SECONDA PARTE
La laicità in Francia:
un principio giuridico applicato in modo empirico (II)
Una duplice esigenza
Sulla base di questi testi, il principio di laicità implica una duplice esigenza: la neutralità dello Stato da una parte, la tutela della libertà di coscienza dall'altra.
La neutralità dello Stato
La neutralità dello Stato è la prima condizione della laicità. Per questo la Francia non contempla alcuno statuto relativo al culto riconosciuto o non riconosciuto.
La neutralità dello Stato ha sostanzialmente due implicazioni.
Da una parte, neutralità ed eguaglianza vanno di pari passo. Sancita all'articolo 2 della Costituzione, la laicità impone alla Repubblica di assicurare « l'uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione d'origine, di razza o di religione ». Gli utenti devono esser trattati allo stesso modo qualsiasi siano le loro convinzioni religiose.
D'altra parte, bisogna che l'amministrazione, soggetta al potere politico, dia non soltanto tutte le garanzie della neutralità ma ne mostri anche l'apparenza esterna perché l'utente non possa dubitare della sua neutralità. È ciò che il Consiglio di Stato ha chiamato il dovere di stretta neutralità che si impone ad ogni addetto che collabori ad un servizio pubblico (Consiglio di Stato 3 Maggio 1950 Signorina Jamet e il parere contenzioso del 3 Maggio 2000 Sig. na Marteaux ). Al di fuori del servizio, il pubblico dipendente è libero di manifestare le proprie opinioni e le proprie credenze, con la riserva che tali manifestazioni non abbiano ripercussioni sul servizio (Consiglio di Stato 28 Aprile 1958 Signorina Weiss ), ma nell'ambito del servizio, si applica invece il più stretto dovere di neutralità. Ogni manifestazione di convinzioni religiose nell'ambito di un servizio pubblico è vietata e lo è del pari il portare simboli religiosi, anche quando gli addetti non sono in contatto diretto con il pubblico. Anche per l'accesso ad impieghi pubblici, l'amministrazione può tenere in conto il comportamento di un candidato al servizio pubblico, quando esso sia tale da rivelare l'inattitudine all'esercizio di funzioni cui si aspira nel pieno rispetto dei principi repubblicani.
Sul piano finanziario, l'articolo 2 della legge del 1905 riassume le implicazioni della laicità: « la Repubblica non riconosce, non finanzia, né sovvenziona nessun culto ». Quest'articolo è servito da fondamento a una valutazione assai rigorosa da parte della giurisprudenza amministrativa di ogni forma di sovvenzione, mascherata o indiretta, a organizzazioni di culto (Consiglio di Stato 9 Ottobre 1992 comune di Saint-Louis ), anche se il giudice amministrativo ha potuto fare delle eccezioni. È così che il Consiglio di Stato ha riconosciuto come legittima l'iscrizione al bilancio comunale di una somma destinata a pagare una cerimonia di culto per il ritorno dei morti dal fronte (Consiglio di Stato 6 Gennaio 1922 comune di Perquie ).
Più in generale, il nostro diritto ha previsto delle disposizioni che permettono di conciliare la neutralità dello Stato con la pratica religiosa. Se la legge del 1905 separa la Chiesa dallo Stato, essa istituisce tuttavia cappellanati le cui spese possono essere iscritte al bilancio delle amministrazioni, servizi e istituti, le esigenze di funzionamento dei quali rischierebbero di non assicurare il rispetto della libertà religiosa. Così è per l'esercito, le scuole secondarie di primo e secondo grado, le prigioni, gli ospedali. D'altronde, al fine di salvaguardare il rispetto della libertà di coscienza religiosa nel quadro di un'istruzione laica, Jules Ferry aveva previsto l'instaurazione di un giorno di vacanza supplementare alla domenica per permettere l'insegnamento religioso, diritto ripreso all'articolo L. 141-3 del codice dell'educazione. Allo stesso modo, se i cimiteri sono laicizzati, la prassi ha potuto tener conto di talune tradizioni dei culti ebraico e musulmano. Infine, dopo la legge del 1987, le donazioni fatte alle associazioni di culto beneficiano di un regime fiscale più favorevole, che le assimila alle associazioni riconosciute d'utilità pubblica.
Le esigenze di neutralità assoluta sono dunque temperate da quei «compromessi ragionevoli» che permettono a ciascuno di esercitare la propria libertà religiosa.
La libertà di coscienza
Il secondo pilastro giuridico della laicità è senza dubbio la libertà di coscienza, insieme, in particolare, alla sua declinazione come libertà di culto. Sul piano giuridico, la laicità non è stata lo strumento di una limitazione delle scelte spirituali a danno delle religioni, ma invece l'affermazione della libertà di coscienza religiosa e filosofica di tutti. Si tratta di conciliare i principi di separazione delle Chiese dallo Stato con la tutela della libertà d'opinione, «anche religiosa», della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. In sostanza le norme giuridiche, e soprattutto la giurisprudenza amministrativa, hanno cercato di garantire l'esercizio effettivo del culto, a patto che non turbi l'ordine pubblico (cf. in particolare le conclusioni del commissario del governo Corbeille sotto la sentenza Consiglio di Stato del 10 Agosto 1907 Baldy ).
È innanzitutto il libero esercizio del culto che viene concretamente tutelato e garantito. Dopo la legge del 1905, i beni mobili e immobili sono stati restituiti allo Stato. Esso ne assume dunque la presa in carico finanziaria, il che non è trascurabile trattandosi di edifici di culto spesso assai costosi da mantenere. Per contro, gli edifici costruiti dopo la legge di separazione costituiscono beni privati fatti e mantenuti dai fedeli, con le difficoltà che questo può rappresentare in termini di finanziamento. Le comunità locali hanno tuttavia la possibilità di concedere garanzie di prestito e contratti d'enfiteusi per il finanziamento della costruzione di edifici di culto.
Al fine di garantire l'esercizio del culto, la legge del 1905 prevedeva che tali beni restassero a disposizione delle associazioni di culto che dovevano costituirsi. Calvinisti, luterani e israeliti accettarono di dar vita a tali associazioni. Nel caso della Chiesa cattolica, bisognò attendere il compromesso del 1924 perché le associazioni diocesane potessero esser assimilate ad associazioni di culto. Tali associazioni, cultuali o diocesane, sono costituite per far fronte alle spese, al sostentamento e all'esercizio pubblico di un culto. I loro obblighi sul piano giuridico e contabile sono stringenti. Ma in contropartita, esse godono di una potestà giuridica paragonabile a quella delle associazioni riconosciute d'utilità pubblica, il che permette loro, in particolare, di ricevere legati o donazioni. Si hanno ugualmente associazioni costituite unicamente sotto il regime della legge del 1901 e che tuttavia si fanno carico dell'organizzazione d'un culto, in conformità alle disposizioni della legge del 2 gennaio 1907. Esse possono dunque assumere altri scopi, nella fattispecie di culto, sociali o filantropici. Per contro, non godono che di una potestà giuridica limitata e non possono ricevere legati o donazioni. Tali associazioni, costituite secondo la legge del 1901, sono rare per il culto cattolico o protestante, ma più comuni nel caso delle altre confessioni, in particolare israelita, ortodossa o musulmana.
Per il resto, l'esercizio del culto è libero. Dopo la legge del 28 marzo 1907, i fedeli possono riunirsi senza bisogno di nessuna dichiarazione preliminare. Allo stesso modo è autorizzato il suono delle campane, altre volte causa di conflittualità. Nel caso delle processioni, il Consiglio di Stato è stato indotto a prendere una decisione sulla questione dei cortei funebri, e ha censurato il regolamento di una municipalità che li aveva vietati con il pretesto che costituivano un attentato alla neutralità della pubblica via (Consiglio di Stato 19 febbraio 1909 Padre Olivier ). Su questa sentenza poggia tutta la giurisprudenza amministrativa protettrice delle manifestazioni esteriori del culto nel rispetto degli usi e delle tradizioni locali.
Ma, come ogni libertà pubblica, la manifestazione della libertà di coscienza può esser limitata in caso di minacce all'ordine pubblico. È questa l'applicazione tradizionale del regime delle libertà pubbliche. Se la libertà è la regola e il provvedimento di polizia l'eccezione, i pubblici poteri hanno sempre la possibilità di adottare misure limitative delle manifestazioni della libertà di coscienza, sotto il controllo di legittimità esercitato dal giudice, al fine di prevenire minacce di turbamento all'ordine pubblico (Consiglio di Stato 19 Maggio 1993 Benjamin ).
Il parallelo con le regole in materia di diritto del lavoro è a questo proposito interessante, poiché vi si ritrova un analogo bilanciamento tra esigenze potenzialmente in contraddizione: la tutela della libertà di coscienza e la volontà di fissare i limiti necessari alla buona esecuzione del contratto di lavoro.
Il codice del lavoro è particolarmente garante dei diritti personali e delle libertà individuali dei salariati. Le sole restrizioni alle libertà sono quelle che sono giustificate dalla natura del compito e proporzionate allo scopo perseguito. Così l'articolo L. 120-2 del codice del lavoro prevede che « Nessuno può porre restrizioni ai diritti delle persone e alle libertà individuali e collettive che non siano giustificate dalla natura del compito da eseguire né proporzionate allo scopo perseguito ». L'articolo L. 122-35 del codice del lavoro precisa che un regolamento interno « non può porre restrizioni ai diritti delle persone e alle libertà individuali e collettive che non siano giustificate dalla natura del compito da eseguire né proporzionate allo scopo perseguito. Esso non può comportare, a capacità professionale uguale, disposizioni che ledano i dipendenti nella loro occupazione o nel loro lavoro, in ragione del loro sesso, dei loro costumi, del loro orientamento sessuale, della loro età, della loro situazione familiare, delle loro origini, delle loro opinioni o confessioni, del loro aspetto fisico, del loro patronimico, o del loro handicap ».
D'altronde, il codice del lavoro vieta le discriminazioni, in particolare per le convinzioni religiose. L'articolo L. 122-45 del codice del lavoro prevede che « nessuna persona può essere esclusa da una procedura di reclutamento o dall'accesso a uno stage o a un periodo di formazione in impresa, nessun salariato può esser sanzionato, licenziato o esser oggetto di una misura discriminatoria, diretta o indiretta, in particolare in materia di remunerazione, di formazione, di riclassamento, di assegnazione, di qualificazione, di classificazione, di promozione professionale, di cambiamento o di rinnovo contrattuale, in ragione della sua origine, del suo sesso, dei suoi costumi, del suo orientamento sessuale, della sua età, della sua situazione familiare, delle sue caratteristiche genetiche, della sua appartenenza o non-appartenenza, vera o supposta, a una etnia, una nazione o una razza, delle sue opinioni politiche, delle sue attività sindacali o di mutuo soccorso, delle sue convinzioni religiose, della sua apparenza fisica, del suo patronimico o - salvo il caso di inattitudine constatata dalla medicina del lavoro nel quadro del titolo IV del libro II del presente codice - in ragione del suo stato di salute o del suo handicap».
Purtuttavia, la giustizia in sede di giudizio è stata indotta a modulare tali principi per conciliarli con il rispetto del contratto di lavoro e della sua esecuzione. La giurisprudenza ha così chiarito la possibilità di conflitto tra vita professionale e personale, sia quando un datore di lavoro giudica il comportamento o l'atteggiamento del dipendente come violazione dei suoi doveri tale da giustificare il licenziamento, sia quando il dipendente si ritiene in diritto di far prevalere alcune delle sue convinzioni. In linea di principio, il comportamento del dipendente nella propria vita personale, fuori dal tempo di lavoro, non può esser usato contro di lui dal suo datore di lavoro. Durante il lavoro, il dipendente è invece soggetto alla piena autorità del datore di lavoro. Anche se egli conserva evidentemente dei diritti e delle libertà che rientrano nel campo della vita personale, e a cui il datore di lavoro non può attentare senza ragione e indiscriminatamente (Corte di cassazione, camera sociale, 18 Febbraio 1998), le sue rivendicazioni devono conciliarsi con gli obblighi contrattuali e l'organizzazione del lavoro. Un dipendente non può così esigere dal suo datore di lavoro il rispetto della manifestazione delle proprie convinzioni religiose, in assenza di esplicita menzione nel contratto di lavoro, sia che si tratti di rimborso di indennità corrispondenti a pasti del mezzogiorno forniti gratuitamente dal datore di lavoro e che egli si sia astenuto dal consumare per motivi religiosi (Corte di cassazione, camera sociale, 16 Febbraio 1994), sia di rifiuto ad eseguire il proprio lavoro di dipendente in un reparto-macelleria per il fatto di dover manipolare della carne di maiale (Corte di cassazione, camera sociale, 24 Marzo 1998), o di rifiutare, per motivi religiosi, di subire una visita medica regolamentare (Corte di cassazione, camera sociale, 29 Maggio 1986).
Nel caso del velo, le sole sentenze emesse sono rappresentate da pronunciamenti della giurisdizione di prima istanza o d'appello. E' stato così giudicato che il rifiuto di una dipendente, venditrice in un centro commerciale aperto al largo pubblico, di rinunciare a portare un velo ostentatorio, invece che un semplice copricapo, costituisce una causa oggettiva e seria di licenziamento (Corte d'appello di Parigi, 18-esima camera, 16 marzo 2001, Sig.ra Charni contro SA Hamon). Al contrario , in assenza di ogni giustificazione valida al divieto di portare il velo, e quando la dipendente sia stata assunta mentre indossava lo stesso velo, il licenziamento della dipendente è stato annullato perché costituiva una discriminazione, ai sensi dell'articolo L. 122-45 del codice del lavoro (consiglio dei probi viri 17 Dicembre 2002 Tahri contro Téléperformance France ).
L'orientamento è dunque essenzialmente quello di una valutazione caso per caso.In sostanza, il giudice in sede giudicante, se riconosce i diritti garantiti dal rispetto della libertà di coscienza, vigila affinché tali esigenze siano rese conciliabili con la buona esecuzione del contratto di lavoro.
I punti di tensione
La difficoltà della traduzione giuridica del principio di laicità si spiega con la tensione tra i due poli, nient'affatto incompatibili ma potenzialmente capaci di entrare in contraddizione, della neutralità dello Stato laico e della libertà di religione. L'articolazione è delicata quando i beneficiari del servizio pubblico o coloro che vi sono addetti si trovano a confrontarsi con situazioni suscettibili di toccare le loro convinzioni religiose. Ciò accade più in particolare in universi chiusi, dove la vita in comune può giocare un ruolo importante. La tensione è allora forte tra le esigenze d'un servizio pubblico che si suppone debba rimanere neutrale e la volontà dei singoli di affermare in piena libertà le proprie convinzioni spirituali.
Un esempio interessante è quello dell'esercito. L'articolo 7 dello statuto militare pone come principio la libertà d'opinione dei militari. Ma questa libertà non può esprimersi che al di fuori del servizio. Quando tale condizione è rispettata, la tutela della libertà di coscienza è garantita, anche nell'ambiente militare. Il sistema dei cappellani militari permette così di facilitare la libertà di religione. Ma per converso, nel quadro del servizio, è il dovere della neutralità più assoluta che si applica.
Nelle prigioni, l'articolazione di queste esigenze è regolamentata dal codice di procedura penale. E' prevista l'assistenza spirituale ai detenuti. Il ministro della Giustizia nomina cappellani dei differenti culti dopo essersi consultato con l'autorità religiosa competente. Questi hanno per missione di portare regolarmente soccorso ai detenuti e di celebrare le funzioni. I prigionieri, dal momento del loro arrivo in un carcere, sono avvertiti di questa possibilità. Ciò premesso, le esigenze di mantenimento rigoroso dell'ordine pubblico giustificano che si sottometta a uno stretto controllo l'esercizio della libertà personale, attraverso il regolamento interno e la sanzione di tutti i fatti di rilievo disciplinare.
In materia di servizio pubblico ospedaliero, la natura delle potenziali minacce è diversa. Una gran parte degli utenti non è chiamata a vivere a lungo nell'ospedale e, in ogni caso, la vita collettiva rimane limitata. Possono esservi delle difficoltà legate all'affermazione di convinzioni religiose nel quadro di un servizio pubblico supposto neutrale. Ma i principali problemi riguardano in realtà l'organizzazione del servizio: il tener conto di rivendicazioni legate a precetti religiosi non può arrivare fino a pregiudicare i compiti del servizio pubblico.
Nell'ambito scolastico, i problemi si pongono in modo oggettivamente acuto. In un ambiente parzialmente chiuso, gli alunni, presi in carico per un lungo periodo, devono apprendere e vivere insieme, in una situazione in cui essi sono ancora fragili, soggetti alle influenze e alle pressioni esterne. Il funzionamento della scuola deve permettere loro di acquisire gli strumenti intellettuali destinati ad assicurarne in futuro l'indipendenza critica. Il riservare uno spazio all'espressione di convinzioni spirituali e religiose non è dunque cosa scontata.
L'esistenza di un insegnamento confessionale sotto contratto d'associazione con lo Stato consente che si affermi pienamente la libertà religiosa insieme alla considerazione del carattere proprio di una religione. La libertà d'insegnamento è ritenuta, in quanto principio fondamentale riconosciuto dalle leggi della Repubblica, come un principio di valore costituzionale. In questo quadro, è evidente che nessuna disposizione giuridica si oppone alla creazione di scuole musulmane. I rapporti tra lo Stato e gli istituti privati d'insegnamento, il cui specifico carattere è parimenti protetto, sono fissati dalla legge Debré del 31 Dicembre 1959. In cambio di aiuti finanziari - stipendi degli insegnanti e spese di funzionamento - gli istituti privati devono adottare i programmi dell'insegnamento pubblico e accogliere « tutti i ragazzi senza distinzione d'origine, d'opinioni o di credenza» «nel rispetto totale della libertà di coscienza ». La presa in carico del mantenimento di edifici privati con fondi pubblici è possibile, nel limite del 10% consentito dalla legge Falloux.
Nell'ambito scolastico, ad eccezione degli istituti d'insegnamento privati, la conciliazione tra libertà di coscienza ed esigenze di neutralità del servizio pubblico è delicata. La questione del velo, con la sua dimensione mediatica, ne è stato il simbolo. Allorché la questione emerge per la prima volta nel 1989, il potere politico, di fronte allo scatenarsi delle tensioni, preferisce consultare il Consiglio di Stato. Il governo aveva soltanto chiesto al Consiglio di Stato di esplicitare la situazione di diritto inun momento dato. Inoltre, il contesto era sensibilmente differente da quello che si conosce oggi. Le rivendicazioni comunitarie e i timori di messa in causa del servizio pubblico restavano limitati. È a questo proposito rivelatore che il ricorso al parere del Consiglio di Stato non fa menzione della questione delle discriminazioni fra uomini e donne. L'evoluzione dei termini del dibattito in quindici anni permette di misurare la crescita dell'importanza del problema.
L'Assemblea generale del Consiglio di Stato ha reso il proprio parere il 27 Novembre 1989. Si sono dovute articolare, da una parte, le regole internazionali e nazionali a tutela della libertà di coscienza e, dall'altra parte, il principio costituzionale di laicità dello Stato. In quest'ambito assumeva un particolare rilievo la legge d'Orientamento del 10 Luglio 1989 la quale all'articolo 10 sancisce in maniera molto ampia la libertà d'espressione degli alunni. Il Consiglio di Stato non ha potuto dunque che constatare l'affermazione del diritto degli studenti, riconosciuto dal legislatore, alla libertà d'espressione negli istituti pubblici. Il pronunciamento stabilisce che il principio di laicità impone che « l'insegnamento sia dispensato nel rispetto, da un lato, della neutralità da parte dei programmi e degli insegnanti, dall'altro lato della libertà di coscienza degli alunni ». Il Consiglio di Stato riconosce su questo fondamento il principio della libertà degli alunni di portare simboli religiosi nell'ambiente scolastico. Ma ha tuttavia inteso inquadrare il diritto legalmente riconosciuto all'espressione nelle esigenze di funzionamento del servizio pubblico. Esso ha cercato in tal modo di salvaguardare il servizio conciliando diritto all'espressione riconosciuto dalla legge e il rispetto delle esigenze del servizio pubblico. Il Consiglio di Stato ha così posto quattro divieti complessivi:
- sono vietati gli atti di pressione, di provocazione, di proselitismo, o di propaganda;
- sono respinti i comportamenti che possano recare pregiudizio alla dignità, al pluralismo o alla libertà dello studente o di ogni membro della comunità educativa e quelli che compromettano la loro salute e sicurezza;
- sono escluse tutte le turbative allo svolgimento delle attività d'insegnamento, del ruolo educativo degli insegnanti e qualsiasi turbamento all'ordine degli istituti o al funzionamento regolare del servizio;
- i compiti assegnati al servizio pubblico dell'educazione non possono esser pregiudicati dai comportamenti degli alunni, in particolare per quanto riguarda il contenuto dei programmi e l'obbligo di frequenza.
Globalmente, i simboli religiosi non sono in sé vietati ma possono esserlo se rivestono un carattere ostentatorio o rivendicativo. Il Consiglio di Stato non poteva dunque invitare che ad una valutazione caso per caso sotto il controllo di legittimità del giudice.
La giurisprudenza successiva ne è una conseguenza: essa è stata segnata dalla difficoltà incontrata dall'amministrazione dell'Educazione nazionale di far comprendere queste regole di diritto a livello dei rettorati (nota4). Ciò si è tradotto in numerosi annullamenti che hanno malamente riflesso le esigenze di fondo del giudice. È così il giudice ha dovuto sanzionare molti regolamenti che vietavano a priori di portare qualunque simbolo religioso (vedi ad esempio Consiglio di Stato 2 Novembre 1992 Kherouaa). Gli annullamenti sono stati tanto più mal percepiti quanto più in realtà le sanzioni avrebbero potuto esser giustificate da mancanze nei confronti degli obblighi di frequenza, di continuità o di ordine pubblico.
Ciò premesso, gli annullamenti non devono celare la severità del giudice in altre circostanze. Un'infrazione alla frequenza non è tollerata solo se è incompatibile con lo svolgimento degli studi e con il rispetto dell'ordine pubblico all'interno dell'istituto (Consiglio di Stato 14 Aprile 1995 Koen e Concistoro centrale degli Israeliti di Francia). Il rifiuto di assistere a certe lezioni, come le lezioni di educazione fisica e sportiva, non è ammesso (Consiglio di Stato 27 Novembre 1996 Atouff e nella stessa data Wissaadane ). È possibile chiedere a un'alunna di togliere il velo durante una lezione d'educazione fisica, per assicurare il buon svolgimento della lezione (Consiglio di Stato 10 Marzo 1995 époux Aoukili ). Infine, ogni manifestazione religiosa all'interno di un istituto è severamente sanzionata e costituisce un grave turbamento al funzionamento dell'istituto (Consiglio di Stato 27 Novembre 1996 Ligue islamique du Nord ). La giurisprudenza è dunque lungi dall'essere lassista, contrariamente all'immagine che hanno potuto dare alcune sentenze, largamente pubblicizzate dai ‘media', che annullavano dei regolamenti interni o dei provvedimenti d'espulsione. Quali che siano le interpretazioni di cui è stato oggetto, bisogna almeno riconoscere al parere del Consiglio di Stato il merito di aver permesso di far fronte per quindici anni a una situazione esplosiva che il legislatore non aveva voluto affrontare.
La giurisprudenza si è tuttavia scontrata con tre difficoltà.
- In primo luogo, l'adozione di una procedura caso per caso sottintendeva la possibilità da parte dei capi d'istituto di assumere delle responsabilità; ma essi si trovavano spesso isolati in un ambiente difficile.
- In secondo luogo, il giudice non ha ritenuto di procedere all'interpretazione del significato dei simboli religiosi; si tratta qui di un limite dell'intervento del giudice, a cui è parso impossibile entrare nell'interpretazione data da una religione a questo o quel simbolo. Così il giudice non ha fatto emergere le discriminazioni tra uomo e donna, che il fatto di portare il velo poteva rappresentare per talune ragazze, discriminazioni che sono contrarie a un principio fondamentale della Repubblica.
- Infine, in terzo luogo, la giurisprudenza ha vietato i simboli ostentatori che si ponevano come veicoli di proselitismo; ma, in pratica, i capi d'istituto si sono trovati nell'impossibilità di tracciare il confine tra il simbolo ostentatorio illecito e il simbolo non ostentatorio lecito.