José Lezama Lima
José Lezama Lima (L'Avana 1910 - 1976), poeta, scrittore e saggista cubano, è considerato una delle figure più influenti della letteratura di quel paese.
Laureatosi in giurisprudenza nel 1938, dal 1944 fino il 1957 fu il patriarca invisibile delle lettere cubane.
Dopo la rivoluzione (1959) Lezama Lima divenne direttore della sezione dedicata alla letteratura del Consiglio Nazionale della Cultura. Nel 1962 fu nominato vicepresidente della UNEAC (Unión de Escritores e Artistas de Cuba). Fondò la rivista "Verbum" e diresse "Orígenes", la più importante rivista cubana di letteratura. Nel corso della sua attività di ricerca per l'istituto di letteratura e linguistica e per l'ente culturale Casa de las Americas pubblicò svariati articoli in riviste culturali e letterarie. Obeso e asmatico dalla infanzia morì il 9 agosto 1976
Delle sue opere ricodiamo " Muerte de Narciso " (1937),il suo primo libro di poemi, a cui seguirono altre opere poetiche: " Enemigo rumor" (1941), "Aventuras sigilosas" (1945), "Dador" (1960) e "Fragmentos a su imán", pubblicata dopo la sua morte nel 1977. Nel 1966 pubblicò il romanzo " Paradiso ". Il romanzo " Oppiano Licario " apparve nel 1977 dopo la sua morte. Nel 1970 pubblicò " Poesia Completa ", per la quale ricevette in Spagna il premio Maldoror. Per Paradiso ricevette invece in Italia il premio alla migliore opera ispanoamericana tradotta all'italiano.
Distribuzione del pane (1988)
La gazzarra dei ginnasti e i timidi mormorii dei Co i dei primini, subirono un violento spostamento, il direttore Jordi Cuevarolliot, grande, ma agile, con la sua virile testona bionda stava attraversando i cortili, seguito dal rispettoso silenzio degli apprendisti. Il suo viso dalla pelle dura, con accese rossezze e la barba resa policroma da astuti unguenti, ricordava il Charles de Saulier, Sieur de Morette, di Holbein, più delicato e con meno preoccupazioni tenebrose, come se fosse stato ritoccato da Murillo. Il suo naso, più curvo di quello del Sieur de Morette, sembrava addolcito, in una tardiva ricostruzione, dall'estensione morbida, dalle assai lente vibrazioni, delle sue narici. La larghezza delle spalle, la concavità visibile del suo petto, sottolineate da quelle sue gambe che sostenevano il tronco con l'impressionante leggerezza delle colonie di formiche nel trascinare un cece. Il guanto di lontra selvatica con lo spadino feudale dei suoi titoli, era sostituito, nella già citata copia di Murillo, da una matita d'oro, con cui annotava i nomi di coloro che per aver parlato durante il pranzo avrebbero subito la punizione del mutismo dei senza ricreazione. Si dirigeva al centro del refettorio, dov'era una pedana con i bastoni di pane ammucchiati come se fossero legna, cominciava a tagliarli con la rapidità di uno sguattero che taglia la cipolla per un piatto urgente, raccogliendoli fino a formare una quantità proporzionale a ogni tavolo, e si agitavano le fette per la trepidazione del taglio incessante, come se fossero pesci, scodinzolanti e tristi, estratti dai loro vivai. Ma quella originale distribuzione del pane, mai abbandonata a una meccanica e passiva successione era una delle prove più deliziose e indimenticabili a cui il direttore Jorde Cuevarolliot sottoponeva i suoi apprendisti. Gettava le fette a quelli seduti ai tavoli del refettorio, una per una, fino a quando, se sorprendeva un alunno distratto, spezzava allora l'ordine, e gli lanciava il pane che così arrivava come un segnale per farlo ravvivare, e lo educava con quasi festosa grazia l'agguato, la magica trasparenza del soprassalto. Tutti dovevano dipendere da quel punto volante, che in qualunque momento poteva rivelare un decadimento, una indifferenza malinconica, irregolare nei suoi umori, un maligno sopore. Bisognava rendere coincidenti l'appetito con il dover essere in una dissimulata vigilanza, perché in realtà l'attenzione non poteva venire accesa solo dalla detonazione di quell'uccello farinoso, ma come da una frustata invisibile che esplodesse inudibile tra il corpo incorporante e l'aria sorpresa. Il disattento prendeva ben presto coscienza del proprio ridicolo, perché il pane non afferrato rimbalzava contro i vassoi scivolosi, che come pesanti imbarcazioni risalivano il marmo dei tavoli, spargendo i contorti filamenti della zuppa di verdure, o al rovesciare tenace nella spinta che gli comunicava la fionda del grande provenzale, la caraffa dell'acqua, diversificandosi nei suoi meandri l'improvvisato alveo, alzandosi in piedi gli apprendisti vicini, accorrendo la squadra degli inservienti con maleodoranti panni assorbenti. Ma il disattento pagava un prezzo che lo annientava, per quel momento in cui la sua coscienza midollare era stata interiore a quella delle rondini in formazione e a quella dei pesci davanti alla mollica spezzettata delle figure. Al contrario, in Enrique Aredo, l'agguato si presentava in forma inversa, trascurava le incorporative delizie, per rimanere avvinto alle fette nella loro curva parabolica, alla vigilanza degli altri volti, o di quelli che già riteneva disattenti, caricandosi di una strana e languida tensione nell'assaporare anticipatamente le catastrofi lontane. Se coincideva la catastrofe con l'ambito addensato dalle probabilità che lì aveva considerato, sentiva la sadica voluttuosità di oltrepassare una misura, come se la sua sessualità, simile a quella degli insetti dal guscio membranoso più brillante, dovesse attraversare il Cipango de1 caso e della coincidenza di tutti i possibili in una fortunata coordinata. I riflessi risvegliati da tutti quegli agguati, dall'estasi di quasi tutti quegli adolescenti avvinti alla sorpresa della massa farinosa, dall'attenzione che cavalcava simultaneamente l'enigmatica diversità dei sensi, abituandoli a mangiare senza venir meno, senza abbandonarsi a quelle spianate oscurità distese tra il cielo del alato e la terra umida e vorace della lingua.
Gli sprizzi nelle acque fluenti o interrotte producevano una musica come di frittelle che si stanno dorando. I corpi che saltavano sotto l'acqua avevano l'allegria dei pesci che si allungano in una cascata; si violentavano stirandosi perché l'acqua si infrangesse con più furore nello scontrarsi con i muscoli al colmo del loro sartiame. Gli sprizzi incrociando l'arabesco formicante del suono dell'acqua, sembravano, rotte le lamine di metallo che isolavano il cantico di ciascuna estensione corporale, che formassero, a causa della diversità tra il silenzio vigile del refettorio e la colorata allegria generata dall'acqua scendendo, una sotterranea camera segreta, in cui ogni corpo per mezzo di quasi invisibili inflessioni o di una premura momentaneamente incomprensibile, seguisse i dettati di una musica identica ma infinitamente diversa nell'offrirle i corpi le loro trasmigrazioni. L'agguato, che teneva svegli fino all'irritabilità i disciplinanti del refettorio, assumeva un certo stiramento nel sentire il ronfo dell'acqua, mentre galoppava il suo crescendo rinchiuso tra la cementazione e le lamine di metallo. Dopo la volante divisione del pane, i disciplinanti, come se i loro visceri fossero percorsi dall'eco legata delle acque di quel rinchiudimento, andavano trasformandosi in dormienti, come l'estasi che pervade i coristi in un Kirie di Palestrina, quando la luce, attenuata al mattino dalle lievi indecisioni autunnali, non riesce più a oltrepassare lo spessore delle vetrate.