Un antico compromesso

La prevalenza del dire sul fare

Il curricolo che sarà “confezionato” per il biennio (con naturale prosecuzione nel triennio) sarà un curricolo bulimico e basato sullo stereotipo che i programmi di insegnamento coincidano con quello che gli allievi apprendono (lo stesso grave errore contenuto nelle “Indicazioni” della decreti attuativi del I e II ciclo della legge 53/03). Si capisce con chiarezza che il “programma” recupererà in toto i curricoli delle maxisperimentazioni proposte dal Ministero a partire dagli anni '80 (in particolare il cosiddetto “progetto 2002), i quali hanno moltiplicato le discipline teoriche, ridotto al lumicino l'apprendimento operativo in laboratorio, “intellettualizzato” tutti gli apprendimenti attraverso l'uso esclusivo dei libri di testo, anche per l'insegnamento della educazione fisica. La flessibilità del 20% (circa 150 ore annuali) sarà utilizzata per tutte le “curvature” possibili: opzioni, approfondimento, recupero, alternanza scuola lavoro, ecc., in una giustapposizione artificiosa senza né integrazione né significato educativo (il senso che gli allievi danno al loro studio) a causa della eccessiva frammentazione delle materie e del fragile nesso tra di loro, data la natura generalistica (liceale) dei percorsi.

Il lavoro come sfruttamento (lavorare non è educativo)

Viene prefigurata una scuola lontana dalla cultura del lavoro, considerata non solo una minaccia per l'autonomia del sistema, ma anche come un sistema di sfruttamento delle persone e in particolare dei giovani.
L'alternanza viene concessa solo se di tipo applicativo (qui la teoria, lì la praticaccia) e associata meccanicisticamente al resto del curricolo che rimane intatto, al sicuro da qualsiasi contaminazione, integrazione o riduzione. La preparazione al lavoro diventa un obiettivo astratto e procrastinato senza fine. Tutti devono idealmente sfociare (e in gran parte annegare) nell'oceano universitario; il mestiere di studente diventa una condizione “culturale” in senso antropologico, più che rappresentare un momento di transizione (il più breve possibile) verso la vita adulta, quella della responsabilità e dell'autonomia vere. La scuola così non solo si separa dal mondo e dalle sedi dove oggi si elabora il sapere reale (e dove anche si imparano saperi “situati”), ma diventa un luogo di infantilizzazione permanente, dove si imparano cose che non servono (la “gratuità” della cultura) o che si giustificano in sé e per sé, infatti si definiscono come “scolastiche” (l'inglese scolastico, ecc.).

Il fine non detto di questa impostazione

Questa impostazione programmatica ha un unico scopo implicito anche se abbastanza “volgare” a confronto delle dichiarazioni e delle intenzioni pedagogiche sparse qua e là nella finanziaria: aumentare il personale, almeno un po' di più di quanto ha fatto il Governo precedente.
E gli organici certamente aumenteranno per le seguenti motivazioni:

•  l'obbligo all'istruzione (lo ha dichiaro il vice ministro) sottrarrà 120.000 studenti all'apprendistato e alla formazione professionale, creando almeno 14.000 nuove cattedre in due anni scolastici. Non importa se – come nel 1999 – una gran parte di questi studenti non si presenteranno a scuola (del resto, ne erano fuggiti), dato che nella scuola statale, a diversità della formazione professionale, le classi si formano contando le iscrizioni, non le frequenze;

•  la “liberazione” degli attuali vincoli giuridici per la nomina degli insegnanti di sostegno (1/138), aumenterà tali organici;

•  la trasformazione dei centri territoriali (686 sedi in tutta Italia) in scuole a pieno titolo, creeranno nuovi organici da contrattare con il sindacato. Qui c'è un vena inesauribile di posti, per la cui esplorazione bisognerà solo usare la fantasia burocratica;

•  e infine, le illusionistiche disposizioni di recupero dei posti, aumenteranno le cattedre per la loro mancata o parziale attuazione delle disposizioni.

Un'impostazione che gode di ampio consenso

Bisogna ammettere che questa impostazione programmatica gode di ampio consenso, intrisa di valori che sono stati “socializzati” negli anni Settanta e persistono inossidabili: prolungamento dell'obbligo scolastico come massima espressione di democrazia, uniformità scambiata per uguaglianza, centralismo come garanzia di unità nazionale, sostegno alle scuole private come attacco al servizio pubblico, efficienza nella gestione del personale come “taglio” alla qualità del servizio, lavoro (non quello pubblico) come sfruttamento, e via equivocando.

Tutto ciò si è tradotto in innumerevoli “ismi”, che punteggiano gli slogan di sindacati, partiti e movimenti, come baluardo dell'esistente: efficientismo invece che efficienza, aziendalismo invece che efficacia, familismo invece che partecipazione della famiglia, economicismo invece che uso corretto delle risorse, managerialismo invece che competenza gestionale, individualismo invece che riconoscimento della libertà individuale.

In tal modo, con queste parole d'ordine si difende il passato della scuola come una conquista e si guarda al futuro, all'innovazione e al cambiamento come una minaccia … da qualsiasi parte provenga.



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