Una breve storia del “tempo scuola”


Le origini del tempo scolastico

Il tempo è la risorsa più importante e preziosa dell'insegnamento e dell'apprendimento. Fin dalle origini della scuola l'organizzazione del tempo di lavoro degli studenti e degli insegnanti è stata al centro di un'attenzione particolare. I Gesuiti, tra i primi, hanno accuratamente ripartito il tempo in tre dimensioni fondamentali: la lezione, lo studio individuale e la ricreazione , all'interno di una organizzazione “totalitaria”, che occupava l'intera giornata dei ragazzi, 24 ore su 24. A questa ripartizione corrispondeva anche una coerente definizione degli spazi. L'edificio scolastico era – come in gran parte rimane – una combinazione di un modulo seriale, l'aula, l'unità di misura della scuola, alla quale si connettono altri spazi funzionali non essenziali, ma utili alla circolazione fluida e ordinata degli attori della scena educativa (corridoi, atrio, cortile della ricreazione).

 

Il XIX secolo

Con l'avvio dei sistemi scolastici nazionali alla metà del XIX secolo, la concezione del tempo, del ritmo di insegnamento, dell'organizzazione didattica, si è definita e consolidata in un unico modello, che potremmo definire “amministrativo”. Quel modello è rimasto pressoché immutato fino ai giorni nostri, specialmente nella scuola secondaria.

I tentativi di cambiamento tra il XIX e il XX secolo

A cavallo tra il XIX e il XX secolo l'impegno dei nostri migliori intellettuali è stato vivacemente presente sulle tematiche della dimensione temporale, dei ritmi di apprendimento e dei “bisogni” degli studenti. Un grande filologo come Pasquali, ma anche il suo collega Augusto Monti, intervenivano contro il “sovraccarico” delle materie e dei compiti per casa in difesa della salute psichica e fisica degli studenti; Luigi Einaudi, ex insegnante di liceo, in un lucidissimo intervento sul “Corriere della Sera” polemizzava contro gli orari lunghi (nel 1913 il liceo occupava i ragazzi 24 ore la settimana!), e prima di lui aveva detto parole fondamentali un genio della matematica e della didattica come Giovanni Vailati (1906):

“Uomini colti, insegnanti, studiosi di pedagogia, che respingerebbero con terrore la proposta di impegnarsi, fosse anche solo per una settimana, ad assistere a tre conferenze al giorno, l'una di seguito all'altra, anche sui soggetti che maggiormente li interessassero, non sembrano vedere l'assurdità didattica, igienica, e psicologica di ordinamenti scolastici che costringono i ragazzi dai dieci ai diciotto anni a rimanere inchiodati, in media per cinque ore al giorno, durante anni interi, sui banchi della scuola, come se non vi fossero altri mezzi per ottenere gli scopi che così si raggiungono o, per parlar più esattamente, gli scopi che si crede così di raggiungere…”

Nello stesso senso si esprimeva Gaetano Salvemini

Il trionfo dell'idealismo

Il processo di inconsapevole occultamento delle condizioni con cui l'organizzazione scolastica può favorire o meno il processo di apprendimento è avvenuto in Italia con il trionfo dell'idealismo, a cui si deve anche l'affermazione dell'omogeneità qualitativa del tempo scuola con il conseguente rifiuto delle “ opzionalità” accusate da Giovanni Gentile (1902) di essere ree di attentato all' “integrità dello spirito”:

•  “Ora mi par chiaro questo: che, se lo Stato insegna, deve sapere quel che ha da insegnare. E se lo sa, non deve ammettere che un ragazzo o un padre di famiglia, opponendo al suo sapere, che, storicamente parlando è la scienza stessa, rompa ad libitum l'organismo della sua scuola, e trascelga tra le morte membra quelle che più gli aggradano a comporre un corpo mostruoso ed esanime. Ovvero lo Stato non crede di sapere quello che ha da insegnare; e cassa allora il suo diritto di tenere e governare la scuola
A Gentile si deve anche il consolidamento del monopolio della lezione magistrale sull'attività laboratoriale, sulle discipline applicative od operative.

Da Gramsci ai giorni nostri: lo studio come sacrificio e fatica

Posizioni come quelle espresse da Vailati, Monti, Einuadi e Salvemini, sono rimaste isolate e inascoltate nel tempo. Si è affermato invece il discorso– chi non ricorda le parole di Gramsci ? – che lo studio, per essere tale, deve essere associato alla fatica, al sacrificio, al dolore di imparare, niente di più lontano dalla soggettività dello studente massa di oggi.

In tal modo l'analisi scientifica sulle condizione di lavoro dei ragazzi è divenuta irrilevante e la ricerca si è sentita esonerata dalla riflessione sull'organizzazione dei tempi e degli spazi dello stare a scuola.

 

Così – negli anni Cinquanta – cadde nel vuoto l'intelligente impegno polemico di Guido Calogero (1953 ), che accusava di sadismo questa impostazione “penitenziale” del mestiere di studiare, che ancor oggi gode di grande credito:

•  “Anche i laici più inveterati, in Italia, credono nel peccato originale. Il ragazzo è originariamente sbagliato, storto, e deve essere fatto soffrire durante tutta la sua fanciullezza e l'adolescenza, per diventare adulto. Egli vorrebbe divertirsi. No, deve sgobbare (quando si potrebbe studiare il modo di farlo lavorare in modo divertente). Egli vorrebbe leggere libri piacevoli. No, deve leggere libri noiosi (noiosi, beninteso, anche per l'insegnante, quando ce ne sarebbero tanti che potrebbero nello stesso tempo divertire lui e loro). Egli vorrebbe sentir parlare di problemi che lo interessano. No, deve sentire parlare di problemi che interessano i suoi maestri (o che i programmi del ministero presuppongono che interessano i suoi maestri, i quali poi troverebbero forse più interessanti i problemi suoi)."

 

Gli stessi studenti – come dimostrano le vicende del lunghissimo '68 italiano e i contenuti rivendicativi dei vari “movimenti” – hanno preferito restare sul terreno dell'idealismo, della contestazione delle “riforme”, del sostegno alle rivendicazioni degli insegnanti, affetti da una specie di sindrome di Stoccolma, piuttosto che riflettere sul loro modo di lavorare a scuola. Lo studente “attivo” nelle assemblee delle scuole italiane sa riassumere con una certa efficacia i contenuti (compresi gli emendamenti) dell'ultima legge finanziaria e tradurre in slogan una piattaforma contro i “tagli” all'occupazione del personale ed anche degli orari (Scuola ripartono le occupazioni. Contro la riduzione di ore e materie. Contro la sostituzione del tempo scuola con il lavoro in azienda , …Corriere della sera, Milano, 12 aprile 2005), ma non saprebbe mettere insieme un'idea che riguardi il miglioramento delle condizioni del suo mestiere di giovane che studia.

L'innovazione dell'autonomia scolastica: un cambiamento sulla carta

Il primo vero tentativo di superare la vecchia concezione ottocentesca del tempo coincide con l'avvio dell'autonomia delle istituzioni scolastiche. L'art. 21 della Legge 59/97 e soprattutto il regolamento (DPR 275/99) affrontato il problema della “flessibilità” organizzativa, aprendo spiragli di riflessione e di progettazione dei tempi di insegnamento e apprendimento del tutto nuovi per la tradizione italiana. In particolare viene definito che:

•  Gli adattamenti del calendario scolastico sono stabiliti dalle istituzioni scolastiche in relazione al POF, nel rispetto del calendario generale decretato dalle Regioni

•  L'orario complessivo del curricolo e quello delle singole discipline e attività sono organizzati in modo flessibile, anche su programmazione plurisettimanale, fermi restando l'articolazione delle lezioni in non meno di cinque giorni settimanali e il rispetto del monte ore annuale, pluriennale o di ciclo per le singole discipline e attività obbligatorie. (Art.5, DPR 275/99).

C'è dunque un tentativo di finalizzare i tempi d'insegnamento all'eterogeneità degli allievi, alla diversificazione dei metodi, all'apertura della scuola all'ambiente e al territorio, all'utilizzazione delle nuove tecnologie, al lavoro in équipe degli insegnanti.

Nonostante il passo avanti, però, rimangono intatte le abitudini consolidate, dovute anche all'insufficienza della ricerca scientifica in questo campo.

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