Bruno Bettelheim


Bruno Bettelheim (1903 - 1990) Ebreo austriaco di nascita, Bettelheim fu internato a Dachau e Buchenwald dal 1938 al 1939. Nel 1939 andò in Australia. Nel 1943 si recò negli Stati Uniti. Nel 1944 prese la cittadinanza americana e diventò professore di psicologia all'Università di Chicago, dove rimase fino alla pensione nel 1973. Ha studiato a lungo l'autismo, del quale ha sempre negato le origine organiche

Delle opere di Bruno Bettelheim ricordiamo: Psichiatria non oppressiva; Sopravvivere ; Imparare a leggere, Come affascinare i bambini con le parole,, Freud e l'anima dell'uomo; Un genitore quasi perfetto; La Vienna di Freud e L'arte dell'ovvio.

Verso la fine della sua vita ha sofferto di forte depressione che l'ha portato al suicidio nel 1990.

Una punizione esemplare (1987)

A scuola ero sempre stato bravo, un ragazzo tranquillo, introspettivo, persino sottomesso. Ma un giorno il comportamento di uno dei nostri insegnanti, che aveva sempre irritato me e i miei compagni, e che era ben diverso da quello degli altri insegnanti di cui avevamo esperienza, mi provocò a tal punto che, senza pensarci sopra, lo afferrai per le braccia e, insieme a un paio di altri ragazzi, sollecitati dal mio esempio, lo spinsi fuori dell'aula. Immediatamente fui preso dall'orrore e soprattutto dallo stupore per quello che avevo fatto: era così lontano dal mio normale modo di comportarmi a scuola e fuori. Ricordavo soltanto di essermi sentito così oltraggiato che dovevo fare qualcosa; ma quale fatto in particolare avesse fatto scattare la mia reazione, quali altri sentimenti, oltre alla collera, agissero in me, e da che cosa fosse causata la mia collera, di tutte queste cose non avevo la minima idea.

Che cosa mi avesse indotto a comportarmi in un modo così estraneo al mio modo di essere non lo capii allora e non lo so neppure oggi. Non mi ero mai ritenuto capace di un gesto così impulsivo e violento, di un atto di insubordinazione così inaudito, considerato che l'ambiente era un liceo ginnasio austriaco ai tempi della monarchia. Cercai in ogni modo di ricostruire che cosa avesse potuto indurre quella collera improvvisa, visto che quel professore in fondo non si era comportato diversamente dal suo solito con me o con altri compagni. Ma in vano: non trovai nessuna giustificazione che potesse alleviare il terrore delle conseguenze del mio gesto. Non mi veniva in mente nulla di nulla. Il preside della scuola era un eminente studioso, molto esigente e autoritario, distante ed estremamente rigido in fatto di disciplina, e io tremavo all'idea della sua punizione. Mi aspettavo di venire espulso, magari da tutte le scuole del regno, cosa che avrebbe avuto conseguenze disastrose per il mio futuro, ed era tutt'altro che improbabile.

Il giorno seguente, a metà mattina, ricevemmo la visita del preside, un evento raro e sempre impressionante, addirittura sinistro. La classe scattò sull'attenti, e il preside incominciò attaccarci, accusando i miei compagni di non avermi fermato e me di essere stato l'istigatore di quel crimine senza precedenti. Ipocrita fu l'epiteto più tenero che mi rivolse, e quello che evidentemente meglio esprimeva il suo più profondo disprezzo, dato che fino a quel momento ero sempre stato, ovvero, secondo lui, avevo finto di essere, un così bravo ragazzo. Ascoltando la sua filippica, il mio terrore circa la punizione aumentava sempre più, e così pure, come mi dissero poi, quello dei miei compagni.

Dopo averci strapazzato e insultato per quella che ci parve un'eternità, all'improvviso fece una pausa di silenzio, dopo di che, con la massima calma (e il contrasto con la sfuriata precedente non poteva essere più drammatico) pronunciò le seguenti parole, che non ho mai dimenticato: "S'intende," disse, "che se il professor X si fosse comportato come mi aspetto che si comportino i membri di questo istituto, nulla del genere sarebbe mai potuto accadere." Quindi, rivolto a me, aggiunse:

Domani, lei si fermerà due ore dopo le lezioni a studiare da solo la materia che il professor X avrebbe dovuto renderle così interessante da non poter dare adito a un così grave gesto di insubordinazione. Dopo di che, lentamente, usci dalla classe. E quella fu la sola punizione che ricevetti, oltre a un basso voto in condotta sulla pagella di quel trimestre, mentre prima di allora, e poi anche in seguito, avevo sempre ricevuto il voto più alto. Avendo, con ragione, temuto il peggio, io e i miei compagni provammo un sollievo indicibile per quella punizione così incredibilmente mite, che peraltro non riuscivamo a spiegarci.

Ma la cosa che più mi colpì allora, e che ancora ricordo, è che non venni interrogato sulle mie motivazioni. Non si pretese da me che confessassi la mia colpevolezza, né che rinnegassi il mio gesto, né che presentassi delle giustificazioni o chiedessi scusa. Di fatto il preside venne a dirci che conosceva la causa di quell'incidente e che, mentre non poteva lasciarlo correre, non solo capiva come fosse potuto accadere m ammetteva in un certo senso che a scuola da lui diretta ne fosse in parte resonsab1le, in quanto ci aveva dato un e non meritava rispetto.

Fu un enorme sollievo. Per tutto un giorno e per tutta una notte insonne mi ero arrovellato a pensare quale spiegazione avrei potuto fornire (non dico giustificazione, perché sapevo di non averne), senza venire a capo di nulla. Che quell'insegnante fosse particolarmente scadente, non costituiva una spiegazione, tanto più che io sapevo benissimo che non me ne importava molto: fingere che fosse stato il suo scarso valore a scatenare la mia indignazione, questo sì avrebbe rappresentalo il massimo dell'ipocrisia. Al pari della maggior parte dei miei compagni, mi ero sempre preso gioco di quell'insegnante così inconsistente, debole e, quel che è peggio, sciocco. La sua personalità e la sua condotta erano state lo spunto di scherzi e prese in giro che ci divertivano molto; perché dunque avevo sentito il bisogno di eliminare la fonte di tanto divertimento, di cacciare fuori della classe un insegnante nei confronti del quale ci sentivamo tutti superiori, circostanza che costituiva un gradito sfogo, visto che di fronte a tutti gli altri ci sentivamo tanto inadeguati? Perché quell'improvviso impulso a liberarmi di lui? (Tra parentesi, il mio tentativo riuscì perfettamente, perché il professore non ebbe il coraggio di ripresentarsi in classe.)

Era evidente che il mio gesto era stato simbolico. Ma che cosa mi aveva indotto a compierlo? Su questo era il buio più completo. Mi ero aspettato un interrogatorio sulle mie motivazioni, prima del verdetto, e questo era ciò che più mi angosciava: non avevo la minima idea di che cosa mi avesse spinto a compiere quel gesto, ma sapevo benissimo che una risposta del genere sarebbe stata considerata totalmente inaccettabile da parte delle autorità scolastiche, e anzi le avrebbe solo irritate ancora di più. Disperato com'ero, sarei stato pronto a mentire, ma non mi veniva in mente nessuna bugia da dire: ero assolutamente indifeso. Il fatto era che il mio gesto non aveva scusanti, e il preside, rendendosene conto, aveva evitato di mettermi in condizioni di mentire. Mi occorse molto tempo per comprendere la profonda saggezza del suo comportamento.

Di lì a poco il professor X venne fatto dimettere e fu sostituito da un insegnante che seppe ottenere il nostro rispetto, non solo per l'alta qualità del suo insegnamento e per la sua giustizia nei rapporti con noi, ma anche per le doti umane di sicurezza interiore e di virilità che emanavano da lui senza che dovesse farne mostra. Anni dopo mi venne in mente che probabilmente il preside aveva scelto questo insegnante, che era esattamente l'opposto dell'altro, per compensarci in un certo senso dell'esperienza negativa subita con lui.

Prima di quell'episodio io non ero che uno tra le centinaia di allievi senza volto e senza nome che popolavano il liceo; ora invece, quando ci incontravamo per caso nei corridoi, avevo l'impressione che il preside mi riconoscesse, e mi trattasse con il consueto freddo distacco, animato però da una certa misura di rispetto; non fece mai, tuttavia, favoritismi nei miei confronti. Forse, come intuii molti anni dopo, il suo atteggiamento esprimeva il desiderio di farmi sapere che, pur disapprovandolo nel modo più assoluto, egli riconosceva che il mio gesto era comprensibile.

Da parte mia, mi occorse parecchio tempo per comprendere le sue ragioni e neppure questo me lo fece amare di più. Era troppo autoritario e aveva idee in politica e sull'educazione in netto contrasto con i miei valori. Riuscire ad apprezzare una persona i cui valori sono il contrario dei nostri richiede una maturità di giudizio che io allora non possedevo. Ma gradualmente, con il passare degli anni, la conquistai e allora apprezzai sempre di più il fatto che quell'uomo così rigido, all'antica, autoritario avesse capito da solo quello che aveva acceso la mia collera, e non avesse sentito il bisogno di farsi confermare le sue conclusioni interrogandomi e obbligandomi a dare il mio assenso. Aveva saputo intuire i bisogni che mi avevano spinto a quel gesto, anche se con esso gli avevo creato dei fastidi, come capo dell'istituto, e avevo messo in pericolo la disciplina della scuola. E non aveva preteso che diventassi diverso da quello che ero, come si vede dal fatto che mi diede una punizione insignificante, più che altro simbolica, e che non mi richiese alcun atto di contrizione né alcuna promessa di ravvedermi.

Con gli anni e la maturità, il fatto che, anziché sottopormi a un interrogatorio, il preside avesse spontaneamente reso pubbliche le sue conclusioni mi parve sempre più apprezzabile. Quell'uomo comprendeva i ragazzi della mia età abbastanza da sapere quello che si agitava dentro di loro, anche quando loro stessi non lo sapevano. Pur disapprovando il mio gesto, ne aveva compreso l'essenza: tutto era dipeso dalla stupidità del professore. Non si diede a indagare le mie specifiche motivazioni, in parte perché, una volta intuita la causa essenziale, gli sembravano di importanza relativa, e in parte perché riteneva, giustamente, che un ragazzo nella mia situazione non poteva sapere che cosa l'avesse mosso ad agire, in realtà.

Benché fosse una persona autoritaria e molto rigida in fatto di disciplina, mi trattò nel modo più giusto e morale: fu attento a non distruggere il mio rispetto per me stesso obbligandomi a professare una contrizione che non provavo, e che sarei stato costretto a fingere se mi avesse interrogato sul mio gesto. Il fine della scuola era istillare nei suoi allievi il rispetto di se stessi, e intaccare il mio, costringendomi a rivelare e a difendere le mie motivazioni più intime, ammesso che fossi in grado di farlo, sarebbe andato contro gli ideali della scuola. Se, per paura della punizione, mi fossi sentito costretto a fingermi contrito, sarebbe equivalso a farmi rinnegare una parte essenziale di me stesso; se, d'altro canto, di fronte alle domande del preside, avessi voluto affermare la giustizia del mio gesto (ipotesi per altro assurda, dato l'ambiente), egli sarebbe stato costretto a punirmi proprio in conseguenza del fatto che gli ubbidivo, rivelandogli la mia intimità. Questo, lungi dal correggere la mia condotta, mi avrebbe convinto dì essere stato vittima di un'ingiustizia, inducendomi a odiare la scuola e il suo preside.

Il preside probabilmente aveva compreso al livello più profondo il mio gesto per quello che era: una dichiarazione simbolica del mio bisogno di avere buoni maestri, che potessi rispettare. Perciò anche la punizione, due ore in classe dopo le lezioni, fu simbolica, e così pure il basso voto in condotta su una pagella trimestrale, che non venne riportato sui documenti finali. Il che esprimeva tra l'altro il riconoscimento che si era trattato di un episodio isolato di indisciplina da parte mia.

Dovetti raggiungere la piena maturità e fare una lunga esperienza come educatore e terapeuta infantile (e come genitore) prima di capire fino in fondo come quell'uomo mi avesse insegnato una delle doti indispensabili di un saggio educatore, soprattutto nelle situazioni difficili: e cioè la disponibilità e la capacità di soppesare dentro di noi le possibili motivazioni dei giovani a noi affidati, se vogliamo cogliere le ragioni del loro comportamento, le sue cause, i suoi scopi. Solo sulla base dì una tale comprensione ci sarà possibile decidere se approvare o meno quelle ragioni, e questo indipendentemente dal nostro atteggiamento nei confronti del comportamento in questione, giacché è ben possibile che si possano approvare dì tutto cuore le motivazioni di un bambino o di un ragazzo sentendosi in dovere di impedirgli di metterle in atto.

B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Milano, Feltrinelli, 1987, pagg. 107-112.

 


Torna ad inizio pagina