secondo grado. Non possiamo rinunciare alla conoscenza come criterio di valutazione. Le domande specifiche durante l’esame vanno fatte: è una questione educativa seria. La scuola secondaria di secondo grado ha anche il compito di preparare gli studenti a sostenere esami, ad affrontare lo stress cognitivo, a sviluppare un metodo di studio solido. I dati non sono incoraggianti: molti studenti, al primo anno di università, non superano neppure un esame. Ciò accade spesso perché non hanno scelto il percorso giusto, ma anche perché non sono stati abituati a reggere la fatica mentale che lo studio richiede.
Per questo, un Esame di Stato che riduce lo spazio della verifica disciplinare rischia di disabituare alla concentrazione prolungata e alla precisione. La scuola, invece, dovrebbe rafforzare queste competenze, offrendo strumenti per affrontare con successo il passo successivo: l’università, il lavoro, la cittadinanza attiva.
Lungi dal difendere un rituale scolastico fine a sé stesso, si intende piuttosto salvaguardare la sua funzione formativa. Senza conoscenze solide, senza allenamento a sostenerle e a comunicarle, l’Esame di Stato perde la sua valenza di prova di maturità. E la maturità — oggi più che mai — serve.
Proprio in questi giorni Massimo Cacciari ha scritto che “successo formativo” significa oggi quasi esclusivamente non essere bocciati o non andare fuori corso. Ma il successo autentico, per studenti e insegnanti, dovrebbe consistere nel costruire conoscenze solide, attraverso letture dirette, esperienze significative, studio consapevole e spirito critico. Invece, l’astratto metodologismo dominante ha svuotato i saperi, trasformando le discipline in melting pot generici e superficiali. Si predica il merito, ma si promuove in massa. Si celebra l’esame, ma se ne svuota il senso. E si finisce così per mantenere in vita una prova finale ambigua, non autenticamente formativa né certificativa, per abitudine o per burocrazia, più che per autentica esigenza formativa.
Per questo, la difesa della conoscenza resta oggi una scelta culturale e pedagogica fondamentale. L’esame di Stato è pur sempre un esame, e riguarda insieme maturità e conoscenza. Le domande specifiche non vanno abolite, ma restituite al loro significato più autentico, in un contesto in cui davvero si riconosca il percorso, l’impegno, la persona. Non si tratta di inasprire o di ammorbidire la prova finale, ma di ripensarla anche alla luce della “storia” dell’esame di Stato, facendo focus su quello che è diventato hinc et nunc, in modo da sottrarci anche all’astrattezza che ha connotato in gran parte questo dibattito estivo: si tratta di ripensarlo in modo coerente con la scuola che vogliamo. Una scuola centrata sulla sostanza, non sull’apparenza.
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[1] Mappatura del rischio di dispersione nelle scuole italiane» realizzato dal Politecnico di Milano in collaborazione con INVALSI.