Gli interessi corporativi e le retoriche pedagogiche

Non ci sono solo vincoli e regole formali a condizionare il tempo scuola. Contro una sua razionale organizzazione hanno via via congiurato pressioni corporative, esigenze astratte del sapere (non dell'apprendere), retoriche pedagogiche di vario tipo.
Questo ampio fronte politico, sindacale e culturale ha ottenuto nell'arco di un ventennio:
- il graduale aumento degli orari di lezione , che oggi sono superiori alla media dei Paesi Ocse (Education at a Glance, 2004): gli inglesi e gli svedesi ci informano che la durata delle lezioni nello loro scuola secondaria non supera le 25 ore settimanali;
- la diminuzione progressiva del tempo dedicato alle pause (il cosiddetto “intervallo”) che in Italia non supera i 15/20 minuti, anche quando le lezioni durano 6 o 7 ore al giorno;
- la concentrazione nella mattinata del tempo dedicato alle lezioni . Solo in Italia si riescono a confezionare orari di 33 o 36 ore tutte al mattino, con ragazzi che – in alcuni casi – stanno a scuola dalle 8 alle 14,00. Persino i deputati (VII commissione, 2000) autori dell'indagine parlamentare sulla dispersione non possono nascondere il loro stupore:
- “Finisce cioè per essere un paradosso del nostro sistema che proprio chi mostra meno propensioni allo studio sia costretto all'orario di studio più pesante, ferme restando le prerogative di scelta derivanti alle scuole dall'autonomia, appare però urgente un ripensamento profondo dell'argomento anche in sede ministeriale”.
- l'aumento esponenziale delle materie di insegnamento, dal liceo classico all'istituto professionale, con una concezione del curricolo di tipo incrementale, in un patetico tentativo di offrire ai giovani l'interna cornucopia di saperi disponibili negli ultimi duemila anni. A nulla sono valse le polemiche e le riflessioni sui “livelli essenziali”, “il curricolo di base” (core curriculum), lo “zoccolo duro” di conoscenze per tutti, “i saperi fondamentali”, ecc. Il trionfo degli antichi “programmi” nozionistici, basato sul dogma della coincidenza tra ciò che si insegna e ciò che si apprende, non è mai stato tanto condiviso e difeso dalla cultura e dall'opinione pubblica italiana;
- infine, cosa troppo trascurata, l'aumento graduale della omogeneità qualitativa del tempo scuola, sia per effetto dello spazio insignificante assegnato alle opzionalità, che del monopolio della lezione magistrale sull'attività laboratoriale, sulle discipline applicative od operative. Lo studente “medio” italiano a scuola non fa mai nulla da solo né in gruppo, non si assume nessuna responsabilità curricolare, non partecipa al proprio progetto formativo, non fa scelte impegnative: ascolta o, meglio, assiste alle conferenze degli insegnanti, risponde alle domande nelle interrogazioni, svolge i compiti in classe e li consegna. In questa lunga e noiosa mattinata sempre uguale per le 33 settimane del canone burocratico, non gli viene chiesto nulla di veramente personale . Per questo la scuola appare agli studenti - ma anche agli insegnanti - faticosa ma non impegnativa.
Questi fenomeni hanno garantito l'integrità dell'occupazione, soprattutto in presenza della riduzione delle iscrizioni; e hanno aggirato il pericoloso conflitto coi rappresentanti dell'Accademia dei saperi (università, associazioni disciplinari, ecc.), che restano a guardia della materie e dello spazio conquistato nel territorio scolastico. Di tutto questo era già perfettamente al corrente quasi un secolo fa Luigi Einaudi (1913):
“Ogni professore diventa il rappresentante e il difensore di una disciplina, che egli vorrebbe tutta insegnare ai suoi giovani, disciplina di cui l'utilità è incontestabile, del cui insegnamento monco si deplorano gli inconvenienti nella pratica, nei concorsi alle cattedre. Ognuno opina che il proprio orario è insufficiente; che le tre ore settimanali dedicate ad una materia non bastano, ma sono necessarie le quattro, le cinque, magari le dieci”.