Rosario Drago

intervento 1a questione (I)

Una scuola riproduttrice delle differenze sociali: alcune teorie

La prima considerazione è che la nostra scuola, nonostante i tanti meriti generali, resta un' istituzione di riproduzione delle differenze sociali, piuttosto che uno strumento di mobilità ascendente e quindi di sviluppo democratico. Sappiamo da Daniele Checchi che, in Italia, un ragazzo figlio di operai ha venti probabilità in meno di laurearsi rispetto a un suo collega americano.

Daniele Checchi ha spesso proposto la seguente spiegazione. La decisione di accedere o non accedere a un determinato grado di istruzione viene presa in condizioni di incertezza rispetto alle proprie capacità e alle conseguenti probabilità di successo. L'unica informazione di cui dispongono gli studenti è la storia scolastica personale e familiare, ed è attraverso questa che costruiscono le proprie aspettative educative. Questo meccanismo determina sequenze ereditarie o “dinastiche” come le definisce Checchi: i figli di genitori non istruiti, avendo maggiori difficoltà a intravedere l'esito del proprio investimento in educazione, sono molto meno sollecitati a proseguire nei livelli più alti dell'istruzione.

Un altro modello interpretativo è quello utilizzato da Antonio Schizzerotto per leggere i dati dell'Indagine nazionale sulla mobilità sociale (IARD). L'indagine IARD dimostra che le disuguaglianze nell'accesso all'istruzione si riducono in presenza di:
    • livelli più alti di istruzione dei genitori,
    • percorsi scolastici regolari.
Gli insuccessi scolastici pregiudicano l'avanzamento negli studi molto di più nei giovani con genitori che hanno livelli bassi di istruzione che in quelli con genitori diplomati o laureati. Per i primi gli insuccessi accrescono il rischio di investimento, mentre per chi ha genitori diplomati o laureati conseguire un titolo di studio elevato, seppure attraverso un percorso accidentato, è condizione necessaria per non perdere la posizione sociale ereditata.

Vale la pena di ricordare anche la teoria di Randall Collins sui crediti educativi. Secondo Collins la scuola più che funzionare come un sistema che trasmette e certifica capacità e competenze, agisce come dispensatore di crediti o meglio di “credenziali” riconosciute dai datori di lavoro come segnali di appartenenza e come indicatori di affidabilità. I titoli di studio tendono però a perdere di valore via via che si diffondono. Pertanto se i ceti medio alti vogliono mantenere un vantaggio competitivo sul mercato del lavoro e delle professioni debbono conquistarsi titoli “rari”. La crescita dei sistemi di istruzione potrebbe così essere letta come il risultato di una continua rincorsa degli strati sociali inferiori per conquistare le “credenziali educative” che sono appannaggio delle classi medie e superiori, mentre queste , per difendere le “proprie posizioni”, spostano sempre più in alto l'asticella del salto. Ciò fa sì che la mobilità sociale sia resa impossibile o quanto mai difficile. In parole povere, l'immagine è quella di una scala dentro un ascensore: la posizione delle persone nei vari scalini della scala rimane sempre la stessa, anche se l'ascensore sale. Abbiamo quindi l'impressione di una crescita sociale, mentre, in realtà, tra i gruppi sociali la posizione relativa rimane pressoché immobile, e a pagare il prezzo più alto di questa mobilità illusoria sono i ceti meno abbienti (spese famigliari, distacco prolungato dal lavoro e, quindi, riduzione del reddito, esposizione prolungata all'umiliazione scolastica, ecc.)

Senza teoria: dentro la scuola

Le varie teorie, mettendo tra parentesi il processo sociale di insegnamento/apprendimento e riducendolo a una decisione di investimento o a una delle tante mosse del conflitto sociale, si rassegnano a non spiegare attraverso quali meccanismi le persone entrino ed escano dal sistema, come ci vivano, in quali condizioni ne escano. Per comprendere questi fenomeni bisognerebbe passare dall'analisi causale delle decisioni adottate dai vari attori (giovani e famiglie) ad altri livelli di analisi che prendano direttamente in considerazione le caratteristiche dell'interazione educativa e dei suoi riti. È un compito difficile per gli italiani, che non conoscono nemmeno il concetto di “vita scolastica” o di “schooling” , e per i quali la scuola è una specie di “scatola nera” dove avvengono cose che appartengono al mondo della necessità piuttosto che del progetto, dell'organizzazione, dell'intenzione.
Il modello dicotomico (avere e o non avere conseguito risultati positivi nel precedente corso di studi) potrebbe acquisire un maggiore spessore e un maggiore “realismo”, se analizzato anche come relazione sociale, insegnante/allievo/classe, nella quale l'allievo acquisisce informazioni, sviluppa schemi mentali, interagisce con i compagni e gli insegnanti, modifica i propri valori, si costruisce un'immagine di sé e delle proprie capacità, prova piacere, dolore, rabbia, entusiasmo, curiosità, in sintesi vive un processo di socializzazione o di transizione identitaria.
Non vado lontano dalla verità se mi sono convinto negli anni che la scuola è una struttura sociale punitiva, specialmente per i ragazzi che non condividono la cultura dei ceti medi e medio - alti, che sono la maggioranza.

Una scuola aperta, tollerante, democratica ... ma punitiva

Vediamo analiticamente alcuni fenomeni, che vengono ignorati dalla ricerca

a) Obbligati e bocciati (prosciolti dall'obbligo)

A scuola, i ragazzi vengono isolati dal loro abituale contesto di vita (l'antica opposizione tra scuola e “strada”, ricordate Pinocchio?), secondo il pregiudizio che la scuola fa “sempre bene” alla salute, alla mente, al corpo e all'anima. Eppure vedersi assegnare dei compiti che non si sanno svolgere, essere dichiarati pubblicamente incompetenti e incapaci, subire la riprovazione degli insegnanti, non favorisce certo lo sviluppo dell'autostima e del senso di competenza. E non favorisce nemmeno lo sviluppo di capacità progettuali. Da questo punto di vista l'allungamento dell'obbligo scolastico, se disgiunto dal successo formativo è un non senso. Peggio ancora, è un modo per ostacolare il processo di formazione dell'identità, per suscitare insicurezza, disistima personale, instabilità, ribellione, atteggiamenti di rinuncia e di fuga. Un processo di sviluppo che ponga le premesse per una continua capacità di apprendimento lungo tutto l'arco della vita (per alcuni ragazzi “falliti” a scuola, sembra quasi una minaccia) deve essere fatto di esplorazioni, di assunzione di impegni, di percezione della continuità della crescita, della capacità di agire, della costruzione del senso di autostima (e sappiamo bene quanto siano importanti gli insegnanti in questa costruzione). Tutto ciò non può avvenire in un contesto in cui si fa l'esperienza quotidiana del giudizio negativo, dell'incapacità di raggiungere obiettivi, dell'assenza di significato.

A questo è preferibile la strada. E non ho paura a pronunciare questa affermazione che ai più suona come una bestemmia. Sì, è preferibile l'uscita precoce da “questa” scuola, per lasciare almeno una porta aperta alla buona sorte di incontrare altri ambiti di vita in cui sia possibile fare esperienza di un positivo processo di apprendimento.

b) i ragazzi “lavorano in una fabbrica speciale”

I ragazzi vengono inseriti in un ambiente regolato da un preciso insieme di norme, che sono quelle di una fabbrica tayloristica, a cominciare dagli orari, la cui organizzazione non ha nulla a che fare con i loro bisogni, nemmeno quelli di tipo “igienico”. In Italia, gli intervalli della mattinata non superano ciascuno in nessun caso i 15 minuti, anche in presenza di sette ore continuative . Che a questa organizzazione “di fabbrica” si associ una grande tolleranza sui comportamenti, gli esiti, i doveri, ecc., nulla toglie alla violenza, se non altro simbolica, di queste condizioni di “sfruttamento” , che per moltissimi ragazzi non hanno alcun senso, non portano da nessuna parte.

c) una scuola “tutta testa niente mani”

I ragazzi vengono coinvolti in un'interazione finalizzata all'apprendimento di competenze esclusivamente cognitive. Val la pena di ricordare che nel nostro Paese la “licealizzazione” strisciante risale al periodo 1870/80, è proseguita dopo la crisi economica del '29, è approdata nella “riformetta" degli istituti professionali e dell'esame di maturità del 1969 e sembra ora concludersi con il trionfo della licealizzazione totale dell'istruzione tecnica. Il “saper fare” (con l'eccezione, non generalizzata, della scuola elementare, per effetto dell'attivismo pedagogico) è stato progressivamente espulso dalle scuole italiane, cedendo totalmente il posto ai modelli cognitivi di apprendimento propri delle famiglie acculturate, in primis quelle dei “benemeriti” insegnanti.

 

d) valori estranei a molti ragazzi

I ragazzi sono sottoposti a regole di condotta ma soprattutto a valori, che sembrano fatti apposta per trasmettere il fatalismo, la rassegnazione, la complicità e il cinismo. Lo dimostra bene una delle poche ricerca sugli studenti. (R. Cartocci, Diventare grandi in epoca di cinismo, Bologna, il Mulino, 2002).

 

 

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