Invalsi: cosa fare dei dati?

di Tiziana Pedrizzi

Da qualche anno dal dopo Covid la situazione delle rilevazioni Invalsi sembra definitivamente assestata dopo quasi due decenni di travagli. Manca solo la collocazione nel curriculum dello studente dei livelli raggiunti nelle prove precedenti all’esame di maturità, che è stata rinviata al prossimo anno ormai senza opposizione significativa, vista la ormai plateale mancanza di credibilità degli esami in corso.

Questa situazione consente all’Italia di essere uno fra i paesi occidentali con una significativa mole di dati  attendibili, articolata per aree disciplinari ed annualità, sui livelli di apprendimento dei propri giovani, classificata in relazione ai fattori correlabili: genere, nazionalità di origine, contesto territoriale, livello sociale degli allievi, etc.

Anche l’opposizione si esprime oramai più con l’elusione che con la contrapposizione, grazie al fatto che non è obbligatorio per le scuole rendere pubblici i propri risultati alla potenziale utenza. Ma esistono anche molte scuole che continuano o iniziano a fare oggetto di analisi la struttura e l’impostazione delle prove, per capire che messaggio vogliono mandare. E stanno aumentando le iniziative di formazione INVALSI che cercano di spiegare questo messaggio.

Paradossalmente questa situazione pone la domanda: ed ora cosa ce ne facciamo di questi dati? Molte strade si presentano.

Una è utilizzarli come strumento di analisi della ricerca sociale, mettendo a fuoco alcuni problemi cruciali come quello del Sud, dei risultati delle ragazze in matematica che influenza poi pesantemente i dati dei nostri laureati in STEM, dei risultati degli immigrati che faticano a decollare ed altri. Il luogo per eccellenza in cui viene fatto questo lavoro è l’annuale seminario Invalsi che si tiene nell’autunno di ogni anno e di cui in questo sito si presentano i risultati. Che meriterebbero peraltro di avere una più ampia diffusione, sia sulla stampa specialistica che in quella generalista.

L’altra strada è quella dell’intervento sulla didattica delle scuole, non tanto e non solo al fine di migliorarne i risultati, ma al fine, come si è detto sopra, di un confronto sugli orientamenti metodologico-didattici delle scuole stesse. Questo percorso ha cominciato ad essere presentato nel gennaio 2023 con un seminario di lavoro presso l’Università Cattolica di Milano ed ha trovato attuazione pratica anche attraverso l’utilizzo dei fondi del PNRR.

Il 28 maggio si e tenuto presso il Ministero dell’Istruzione e del Merito un seminario della stessa Invalsi sul Miglioramento dell’offerta formativa che è sembrato andare in questa direzione.

In apertura si sono messe accanto dispersione esplicita ed implicita.

Dispersi esplicitamente sono i giovani fra i 18 ed i 24 anni privi di diploma. In questi ultimi due decenni si è passati con un balzo significativo dal 25% del 2000 al 9,8 del 2024, quando il traguardo fissato dalla UE per il 2030 è del 9% ed il target PNRR del 10,2%. È stato tuttavia evidenziato che manca un collegamento efficace tra l’Agenzia Nazionale degli Studenti (istituita nel 2017) e i Centri di Formazione Professionale di competenza regionale. Questa disconnessione risulta particolarmente incongrua in quelle Regioni che dispongono di un sistema di formazione professionale ben funzionante. In sintesi, la dispersione esplicita è in calo – nonostante la crisi pandemica – ma continua a colpire soprattutto i maschi del Sud e gli studenti immigrati.

Diverso il discorso per la dispersione implicita, un concetto questo di conio Invalsi che si sta affermando, relativo ai casi di conseguimento di titoli di studio, i cui titolari non possiedono i livelli minimi di competenza che gli studenti dovrebbero avere conseguito. Qui siamo in un terreno di nuova costruzione che mette in discussione, tra l’altro, la effettiva attendibilità degli attestati che, attraverso le valutazioni annuali e finali la scuola rilascia: terreno delicato dunque. Su cui non mancano da sempre le discussioni, anche a carattere generale, fra chi ritiene che la fortissima spinta all’istruzione per tutti registratasi in Occidente nella seconda metà del secolo scorso non potesse che portare ad un generale abbassamento qualitativo e chi ritiene che questo non fosse inevitabile ma sia dovuto alla incapacità della scuola di dotarsi degli strumenti necessari per la effettiva realizzazione di un innalzamento culturale complessivo. Meno frequentato il discorso sulle responsabilità complessive delle società e del loro orientamento culturale nei confronti della valorizzazione o meno della istruzione e della cultura, anche se negli ultimi tempi si stanno innalzando voci come quella del francese Dubet che cominciano a mettere in discussione la responsabilità esclusiva della scuola in tema di istruzione universale. Società più uguali non dipendono solo da lei.

Comunque, i dati presentati dal presidente Invalsi Roberto Ricci ci dicono in estrema sintesi che in terza media, le classi con un massimo di 20 alunni rappresentano oltre il 52% del totale, con una percentuale di studenti “low performer” pari al 3,05%. Al contrario, le classi di dimensioni intermedie (21-25 studenti) mostrano una percentuale inferiore di studenti con basso rendimento (0,98%), solo di poco più alta (1,14%) in quelle più numerose (oltre 26 alunni) . Analogamente, in seconda superiore, le classi con al massimo 20 studenti costituiscono oltre il 73% del totale, ma registrano un tasso di “low performer” pari al 6,63%. Anche in questo caso, le classi con 21-25 alunni mostrano una percentuale inferiore (3,69%), mentre quelle più numerose, che rappresentano solo una piccola parte (5,4%), evidenziano un valore intermedio (4,64%). Questi dati a dimostrazione che la dimensione della classe non è correlata alla qualità dei risultati.

Il cuore della comunicazione sembra comunque essere stato quello della individuazione in forma “granulare”, cioè specifica e dettagliata, delle scuole particolarmente problematiche presenti su tutto il territorio nazionale, al fine di permettere un intervento specifico e produttivo sulla didattica. Invece di utilizzare le risorse con interventi a pioggia spesso inefficaci, è meglio puntare le energie su obiettivi ben individuati, sia come singoli soggetti che come scuole. I fondi europei non sono cominciati con il PNRR. Una analisi precisa delle situazioni territoriali e scolastiche dimostrerebbe che, ferme restando le situazioni rispettive delle macroregioni, all’interno delle stesse è possibile individuare differenziazioni in senso positivo e negativo che richiedono interventi più mirati.

Certo, il sistema messo in azione anni fa dal Servizio Nazionale di Valutazione – comprendente la definizione del RAV e del Piano di miglioramento, e seguito dalle visite esterne e dalla rendicontazione sociale – sembra un po’ accantonato, anche se dovrebbe iniziare una nuova edizione dall’ottobre 2025. Senza una spinta anche istituzionale, è presumibile che le scuole non vi si affannino intorno, vista la gragnuola di nuove sollecitazioni cui sono al solito sottoposte. Peccato, perché in realtà, come in tutte le cose umane, una totale autoregolazione è raramente efficace, anche se ovviamente è vero anche il contrario, cioè che una etero-regolazione  non sempre lo è.

Anche se è stato messo in rilievo che negli ultimi anni non sono mancati interventi volti al contrasto della dispersione scolastica, alla riduzione dei divari territoriali, al potenziamento delle competenze attraverso l’erogazione di risorse, da quelle del PNRR di Agenda Sud ed Agenda Nord, del Decreto Caivano fino alle misure relative all’orientamento in particolare nella scuola media.

Coerentemente con questa situazione che ha visto negli ultimi tempi una notevole erogazione di risorse aggiuntive è emersa, nel finale del seminario Invalsi, un’esortazione da parte del mondo della ricerca a valutare gli effetti delle innovazioni, che non vanno dati per scontati. Invito serio soprattutto nel nostro Paese, poco avvezzo alle rendicontazioni basate sui dati e spesso a priori entusiasta di iniziative di cui mai si è saputo il risultato. Ma bisogna anche considerare che la scuola è un meccanismo ad effetto lento.

Con una singolare consonanza il giorno successivo presso il Parlamento, Fondazione Agnelli e Fondazione Rocca hanno organizzato la presentazione della ricerca ”Divari scolastici in Italia” in cui, dopo una sintesi chiara e completa dei risultati PISA ed INVALSI in termini di differenziazione sociale e territoriale, ci si è concentrati sulle possibili modalità di intervento positivo.

E’ stato identificato un gruppo di scuole secondarie di II grado con risultati nettamente superiori a quelli medi attesi in un dato contesto territoriale fra cui 5 sono stati oggetto di analisi qualitative. Arrivando a conclusioni sul che fare relative ad organizzazione, gestione delle risorse, didattica e curriculi. Ma soprattutto, vista la natura di Fondazione Rocca e Fondazione Agnelli, relative a politiche di carattere strutturale: orientamento più efficace alla scuola media, nocciolo duro delle competenze di base trasversali nel biennio iniziale comune, autonomia differenziata per le scuole con buoni risultati ed infine creazione seria e solida del middle management, quella che l’ADi preferisce chiamare leadership intermedia o diffusa.

Tutto bene. Ma continua a mancare un panorama di solide, articolate e complesse analisi su alcuni nostri macroscopici problemi strutturali, prima di tutto ovviamente il divario Nord-Sud, come anche il persistente gap delle nostre ragazze nel campo delle STEM rispetto ai paesi omologhi ed anche la difficoltà degli immigrati attualmente di seconda e terza generazione a perseguire percorsi formativi in crescita.

I dati INVALSI rappresentano una risorsa essenziale per questo lavoro.

ADi