Autonomia differenziata: una situazione, per ora, deludente

A cura di Carlo Marzuoli
già Professore Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università di Firenze e socio onorario di ADi

Nota introduttiva

Il disegno di legge “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione”  è stato approvato, con modificazioni, dal Senato il 23/01/2024 e   risulta ora  all’esame della Camera dei Deputati (Camera, d.d.l. n. 1665).

Il dibattito sull’autonomia differenziata coinvolge in modo evidente il tema dell’eguaglianza e (anche) per questo appare sin dall’inizio condizionato da troppi apriorismi.  Tuttavia, come notato in una precedente occasione, l’eguaglianza è anche differenziazione (mezzo per fare eguaglianza),  il che in materia di istruzione e di servizi alla persona è manifesto. Su questa premessa la questione è affrontabile in modo più appropriato: può muovere dalla considerazione che l’autonomia differenziata, di per sé, non è da rifiutare in quanto necessariamente  un male né da accettare in quanto necessariamente un bene. Dipende da come la si precisa e la si attua in un  certo momento storico.

L’anno scorso, a seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del disegno di legge, si  segnalarono  alcune gravi carenze e criticità di ordine generale,   peraltro profondamente rilevanti in relazione alla situazione della  scuola, come si accennerà.  Viene ora da chiedersi come sia la situazione a seguito  dell’avvenuta approvazione da parte del Senato.

Un sommario dei contenuti del disegno di legge

 Nel disegno di legge si  trovano trattati:

  • i principi generali entro cui operare per provvedere ai conferimenti;
  • le modalità procedurali;
  • i poteri spettanti alle diverse Autorità (le Regioni, gli Enti locali, il Presidente del Consiglio, il Consiglio dei Ministri, i Ministri competenti, la Conferenza permanente per i rapporti Stato, Regioni e Province autonome, la Conferenza unificata,  il Parlamento, nei suoi diversi organismi, e altri);
  • gli atti: l’atto di iniziativa regionale, lo schema di intesa preliminare, lo schema definitivo, la redazione del disegno di legge per l’approvazione dell’intesa, l’approvazione dell’intesa ad opera del Consiglio dei Ministri e la sua sottoscrizione ad opera del Presidente del Consiglio e del Presidente della Giunta Regionale, gli atti  di indirizzo del Parlamento; la legge di approvazione; la durata dell’intesa (massimo dieci anni, con rinnovo automatico salvo diversa volontà statale da esprimere entro un certo termine); i poteri dello Stato di disporre la cessazione totale o parziale dell’intesa in caso di inadempimento regionale all’obbligo di garantire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP);
  • i LEP: la definizione  (“indicano la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti su tutto il territorio nazionale e per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale”, art. 1, c. 2);  le materie in cui debbono essere determinati; il sistema per la loro determinazione (delega al governo, che deve provvedere con decreti legislativi entro ventiquattro mesi dall’entrata in vigore della legge;  parere delle Commissioni parlamentari);  l’aggiornamento (con decreti del Presidente del Consiglio); rapporto con gli stanziamenti necessari; costi e fabbisogni standard, anche con rinvio alle modalità e a organismi previsti dalla  legislazione già vigente; monitoraggio sull’effettivo rispetto dei LEP e organismi preposti;  salvezza del potere sostitutivo del Governo;
  • trasferimento delle funzioni: rapporto con i LEP e con i relativi costi e fabbisogni standard (art. 4, c. 1); principi per l’attribuzione delle relative risorse; ulteriore trasferimento dalla Regione agli enti locali, salvo il caso in cui occorra un  esercizio unitario a livello  regionale;
  • clausole finanziarie e misure perequative.

Il “positivo”

Due punti,  fra altri.

Il primo dato positivo (del disegno di legge) è l’esserci.  Non è poco, pur a fronte della non condivisibilità di diverse previsioni.

Dinanzi al rischio di una negoziazione da condurre in  modi e forme volta a volta in gran parte rimessi  alla mera  volontà delle due autorità negozianti (Regione e Governo),  è essenziale una legge  che regoli in modo sistematico almeno gli aspetti in precedenza elencati. Ciò, come è doveroso (visto che il negoziato non è un fatto privato e  interessa, in particolare, tutte le Regioni), rende più trasparente  il percorso che sarà seguito e le posizioni che saranno  assunte.

Un secondo dato positivo riguarda la chiara affermazione della necessaria predeterminazione dei LEP come presupposto per operare i conferimenti e la disciplina della procedura e del potere.  Questa predeterminazione, in effetti, è una condizione pregiudiziale.

I LEP rappresentano e danno corpo a quella parte della realtà (l’essere e il vivere delle  persone) che deve essere affidata all’eguaglianza. In assenza di LEP l’autonomia differenziata apre al pericolo di  diseguaglianze inammissibili. Questo, peraltro, vale  in  generale, con l’autonomia differenziata ma anche senza.  La riprova è semplice: le diseguaglianze sono aumentate, fino a raggiungere dimensioni allarmanti, anche prima e senza l’autonomia differenziata (d’altra parte anche il livello della prestazione, pur se con altro nome e in ambito molto più limitato, è nato prima).

Dette previsioni  sono una misura utile di per sé a  fare eguaglianza, per gli aspetti in cui non si deve differenziare, e per contrastare il distacco fra istituzioni e cittadini. Infatti costringono la Repubblica (in persona dello Stato, questa volta) a  definire in un modo sistematico,  organico e  meno generico il contenuto  delle prestazioni da rendere ai cittadini. Ne derivano, almeno presumibilmente:

a) una valutazione dei tanti e crescenti bisogni da soddisfare più documentata, auspicabilmente più ragionata e più trasparente;

b) quanto alle risorse da acquisire (attraverso il prelievo tributario e secondo il principio di progressività), una quantificazione più congrua e più giustificabile (specie se è in aumento) e un più facilmente percepibile legame (la necessità di una “corrispettività”) fra la Repubblica che prende e la Repubblica che dà;

c) quanto alle risorse da ripartire, soluzioni più eque e comunque – di nuovo – più spiegabili e comprensibili.

Un’ultima nota.

Il compito di individuare specificamente,  materia per materia, il singolo LEP è complicato (si possono vedere al riguardo, sul sito del Parlamento,  il  Dossier che accompagna il disegno di legge e il  Rapporto finale  redatto dal Comitato tecnico scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni). Occorrono   studi,   ricerche, sperimentazioni di tecniche,  bilanciamenti fra i vari livelli da garantire, continui aggiornamenti e risorse organizzative e finanziarie adeguate. Il fatto che si cerchi  di sviluppare la  relativa disciplina anche rispetto agli interventi finora adottati merita attenzione.

Il “negativo”

Uno soprattutto (fra vari altri).  Riguarda l’ambito dei conferimenti. Il disegno di legge  rinvia  alle materie considerate dall’art. 116 Cost.,  stabilisce  quelle per le quali occorre la determinazione dei LEP e aggiunge che il Presidente del Consiglio, di propria iniziativa o “anche su proposta del Ministro per gli affari regionali o dei Ministri competenti per materia, può limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione”.

Non vi è alcun cenno alla necessità che siano (per quanto sinteticamente) esposte le particolarità che giustificano la richiesta, cioè l’attribuzione di una certa funzione a una certa Regione.   Da ciò due implicazioni.

A) In mancanza dell’emersione di tali  aspetti, ogni operazione di conferimento può tradursi in un’astratta e generalizzata attribuzione di competenze, anche di tutte a tutti i richiedenti oppure  tutte solo ad alcuni e ciò senza che se ne possano intravedere i presupposti. L’autonomia differenziata finisce così  per divenire un’autonomia speciale mascherata. Ma, quali che siano  i dubbi sull’identità dell’una e dell’altra, dal punto di vista giuridico i significati sono comunque diversi e il posto assegnato all’una non può essere occupato dall’altra.

B) Il transito di un’attribuzione da un ente a un altro non interessa in quanto tale. Invero, la distribuzione di poteri, funzioni, competenze è mezzo al fine di produrre certi risultati, nel caso il soddisfacimento dei diritti dei cittadini e la garanzia delle loro libertà. Questo è ciò che con immediatezza richiama l’attenzione e l’interesse dei cittadini. Il risultato ottenibile però dipende anche dal contesto legislativo statale in cui il conferimento si inserisce, cioè da quello che in un certo momento prevede la legislazione statale.

Ebbene, se si esclude che l’autonomia differenziata possa consistere in attribuzioni in via generale e astratta,  è difficile valutare la possibilità di un risultato (presumibilmente) utile se non si prendono in considerazione la particolarità della situazione regionale e se non  la  si confronta anche con la legislazione statale  coinvolta: può ben essere che la prevedibilità di un  risultato utile richieda l’esistenza di una certa prescrizione statale (che può non esservi).

Scuola e autonomia differenziata (cenni)

Il profilo da ultimo accennato è  importante per la scuola, in conseguenza dell’estensione e gravità dei suoi problemi.

Non resta che richiamare alcune questioni, che sono centrali e pendenti da decenni, questioni che possono essere avviate a soluzione solo dentro una unica,  complessiva e  contestuale progettazione.  Il che non significa tutto e subito,  ma richiede il possesso di un disegno  generale che permetta  una programmazione attuativa, graduale,  di più o meno lunga durata:  un tutto visibile, apprezzabile o criticabile, ma in grado di dare  il senso  di una promessa credibilmente impegnativa, con un termine finale, tale da poter suscitare l’interesse e l’impegno anche dei cittadini.

A) Autonomia scolastica. Probabilmente, nonostante enfasi ricorrenti, non è ancora sufficientemente condivisa l’idea che il titolare dell’autonomia scolastica (l’Istituto scolastico autonomo) non è una componente del tradizionale sistema (statale) dell’istruzione ma  un’entità  nuova che trasforma quel sistema: esso  è un’amministrazione a sé, distinta e separata, anche se collegata, all’amministrazione statale tradizionale e non solo a quella.

L’Istituto scolastico autonomo  deve dunque essere garantito nei confronti di tutti: dell’amministrazione statale ministeriale e delle amministrazioni regionali e locali. A questo fine non basta il principio costituzionale espresso dall’art. 117, occorrono anche delle specificazioni legislative nazionali  e  questo richiede una riconsiderazione della situazione esistente. E su questa premessa deve in particolare  essere determinata e garantita  l’ampiezza della sua autonomia  sul piano dell’offerta formativa e della didattica.

B) Personale docente e personale specializzato per funzioni complementari.

È un capitolo a sé e insieme  un aspetto (quantitativo e qualitativo) dell’autonomia scolastica. È, ancora una volta, il tema  delle modalità di accesso e dello stato giuridico (tipologia delle competenze, carriera, una differenziazione permanente, con la possibilità di un percorso unitario, un assetto stabile, prevedibile, affidabile, fissato con legge nazionale,  ruolo e  poteri dei docenti nella struttura dell’istituzione scolastica, un livello direttivo e di orientamento intermedio, certi diritti e certi obblighi;  formazione, reclutamento, concorsi, procedure).

Questi ultimi anni, anche per effetto della pandemia, hanno portato vari interventi legislativi, ma le questioni di fondo rimangono aperte. Fra queste, oltre a quelle accennate, vi è quello dell’incardinamento del personale: sempre meritevole di attenzione quello dell’attribuzione del personale agli Istituti (singoli o associati).

Per connessione: l’intervento su questi aspetti esige che ci si occupi anche del sistema di disciplina del rapporto di lavoro privatizzato, a cominciare da una riconsiderazione del ruolo (dell’estensione) dell’ambito rimesso alla contrattazione collettiva.

Per chiudere:  il solito interrogativo

Ritorna l’interrogativo di sempre: l’autonomia differenziata serve alla scuola? Forse sì, ma a questa  condizione:  che  le singole negoziazioni avvengano  su richieste circostanziate e dietro verifica, in relazione a dette circostanze,  dell’esistenza di prescrizioni nazionali con un certo contenuto.

Il disegno di legge in oggetto  e iniziative regionali a suo tempo avviate  sembrano essere in una  logica lontana da quella qui seguita.   Vero è  che il disegno di legge  deve essere esaminato dalla Camera dei Deputati.  Tuttavia le probabilità di cambiamenti significativi in relazione  a  quanto qui interessa non sono molte.

Vale la pena, allora, per  la scuola, di continuare a occuparsi della vicenda?  Forse sì: è un modo per approfondire e delineare sempre meglio, e auspicabilmente con sempre maggiore partecipazione e consenso,   i tratti del progetto di cui sopra, cioè della  scuola che vogliamo.

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Disegno di legge 1665

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