Elisabetta Fiorentini


Elisabetta Fiorentini (1933-1996). Dopo un cursus honorum che la porta da "maestrina" di provincia agli onori del liceo scientifico di Ferrara, Elisabetta Fiorentini vive con una singolare partecipazione intellettuale ed emotiva la storia della scuola italiana dagli anni Cinquanta fino, come preside, al lunghissimo e triste postsessantotto: una transizione infinita. Certamente la Fiorentini è l'insegnante che meglio di tutti, nel Dopoguerra, ha dato voce al disagio di un mestiere che giorno dopo giorno ha perduto prestigio, riconoscimento e ruolo sociali. Alla Fiorentini dobbiamo le pagine più lucide e, insieme, piene di passione pedagogica che siano state scritte sulle vicende della scuola secondaria.

La sua cronaca dei primi sussulti del '68 nel suo liceo illustra le cause profonde della rottura tra gli insegnanti, gli adulti, le istituzioni da una parte e gli studenti dall'altra, in quel momento particolare e irripetibile, in quel punto di "non ritorno" in cui il Sessantotto nella scuola italiana si trasformò da un moto di "liberazione" dal vecchio autoritarismo in una terra di nessuno e di tutti, dove fecero le loro prove generali più o meno rivoluzionarie partiti, sindacati, movimenti, ed anche le istituzioni. E fu subito messa a tacere la voce autentica della scuola e dei suoi insegnanti. Di lei ricordiamo " Il professore disintegrat" e "Vita di insegnante. Trent'anni di solitudine"

"E mi trovai sola." (1989)

Negli esami nessun momento è destinato a individuare inclinazioni manageriali, tutto l'apparato ha di mira piuttosto un pedante, mediocremente colto, meglio se in humanae htterae, che non un Agnelli, un Gardini, un De Benedetti costruiti su misura dal libero mercato.

Chi si è sentito gratificato da tale creduta promozione è ancora più dannoso all'istituzione del pedante letterato il quale per quanti danni faccia non farà mai il danno irrimediabile di confondere un ragazzo con un automobile o una partita di caffè.

Esercitata negli elzeviri e dotata di buona memoria mi piazzai molto bene nelle graduatorie, così da potere scegliere il posto nell'Italia tutta, scelsi di nuovo il mio paese nell'ostinazione di completare il progetto varato da alcuni anni come preside incaricata, per la precisione Preside Inc., secondo il parsimonioso riconoscimento del segretario. Preside degli Incas? Di un impero perduto o da fondare? Invece «governante» - sic - di una piccola provincia di un impero distratto e confusionario, il cui quadro mi si rivelò, una volta dietro le quinte, nel suo più completo marasma. Benché vivessi da tempo nel disincanto, non mi ero ancora trovata dall'altra parte, a faccia a faccia con l'imperatore completamente nudo.

L'impressione fu immediata in quell'ormai lontano settembre 1978, quando ogni porta si chiuse dietro i ragazzi e i rispettivi insegnanti per l'inizio delle lezioni, e io mi trovai, sola, in presidenza. Mi sentii come uno spettatore curioso che, messo piede dietro le quinte, resta stupito dall'ingegnosità dei trucchi: qua gli strumenti per creare il temporale, là quelli per simulare il mare, nell'atmosfera la incompatibilità fra i comprimari e i capricci delle prime donne, una macchina inutilmente complicata per creare finzioni.

Superata questa prima meraviglia ne arrivarono altre a con-fermarmi tutte insieme che non potevo fidarmi di nessuno e che in ogni situazione, comprese quelle completamente artigianali, dovevo arrangiarmi, per venirne fuori non sarebbe stato possibile

nessuna leale collaborazione né con i nuovi colleghi né con i vecchi né con i nuovi superiori né con i vecchi ora di pari grado.

Trovai questi ultimi fissati nella mania di compiacere «il principe», ovvero il signor-provveditore, tutti i signori provvedi-tori che si sono succeduti. L'etica servile è disdicevole ad ogni età, nell'età matura ha qualcosa di rivoltante, perché l'infanzia ètroppo lontana.

In un libro, non più letto, della fine del secolo scorso di Marcel Schwob, scrittore edificante per ragazzini difficili, la banda vagabonda dei seguaci di Monelle, che rifugge il mondo per non diventare adulta, si giustifica: Mentiamo a tutti per dare gioia! Lo spettacolo è grottesco se a fare «banda» sono dei funzionari volenterosi di dare gioia al capo del quale si temono tristezza e malumori, come un castigo meritato.

L'antico disprezzato consiglio della collega di greco del Liceo Ariosto, di trattare il preside come un marito, è ritornato puntualmente, per essere puntualmente rifiutato, con tanta più convinzione, ora, che potevo con Nicola dimostrare che i mariti, che non meritano finzioni, ci sono e ci sarebbero anche molti più capi-istituto e provveditori con le stesse caratteristiche, solo che noi avessimo un pò più di dignità nel pretenderle.

Dopo avere scontato in una precisa occasione che l'Ufficio contro le mie ragioni documentate e documentabili, vantava le sue di essere il più forte, capii che dovevo di nuovo fare ricorso all'antico marranismo, alla doppiezza dettata dallo stato di necessità e giustificata dall'esigenza di non perdere la fede. Guai a mostrarsi pensosi, c'è da essere scambiati per incapaci. Guai a trovarsi nelle condizioni di chiedere, si passa per pitocchi. Guai a dichiararsi stanchi, la condanna è di inabilità; uniche malattie consentite sono quelle infettive, per il resto bisogna essere sempre sicuri, informati, «performati>, pronti ad ogni emergenza con la soluzione giusta.

C e (1a inuiiidlre al pensiero delle molte risorse mentali e fi siche che vengono sprecate nell'apprendistato di sapere come prendere un superiore, direttore, preside, provveditore o ispettore che sia.

A Montanelli, e agli altri direttori delle riviste cui collaboro riconosco un secondo grande talento, di sfruttare o meglio di valorizzare il collaboratore. Non così da noi, dove provveditori e capi-istituti riescono a ricavare il peggio, per gelosia, per miopia, per incapacità vera e propria, ma già questo accadeva ai tempi di Dante.

Dopo le precauzioni adottate per difendermi dai pari grado e dai sopra-grado, altre si resero necessarie nei riguardi degli ex colleghi. Avrei voluto averli come collaboratori persuasi. Benché i tempi fossero poco propizi a tale intesa. essendo, i presidi allora, anche se non per molto, considerati «servi del sistema», contro-parte ed altre amenità, la consuetudine con molti di loro li doveva fare avvertiti delle novità del rapporto. In nessuno, ma proprio in nessuno, si doveva radicare la mala pianta del saper come prendermi. Non fu così, perché non avevo fatto i conti con tre circostanze tutte a me avverse. In alcuni questa inclinazione era una seconda natura difficilissima da cancellare senza compromettere l'equilibrio del poveretto, anzi della poveretta; la seconda era rappresentata dal fatto che i docenti erano e sono quasi -tutte donne che, come si sa, si sentono più sicure quando il capo» è un uomo; la terza era costituita dall'obbligata - almeno così all'inizio mi pareva - mediazione nel mio rapporto con l'istituto, dei non-docenti, segretario, applicati e bidelli, abituati a vivere di riflesso la potenza del «capo» e quindi insospettiti, sconcertati, e anche incattiviti, dal comportamento di chi era deciso a non apparire o meglio a non essere potente, ma solo competente.

Anche nelle competenze le cose non erano pacifiche, andando da sé per ogni segretario di scuola che quelle contabili conferiscono una speciale sorta di nobiltà per la quale si sente un «capo» mancato e quindi superiore a tutti. Chi tiene, o crede di tenere, i cordoni della borsa, specie in tempi come i nostri, è di fatto un piccolo dio, soprattutto per l'insipienza dei devoti che, davanti ad ogni brillio di oro, pure di quello che non luce, si confondono e si sottomettono.

Non mi confusi e non mi sottomisi, perché le minacce per l'equilibrio della vita scolastica venivano da un'altra parte, dalla morbosa diffidenza dei professori che erano, e sono, quasi tutte professoresse. I docenti hanno poche occasioni di fidarsi dell'amministrazione in generale e dei presidi in particolare, ma all'inizio mi sembrò indecente che non si fidassero di me e tanto più le donne, lavoratrici per ogni verso atipiche. Quasi sempre il loro baricentro è in casa, o comunque nella sfera domestica, il che le presenta in uno stato di continuo squilibrio con inclinazione fin troppo pronunciata verso la famiglia propria, di origine, dei figli, dei vicini. Qualunque cosa accada, sono sempre le donne a dovere accorrere, come madri (più che naturalmente!) ma anche come sorelle, come mogli, come amiche, come nipoti. Un tempo si rideva di Pierino dai troppi nonni e nonne, oggi si dovrebbe fare altrettanto per la tribù di parenti che ruota nell'orbita dell'assistenza di una donna insegnante. Dovrei, è vero, prendermela, con la società maschilista e non con le colleghe che sono piuttosto vittime che colpevoli. Più di una volta davanti ai guasti, irreparabili, di certe maternità che sconvolgono il lavoro per almeno due anni, ad altri provocati dalla presenza intermittente per seguire malattie dei figli, mi sono sentita al limite della ribellione, tanto più provocata quanto più sembrava pacifico che gli studenti dovessero rendere, come se tutto procedesse per il meglio. Due maternità consecutive rovinarono il rendimento di due anni di una classe, ma a completare il danno, con la perdita del terzo, provvide la insegnante che ereditò la situazione e che non volle assumerla nella sua eccezionalità. Paradossalmente, dove passa una maternità, non nasce niente, resta il vuoto. Non ne hanno colpa le insegnanti madri - è vero - ma è ben difficile acconsentire che qualche colpa possano avere gli studenti-figli. Sollevai il problema al sindacato, per sentirmi ricordare che la maternità è un bene sociale, cosa delta quale non ho dubbi, anche se non vedo perché il suo costo debba essere pagato quasi interamente dagli studenti. In questi anni l'assenza più lunga di un uomo è stata di un mese per la rottura di quattro costole. Nessuno è mai andato in aspettativa. Per le donne ci sono stati anni interi di vuoto ben giocati su tutte le possibilità di congedo e non solo per maternità che ha rappresentato una frazione. Ci fu una professoressa che a ogni «no» che opponevo alle sue strane richieste, rispondeva con tre giorni di congedo, fino a che, capito il meccanismo, cercavo di accondiscendere tutte le volte che le sue pretese non costavano, in soldi e in danno culturale, quanto tre giorni di assenza. Ricordo questi fatti con tristezza. Sono arrivata a tali insofferenze perché ho constatato oggettivamente i danni arrecati a soggetti più deboli delle stesse donne in una brutta guerra fra poveri, nella quale i ragazzi erano immancabilmente perdenti. Mai nessun docente che fosse deciso ad ammettere tali danni, sempre tutti pronti ad addossarli ai ragazzi che si sa «in casi come questi giocano». E una volta che il discorso cade sulla Giocosità» degli studenti è chiaro per tutti che sono giocatori infidi e perversi.

A rendere più rischioso il rapporto con le colleghe era il fattore nuovo della mutazione sociale della categoria. Avviate alla pensione, maturata o anticipata per insofferenza del clima degli anni settanta, le signorine professoresse conosciute ai miei esordi, ligie al decoro e all'etica professionale, tipici del loro ceto di appartenenza grigio ma solido, al loro posto erano subentrate, tutte in forza dileggi speciali, quindi con la coscienza vittoriosa e non provata delle difficoltà di un concorso, le prime laureate - di origine proletaria in fase di prima affrettata acculturazione, con quel tanto di selvatico e di duro, nelle più responsabili e preparate, di scomposto e di impertinente nelle altre, proprio di ogni alba sociale, che nei contatti interpersonali si traduce in attriti e in vera e propria conflittualità.

Alcune cercarono di mediare le loro patenti difficoltà di inserimento con le forze del sindacato stravolto nelle sue funzioni, - scrivendo le più brutte pagine di agitazioni scolastiche della fine degli anni settanta, ad Argenta come altrove. Quasi quotidiane erano le risse in cui il dibattito prendeva sempre la piega della baruffa comaresca fra gli opposti estremismi di destra e di sinistra, con le patetiche invocazioni, le une alla classe operaia, le altre alla famiglia e, tutte insieme, agli studenti, incanagliti perché continuamente cooptati con maldestri S.O.S.

La parte più ambigua era però riservata alle professoresse «bene», sempre più poche, ma forse proprio per questo, sempre più risolute a compensare la debolezza del numero con la forza di conversione alla estrema sinistra. Esse coniugando bene, con la nuova, la vecchia loro arroganza, e capaci di uno stile, avevano facilmente la meglio in ogni dibattito.

La conversione dei cattolici e dei borghesi, negli anni settanta, alla sinistra fu una pagina veramente sinistra. Senza quelle conversioni la sinistra sarebbe stata più vera e più agile nell'affrontare i reali problemi del Paese, primo fra gli altri, quello di una scuola di massa, perché diventasse realmente una scuola di tutti.

La scomposta ibridazione della sinistra in quegli anni oltre ad averci regalato leggi inapplicabili, quali i decreti della partecipazione scolastica, le leggi dell'equo canone, della occupazione giovanile, della finanziaria e comportamenti politici deprecabili, ha allontanato nel tempo la riforma e ha reso a un esercito di ragazzi piccoli e grandi la scuola un rompicapo ancora più inutile e crudele.

Il punto forte dell'ammucchiata a sinistra era la classe operaia della quale le nuove vestali, con le loro attenzioni scomposte, banalizzarono la morte annunciata, facendone balenare fra aule e banchi la grottesca immagine, a metà fra il fantasma e il risorto.

Molto diversi mi si presentarono «i prof.», pochissimi di numero, riflettevano meno lo status e più l'ideologia di appartenenza, in genere la sinistra, alla quale erano arrivati per convinzione e non per conversione. Quasi sempre ben preparati e più possibilisti nelle quotidiane contese.

Fra le mie battaglie, meno capite, ci fu quella di avere uno di questi esemplari in via di estinzione come vice-preside, ossia vicario. Volevo che la minoranza fosse rappresentata e che i ragazzi non perdessero di vista l'esistenza dell'uomo nel sistema educativo. Sono riuscita nel proposito, ma pagando in equivoci e in patteggiamenti un prezzo sproporzionato. Ne sono però uscita guarita dall'antica propensione per l'elettività dei capi-istituto. Siano i concorsi, e concorsi nuovi e seri, a selezionarli non gli umori scomposti di interminabili collegi, che quasi mai si rendono conto che preside e vice preside non sono «cosa» loro, ma dell'istituto e soprattutto degli allievi, che rischiano in questa, come in altre più importanti occasioni, di essere dimenticati.

Professori e professoresse condividono, senza apprezzabili differenze di genere, la difficoltà a prendere decisioni, la permalosità, l'odio-amore del nuovo. Non sono mali di oggi a giudicare dalla individuazione che ne hanno fatto Schopenhauer, Kierkegaard e in tempi più recenti, Croce e Merleau-Ponty. ropno quest u timo filosofo tenta un'interpretazione suggestiva. La dimestichezza con i grandi del pensiero e dell'azione farebbe dei prof. e delle prof., anche contro la loro volontà, dei presuntuosi insindacabili e labili. Chiamati a giudicare tutto, da Dante al Pierino che siede nel banco di fronte, sono portati a inevitabili confusioni e anche all'acuta insofferenza di essere giudicati. Ogni volta che devono prendere una decisione sono tormentatissimi. Chiedono tempo, si ricredono, si contraddicono, e non per senso di responsabilità perché, una volta deciso, si dimenticano quanto hanno deliberato e non sono quasi mai disposti ad attuarlo. In quanto alla permalosità vedono nemici in tutti, nel preside, nei I genitori, negli studenti la cui fede, nelle loro prerogative di infallibilità e di eccellenza, dovrebbe essere assoluta. Ad ogni disapprovazione o sospetto di censura i docenti fanno blocco anche con il più indolente e incapace dei colleghi, ignari che proprio su di loro, come Collegio, e come Comitato di valutazione, incombe il dovere di vigilare sull'operato dei «pari». Vige, anche fra i migliori, un'abbastanza odiosa legge dell'omertà. Benché proclamino che, se fossero loro a capo dell'istituto, tutto andrebbe meglio, si guardano dal dare in genere la collaborazione per sortire quel risultato. Nelle contese fra docenti e allievi, come fra moglie e marito, non bisognerebbe mai mettere il dito. Va da sé che i ragazzi hanno sempre torto. Forse è ancora il corto circuito Dante-Pierino a spiegare la tortuosità del loro programmare o progettare divisi fra il grandioso e il banale, difficilmente riescono a planare nella quotidianità delle loro prerogative: di insegnare in modo da farsi capire, di valutare con un minimo di credibilità.

Vorrebbero fare cose molto più belle! Difficilmente si capisce quali e, se lo si capisce, il progetto manca puntualmente dei necessari requisiti di organizzabilità, di convenienza, di praticità.

L'intellettualistico rifiuto degli aspetti pratici del proprio fervore creativo, combinato con il timore di rimetterci, caratterizzarono, sul finire degli anni settanta, un infinità di iniziative fra sperimentali e reazionarie, ovvie e avventurose, sotto la cui mole gli allievi rischiarono di soffocare. Non e vero che alla scuola manchino idee e propositi innovativi. In questi ultimi lustri essa è stata vicina a soccombere per eccesso di inclusione. Tutto vi è potuto entrare attraverso i suoi insegnanti e anche attraverso alcuni suoi «capi», supposti e credutisi capaci di tutto. Qui, dove era necessaria, la selezione è mancata. In più di un'occasione mi sono sentita impotente ad affrontare questa marea di nuovo, ad individuare e a difendere il lavoro formativo, selezionato, essenziale, dall'attivismo informale e informativo senza metodo né bussola. Da perderci la testa! Senz'altro la salute.

In tanta confusione di idee e di propositi i miei tentativi di fare circolare un pò di cordialità e di abitudine a considerarci fra di noi come persone e non cose, o funzioni, o situazioni ideologiche, con alleanze e saluti dati e tolti, nello spazio di una settimana, furono poco meno che fallimentari.

E. Fiorentini, Vita di insegnante. Vent'anni di solitudine, Roma, Armando Editore, 1989, pagg. 233-240.

 


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