Otto principi base che dovrebbero guidare l'integrazione anche in Italia

In materia di istruzione di bambini stranieri l'esperienza di molti paesi ha messo in evidenza alcuni principi fondamentali, che l'Italia dovrebbe assumere:

  1. Primo principio: l'inserimento nelle classi normali di qualsiasi bambino deve avvenire nel più breve tempo possibile. Quindi o si adotta subito il primo modello descritto, o nel caso in cui si opti per il secondo, deve essere il più corto possibile.
  2. Secondo principio: le scuole sono santuari e accolgono i bambini stranieri ad ogni momento dell'anno, anche i bambini clandestini. Nessun bambino deve restare in strada o a casa solo perché è arrivato in Italia con la famiglia alla data sbagliata!
  3. Terzo principio: l' apprendimento dell'italiano di base è indispensabile e deve essere svolto in un tempo ridottissimo. I bambini lo possono imparare in pochi mesi se le condizioni sono buone, se la didattica è giusta
  4. Quarto principio: gli eventuali gruppi separati transitori o se si vuole "classi d'inserimento " devono essere sempre collocati nei plessi scolastici italiani e essere organizzati in modo da rendere possibili scambi, interazioni, giuochi, attività costanti con i bambini italiani. E' solo frequentando i compagni italiani che imparano l'italiano. Non è restando isolati, a parte.
  5. Quinto principio: le classi d'inserimento, o gruppi transitori, sono di piccole dimensioni, retti da insegnanti specializzati, con il sostegno di diversi specialisti perché gli allievi che arrivano in Italia senza conoscere l'italiano spesso portano con sè storie umane drammatiche, complicate. L'emigrazione non è una passeggiata in carrozza. Tra gli specialisti da prevedere vi sono in primo luogo gli interpreti per i primi contatti con i bambini e i genitori, poi gli psicologi, gli assistenti sociali, ecc. Queste classi o gruppi sono molto costosi, ma se sono ben fatti sono efficaci e permettono di evitare sia le discriminazioni degli allievi stranieri, sia il rallentamento dell'apprendimento di qualsiasi categoria di allievi.
  6. Sesto principio: la lingua parlata a casa non è un problema per la scolarizzazione in Italia o per l'integrazione. Al contrario è una ricchezza che accresce il patrimonio linguistico del paese in un'economia mondializzata e globalizzata.
  7. Settimo principio: se l'opzione è la classe d'inserimento, l'uscita dal gruppo transitorio separato richiede un accompagnamento apposito. L'inserimento in una classe italiana normale non è infatti solo un problema di lingua. E' piuttosto un problema culturale sia per gli insegnanti italiani che accolgono, sia per i futuri compagni delle classi d'accoglienza, sia per i neo-arrivati, sia per i loro genitori sia per gli insegnanti delle classi di transizione. In queste situazioni si innestano sempre meccanismi socio-affettivi complessi che sono molto più potenti dei meccanismi linguistici.
  8. Ottavo principio: qualsiasi test su misura per stranieri deve essere proibito

Il problema delle quote di alunni stranieri per classe e per scuola

Come sempre, sei illuminante, e nella tua definizione dei principi ci sono già molte risposte alla mozione Cota.

Un'ultima questione.
La mozione afferma anche che occorre prevedere "una distribuzione degli studenti stranieri proporzionata al numero complessivo degli alunni per classe". Cosa pensi a questo proposito?

La distribuzione di allievi di origine straniera nelle classi è difficilissima da regolamentare.

A volte ci sono classi o scuole intere con pochissimi allievi autoctoni, a volte ci sono invece scuole e classi con pochissimi allievi di origine straniera o che non sono di madre lingua del paese ospitante. Molto dipende dal problema della casa e dalle politiche immobiliari e anche dal problema di scelta politica fra i bacini di utenza o la libertà di scelta della scuola. L'Italia ha scelto, credo, la seconda soluzione, senza però averne studiato gli effetti su vasta scala. Ci sono ricerche scientifiche che tentano di scoprire se esiste una proporzione ideale tra allievi indigeni e non indigeni nelle classi. Queste ricerche non hanno fornito dati convincenti.

Occorre sempre tenere presente che la popolazione non indigena non è mai omogenea, è un melting-pot di gruppi sociali, lingue e religioni e non è sempre detto che più il melting pot è diversificato più è difficile fare funzionare una scuola o una classe. Può benissimo capitare il contrario.

Non è la proporzione numerica che pone il problema ma la fiducia tra allievi e insegnanti, il rispetto tra insegnanti e famiglie e allievi, la motivazione ad apprendere, il senso di quanto si apprende, la chiarezza sugli obiettivi collettivi, le regoli comuni, ossia tutta una serie di parametri che contano anche per le scuole e classi composte in maggioranza o esclusivamente da allievi indigeni.

Ricordo a questo proposito la questione delle ethnic quotas proposta circa due anni fa in Gran Bretagna dal conservatore Lord Bruce-Lockhart, il quale sosteneva che il Paese non avrebbe mai raggiunto una vera integrazione e coesione sociale finchè si fossero trovate sul territorio inglese scuole frequentate al 90% da "bianchi" e scuole frequentate al 90% da "non bianchi". Le reazioni furono in maggioranza negative, a partire proprio dalla popolazione straniera.

Ad esempio il portavoce per l'educazione della comunità islamica, Tahir Alam, fece osservare che le quote etniche si erano dimostrate inapplicabili anche negli Stati Uniti, dove il problema della segregazione scolastica è molto più esteso,e aggiunse: "Non si può dire a un genitore che non può mandare il proprio figlio nella scuola prescelta perché è già stata raggiunta la quota etnica. Il diritto dei genitori di mandare i figli nella scuola di propria scelta è un diritto di tutti in Gran Bretagna ".

E quando erano gli italiani ad emigrare?

Un' ultima questione.

Tu che, pur vivendo in Francia, provieni da un Paese, la Svizzera, ad altissimo tasso d'immigrazione, di cui una forte percentuale è stata in passato costituita da italiani, qual era l'atteggiamento dell'Italia rispetto ai propri cittadini costretti a lasciare il loro Paese?


In Europa l'Italia era capofila del movimento in favore dei corsi di lingua e cultura d'origine.

Il governo italiano faceva la voce grossa per esigere l'apertura di classi di italiano nella scuole statali straniere per figli di italiani, condotte da docenti italiani, con stipendi doppi rispetto a quelli dei colleghi in Italia, con la missione di insegnare la cultura e la lingua italiana. Questi docenti, pagati profumatamente dal Ministero degli Affari Esteri, sopravvivono ancora.

Ci si può chiedere se non sia il caso di offrire la stessa soluzione alla Romania, alla Tunisia, all'Egitto, alla Cina, alla Turchia e via dicendo, ma a scanso di equivoci l'esperienza dei corsi di lingua e cultura italiana non ha dato esiti brillanti. I paesi ospitanti l'hanno accettata e subita perché si è fatto credere loro che molti emigrati sarebbero ritornati al paese d'origine, cosa che è successa solo in parte. Molti sono rimasti, si sono integrati, hanno acquisito una seconda nazionalità. I figli ormai adulti parlano italiano o una specie di italiano con i loro genitori ma non lo parlano con i loro figli, la seconda generazione, che però lo studia. La diffusione della lingua italiana nel mondo non è da attribuire che in parte ai costosi corsi di lingua e cultura italiana promossi dai governi italiani.

Vorrei aggiungere, per concludere, che in Svizzera l'integrazione scolastica degli alunni italiani ha visto sia ottime esperienze che pessime esperienze.
Ottime, quando i dirigenti scolastici si davano da fare per fare apprendere la lingua del Cantone ospitante in pochi mesi; pessime quando si pretendeva di alzare continuamente gli standard di apprendimento della lingua, continuando a dire ad allievi e famiglie che non ne sapevano mai abbastanza, il che magari era vero, ma serviva soprattutto per tenere in caldo i posti degli insegnanti.
Pessime quando si inventava la teoria del consolidamento della lingua materna prima che i ragazzini avessero imparato la lingua del Paese ospitante, ma qual'era la lingua materna di un bambino siculo a Basilea? Non l'italiano. A cosa serviva l'italiano? A creare posti per i docenti del consolato, truffando allievi e famiglie, ingabbiandoli in un mondo non loro.

Non ti manca certo la chiarezza espositiva!

Grazie davvero per tutte le indicazioni fornite e auguriamoci che chi ha la responsabilità di decidere sappia utilizzarle.


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