Marguerite Gentzbittel


Marguerite Gentzbittel è nata a Belfort nel 1935. Professoressa d'inglese, dopo 11 anni di insegnamento inizia un a lunga carriera come preside, 4 anni a Nevers e 17 al prestigioso liceo Fénelon di Parigi. E' andata in pensione nel 1995.

 

 

 

Autrice di varie opere tra cui Dalla parte degli studenti edito nel 1997 dalla casa ed. Erickson con l'introduzione di Rosario Drago

«Parla, e ti faccio alunno» (1991)

Qui devo fare una pausa perché diversi lettori si chiederanno: «Ma da dove tira fuori tutto questo costei? Queste interpretazioni sono più o meno perentorie. Dove vuole arrivare, con le sue riflessioni sui braccialetti, i pattini a rotelle degli alunni e gli shampoo dei professori? Chi glielo dà questo diritto di sentenziare?».

I professori, che trascorrono molto tempo a contatto con i giovani, hanno la sensazione di intrattenere con loro un rapporto privilegiato (per «privilegiato» intendono «esclusivo»). Mentre il capo d'istituto si limita a intravedere le sue pecorelle fra un'entrata e un'uscita. Un preside non è né un professore, né uno psicologo, né uno psicoanalista, né uno psichiatra, né un assistente di orientamento.

Il rapporto tra il professore e l'alunno si iscrive in un destino collettivo in cui portare a termine il programma è la prima e prosaica rappresentazione. Il preside, invece, non lavora con gli studenti, ma incontra nel suo ufficio il mondo silenzioso dell'adolescenza. La sua autorità risiede unicamente nella sua parola, nel verdetto che si accinge a pronunciare (l'autorità del professore risiede nella competenza, nella tempestività e nella precisione con cui corregge i compiti, su un'opera comune). L'autorità del preside è quasi sacrale: l'autorità della parola che crea, che investe, che ha il potere. Non si può dunque paragonare il rapporto preside-alunno a quello tra professore (o professori) e alunno (o alunni), e neanche a quello tra genitore e figlio. Il mettere in comune quello che si sa sull'alunno mi sembra avvenga assai più raramente e con minore armonia tra i professori che in seno all'équipe amministrativa. Non è legittimo dunque chiedermi da dove nascono i miei pareri, né di quali strumenti mi servo per formularli.

In primo luogo, è un fatto di temperamento, di origini, di atavismo di famiglia. Una frase dell'altro mio libro ha colpito molto, se non addirittura scioccato diversi lettori (l'ho potuto costatare in pubblici dibattiti): «Ogni alunno», dicevo, «ha per me il volto di Cristo». Era un'allusione alla leggenda della Veronica che asciuga il volto di Gesù e scopre che i suoi tratti le si sono impressi nel panno. Questa leggenda riassume molto bene quello che provo io: i volti umani mi colpiscono, mi toccano con uguale vigore. E credo che questo derivi da un mio profondo radicamento nel mondo contadino francese.

Sembra che nei miei discorsi circoli l'aria della Francia rurale. E un paradosso per una come me che ama la città più della campagna e non si commuove gran che dinanzi alle fienagioni (ho avuto un'inclinazione lirica verso i lavori dei campi solo alle elementari, quando dovevo scegliere tra la poesia e il cucito: celebravo l'oceano delle spighe per evitare il cucito e pensavo alla campagna innanzitutto come regno delle dorifore). E vero comunque che l'impronta contadina ce l'ho nel sangue e che essa modella la mia psicologia. Mia madre, che pure è sorda e ci vede sempre meno, descrive e imita le persone che incontra in maniera straordinaria, senza nominarle. Del resto non c'è bisogno di far nomi: in due gesti e una mezza frase, si sa già di chi si tratta.

Il paese è un posto in cui si osserva continuamente il prossimo e in cui, in definitiva, si ha potere in proporzione alla capacità di sventare le trame dei vicini. Nei villaggi della Francia orientale - la mia regione natale - si è sempre vissuti sotto la minaccia di un invasore: anche il vicino è un invasore potenziale, e la diffidenza e la curiosità sono le due radici del potere.

Mio nonno era contadino e barista, vale a dire che aveva un duplice campo di osservazione. Ha allevato da solo quattordici figli: sua moglie morì nel mettere al mondo l'ultimo. La sua perspicacia ebbe una verifica nella scelta minuziosa che fece dei suoi generi. Consigliere municipale, chansonnier, ha lasciato il ricordo di una persona di fiducia e scaltra, che osservava da vicino la gente e non si stupiva minimamente se non ci si dava il bacio di pace alla messa cantata.

Anche mio padre possedeva questo dono dell'osservazione, ma ricorreva più volentieri all'ironia. Ai nostri vicini di fabbricato, a Belfort, affibbiava il più delle volte dei soprannomi. C'era la Fama, sempre sulle scale quando qualcuno ci veniva a visitare; c'era il Ravanello (sua moglie, come una vera Bocca della Verità, diceva sempre: «Voi vi lamentate di perdere i capelli, ma guardate un pò il mio René: è un ravanello!»); c'era Stoccafisso, una creatura talmente tutt'ossi da non credere che potesse superare la quaresima: e così via. Il filone che io sfrutto è restato più o meno quello.

Mia madre ha sempre avuto dei presentimenti e non ha mai esitato a seguirli. Nel mondo degli intellettuali, di cervelli razionali in cui la vita mi ha buttato, io mi distinguo probabilmente perché mi concedo una libertà simile, di balzare sui segni. Senza complessi. Questo non dev'essere filtrato dal raziocinio. Così, accogliendo un alunno per una domanda d'iscrizione, mi succede di essere presa da una certezza irrazionale, di dirmi. che lui si sta inventando tutto, che la cosa non può andare, che non ce la farà a diventare un hypokhâgneux con buoni risultati - bisogna offrirgliene la possibilità, dato che si inventa questa storia, bisogna fargli verificare se è o no un romanzo, ma io sento che la cosa non funzionerà.

Annuncio alle consigliere educative: «Il tale se ne andrà, vedrete». E percepisco che questa intuizione terrorizza le mie collaboratrici. Un professore di khâgne, proprio all'inizio della mia carriera parigina, mi disse che avevo una sicurezza (non osò dire «faccia tosta») formidabile: si stupivano, in consiglio di classe, che io mi presentassi su ogni alunno col mio punto di vista ricavato da frammenti sfuggiti agli insegnanti, ai genitori, agli stessi ragazzi. Osare essere un visionario nell'universo scolastico francese è un rischio, una forza e un atteggiamento che suscitano spavento. Il mio collega del Lows-le-Grand, Deheuvels, ha tratteggiato in un libro la sua tipologia dei possibili capi d'istituto. Egli descrive, fra gli altri, quello che lui chiama «pazzerello» e io non credo di cadere nella paranoia se dico di riconoscermi più o meno in questo tipo. Sono convinta che lui mi ritiene un tantino squilibrata - il che poi è verosimile, ma mi aiuta molto nella mia professione.

Vorrei rassicurare su un punto: non mi credo M.me Irma (nota 1).' Il mio «dono», il mio «trucco» non è una facoltà medianica: io non sono una sensitiva. E più che altro come il comportamento astuto alla fiera dei cavalli (non c'è che dire: la campagna mi resta incollata agli zoccoli): se andate a comprare un cavallo, e vi sbagliate, ci perdete tutti i soldi. Ebbene, è così che io funziono con gli studenti. Io non leggo nella palla di cristallo: leggo nel loro fisico, nei loro tratti, guardo le loro mani, ascolto la loro voce. E mi aiuto con una morfopsicologia essenzialmente empirica.

L'intuizione non è sufficiente. Conta enormemente l'esperienza. In certi casi, sono colpita da certe somiglianze, da schemi familiari che vedo riprodursi quasi identici. Le madri di ragazzi anoressici, per esempio (è un caso piuttosto raro), presentano caratteristiche costanti: molto chic, con il tailleur un pò austero, rispettosissime del capo d'istituto, neanche eccessivamente chiocce ma assai preoccupate dell'educazione dei loro rampolli, fanno discorsi edificanti in cui la virtù è accuratamente separata dal vizio. Aggiungo che i ragazzi anoressici sono quasi sempre alti e biondi. Non saprei darne una spiegazione profonda. Ma so che, un caso dopo l'altro, provo una sensazione di déjà vu, a volte così violenta che mi devo dare dei pizzicotti per convincermi che è un caso nuovo.

La sola persona con cui mi arrischio a parlarne (non vorrei certo chiamare la polizia) è l'assistente sociale. Le chiedo: «Non le viene in mente questo o quell'altro caso?». E lei: «Già! E se si mette come il precedente, siamo daccapo...». Facciamo delle estrapolazioni partendo dai casi anteriori e cerchiamo di prevedere gli episodi futuri. E si ripetono, quasi a colpo sicuro.

Non è soltanto fiuto, «naso». Questo prolungamento per mezzo di estrapolazioni, quest'esperienza accumulata dei volti e delle situazioni si apparentano a quello che nella cultura che è mia si chiama la profezia. È questa la chiave della modalità con cui esercito la mia funzione, e questa è la ragione per la quale penso con una certa angoscia a un futuro in cui dovrò fare altra cosa che incontrare alunni: io ho bisogno di questa presa diretta su volti tanto più affascinanti in quanto sono in atto di modificarsi. Fra un volto di seconda e un volto di math-spé si è verificata una formidabile evoluzione, quasi misurabile questa misurazione è il cuore della mia attività, ciò in cui probabilmente riesco meglio. In totale, saranno passati dinanzi a me qualcosa come 24.000 giovani, sempre la stessa classe di età indefinitamente rinnovata - inutile intraprendere questo mestiere se non si accetta il principio: «Non invecchieremo insieme»...

Mi capita, in pieno consiglio di classe, di provocare un certo disagio perché faccio una riflessione sul look del ragazzo o della ragazza che ci sta davanti - andandoci leggera, per non creare imbarazzo. Sembra quasi che abbia detto un'oscenità. Con i professori, stavamo facendo un bilancio, una valutazione, con serietà e tanto di voti e punteggi, ed ecco che, dinanzi all'alunno, io proferisco una frase triviale, mi riferisco al suo lavoro ma anche al suo corpo, cerco di renderlo presente in carne e ossa, gli tendo una mano perché commenti i risultati ma anche perché dica come se la cava, in che modo sta crescendo, come si incasina e si rimette in ordine. Se ciò non succede, se non lo si capisce, tutto il resto del mio lavoro perde senso, si sciupa. Mi pare che gli studenti lo capiscano (per strada mi rimproverano di non avere presieduto io stessa questo o quel consiglio), sembrano interessati a sapere che noi siamo pagati, il vicepreside, i consiglieri di orientamento ed io, per starli a sentire.

Quando uso il termine «profezia», immagino che un ginecologo o una levatrice devono provare qualcosa di simile. L'energumeno che viene al mondo è comunque unico nel suo genere. Gli alunni spesso si sorprendono che io usi, riferendomi a loro, la parola «creature». All'inizio, si offendono. E poi si rendono conto - almeno spero - che, nella mia mente, non ho un'espressione più nobile. Il ginecologo che vede arrivare il neonato ne ha seguito l'evoluzione e gli trova una faccia più o meno simpatica. L'alunno, per me, è un pò questo. - Ciò che mi motiva è l'uomo o la donna che diventerà.

Il gesto è profetico nella misura in cui, ricevendolo, gli dico: «Parla, e ti faccio alunno» («Parla, e ti battezzo!», diceva Richelieu alla scimmia dell'Orto botanico), gli anni che passerai qui ti trasformeranno in adulto». Che adulto?

Io comincio a vederlo, ma credo anche di poter ridurre questo quasi-determinismo sorto al primo impatto. La profezia, s'è capito, non riguarda unicamente la «carriera» scolastica o professionale della persona che mi è stata affidata. Ho più o meno l'impressione, io che sono cristiana e fortissimamente legata alla laicità, che questo passaggio dall'infanzia all'età adulta sia - per mutuare il linguaggio della mia fede - una possibilità di passaggio dalla perdizione alla salvezza.

Ho cominciato presto a interessarmi di grafologia. Ero all'ultimo anno ti della media e avevo un'amica il cui padre era esperto in questa materia. Questo sembrava, del resto, strampalato alla mia compagna: essa vi vedeva soprattutto uno strumento per giudicare, una possibilità per emettere un verdetto, il rischio che il padre (un pastore protestante) si accorgesse che lei non era intelligente - cosa di cui era ferocemente convinta benché fosse completamente falsa. L'idea che un giudizio così terribile venisse pronunciato dal padre solo vedendo la grafia mi faceva arrabbiare. Io ritenevo, comunque lo tradissero i segni, che la mia amica dovesse essere libera di dar prova della sua intelligenza. E allora mi sono detta che la migliore soluzione era di mettermici pure io, di imparare la grafologia per combattere ad armi pari. Fu così che iniziai.

Ho letto una quantità enorme di libri, ho passato in rivista trattati e trattati di caratterologia che sono il meglio e il peggio che esista, ho mantenuto fede al mio fiuto e, quando ero in khâgne, ho abbondantemente venduto i miei talenti: tutti i compagni mi chiedevano di analizzare la grafia delle loro ragazze, e viceversa. In cambio delle mie diagnosi accettavo carte geografiche, scarpe lucidate, bottoni ricuciti, messe in piega. In seguito, ho abbandonato questa versione utilitaristica e romanzata dell'esercizio per una conoscenza un pò più scientifica.

Ma è solo una stampella, uno strumento, il mezzo per confermare altre impressioni. La difficoltà principale, dinanzi a un alunno, è che non è stabile, che la sua ossatura - fisica, psicologica, intellettiva, sociale - non si è completata. I punti interrogativi sono così monumentali che tutte le forme di approccio mi sembrano interessanti: nessuna è in grado di essere definitiva, di chiudere il discorso. Fu quando ero alunna che sentivo un grande bisogno di libertà. Ho menato tanti di quei calci che mi ritengo in grado di fare un pò compagnia ai giovani, di circondarli di una certa attenzione, con la mia idea sulle loro inclinazioni, ma con la convinzione, anche, che questa inclinazione può essere corretta, raddrizzata.

Quanto agli adulti, spessissimo sono spaventata da quanta trasparenza c'è nella scrittura: il tale docente la cui dirittura morale e il cui rigore sono unanimemente celebrati mi appare fra le righe dotato di una robusta ipocrisia; dico a me stessa che lo scarto è troppo ampio, che l'occhio mi inganna, e poi un incidente, un bel giorno, viene a confermare questa duplice natura. Sì, con gli adulti faccio meglio a non fidarmi: mi è capitato così spesso di avere la conferma inoppugnabile del mio pronostico da farmi chiedere fino a che punto non l'abbia indotta io stessa. Tuttavia, ne sono turbata, e c'è in questo un pericolo cui giro tutt'intorno in qualche modo.

Con gli studenti le cose vanno ben diversamente: la loro grafologia rivela una viva plasticità, una sfumatura, molti elementi in movimento, incompleti, provvisori. Modificano la scrittura come i tratti del volto - il margine di incertezza è sufficientemente grande per coltivare la speranza e il desiderio di agire. Molti adolescenti, inoltre, si sforzano di imitare questa o quella grafia perché hanno scelto un modello, considerano grandioso imitare Truffaut - ma passerà. In tali casi, credo di essere convenientemente protetta contro la tentazione di esprimere un parere definitivo, di pronunciare un apprezzamento troppo categorico e conchiuso.

Andiamo fino in fondo alle confessioni più estreme: riguardo ai giovani, la gente mi sospetta di credere nella mia infallibilità. Orbene, almeno in parte è vero. Io non mi credo infallibile, ma constato che mi sbaglio pochissimo o, meglio, che sono suscettibile di «premonizioni» che si rivelano fondate. Mi rendo conto di stare scrivendo un'enormità. Ma è così. Mi capita, certo, di sapere che non so; di pensare che questo ragazzo o questa ragazza non riesco a fissarli, che devo affrontarli con altri meccanismi, più classici - soprattutto se ci divide un'antipatia istantanea e reciproca. Ma se si stabilisce una corrente, anche tenue, di simpatia, che non va oltre una volontà di conoscenza, di perizia - vi chiedo scusa, ancora una volta, dell'enormità della frase - sono certa di non sbagliarmi. Sono pronta a mettere in discussione, alla prova la mia intuizione in mille modi. Volendo pure rivolgere a me stessa l'insieme delle domande, analizzare le mie ossessioni e le mie reazioni, rimane il fatto che non credo di cadere in controsensi. Può verificarsi a volte una mancanza di senso, posso andare a sbattere contro un punto interrogativo. Ma il controsenso lo respingo.

Perché la mia visione dovrebbe essere più affidabile di quella dei genitori?

Certi genitori hanno un'intuizione molto precisa dei loro figli. Ma precisi o no, non hanno nessun distacco, nessuna distanza. Con i figli stanno insieme tutti i giorni. E poi sono pezzi di se stessi, e come tali non osservabili, né nel tempo né nello spazio. I genitori vedono i loro figli esattamente come ciascuno vede se stesso, cioè senza vedersi, senza sentirsi. L'amore che hanno verso i loro figli - amore «naturale» - dà a loro una conoscenza specifica, insostituibile. Ma non possono estrapolare partendo da questa conoscenza, non possono dedurne un comportamento.

In questo campo, noi educatori siamo piazzati molto meglio. La scuola è ad ogni buon conto il primo luogo di socializzazione dell'individuo. E questo individuo che afferriamo interagisce con gli altri: produce il gruppo e ne è al tempo stesso un prodotto. La famiglia non è un gruppo umano nel senso in cui questo concetto si applica a una qualunque società. Direi che c'è la stessa differenza tra la visione di uno che nuora in piscina e quella di uno che nuota in mare. Uno che nuota in piscina lo si osserva benissimo, sì può agevolmente esaminare quello che è capace di fare, e quando si afferma che sa nuotare si dice certamente la verità. Tuttavia, se ne può forse dedurre quale sarà il suo esatto comportamento in alto mare? Il vero nuotatore è in alto mare che lo vediamo, con tutti i relativi gorghi, correnti e controcorrenti, intorbidamenti, onde, flussi e riflussi. Noi siamo perfettamente complementari ai genitori che hanno compreso la differenza tra la piscina e il mare aperto. Gli altri preferiscono vederci come minacciosi concorrenti. Io continuo a sostenere invece che ci guadagnerebbero se accettassero la visione che gli educatori esterni hanno della loro prole.

I professori appartengono indubitabilmente a questa categoria di educatori indispensabili, necessari. Con un limite, però: quello del prisma disciplinare. L'angusta, il fisico nasconde loro assai poco l'alunno. Dico bene: l'alunno. Né i professori né io stessa potremmo mai pretendere di sondare il giovane in situazioni sociali diverse da quelle della scuola. Mi posso proclamare sicura in materia di orientamento, ma le pene d'amore dei ragazzi e delle ragazze del

M. Gentzbittel (1991), Dalla parte degli studenti, Trento, Erickson, 1997

 

 

Nota 1:Una cartomante assai nota in Francia.
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