Enrico Georgiacodis


 

 

 

 

 

E' stato preside al Liceo Einstein di Milano. E' autore di L'utopia istituzionalizzata. 1969-1983: 14 anni in un liceo italiano

Uno da prendere a schiaffi (1984)

Fu una occupazione singolare, che veniva attuata solo di pomeriggio in Aula magna, nella quale sciamavano personaggi di ogni ceto e di ogni parte politica.

Grottesco ne era stato il prologo. Due nostri ragazzi, A. R. C.C., studenti di classi quinte, si erano fatti annunciare, con altri, per un colloquio. Il primo dei due, dopo avere invaso con i glutei la sponda sinistra della mia scrivania, quasi voltandomi le spalle, mi disse: "Fino a dopodomani lei sarà Preside poi basta". "Benissimo", risposi," ma ora dimmi chi prenderà il mio posto"."Io", mi replicò in tono serio e con durezza perché il "movimento" mi ha insegnato a capeggiare la cogestione, il coordinamento di tutte le commissioni di studio ed operative di questa scuola»."Intanto che sono ancora il preside per qualche giorno», ripresi, «mi comporterò come tale». Il giovane C. C., angelo decaduto, sostenne il compagno con vigore pari all'importanza della "missione" loro affidata dai demagoghi di fuori, allineandosi ad A. R. nei più tristi presagi per il futuro del liceo qualora non mi fossi "messo da parte"; ma era angosciato dal giudizio del Cielo, ed il suo starnazzare era di gallina quae vult obstripetam aquilam imitari.

L'esperienza insegna che, di fronte a situazioni apparentemente insormontabili, il rimedio è uno solo: estrema freddezza e tanta determinazione nel decidere; legge alla mano, s'intende. Riunii perciò immediatamente il Collegio dei Professori e furono attribuiti a ciascuno dei due 15 giorni di sospensione dalle lezioni a norma dell'art.19, lettera D), della legge 653. Non si poté fare altrimenti. Ma conservo il dubbio che C.C., per la sua condizione di transfuga dal campo cattolico e di capofila del "movimento, avesse strepitato senza autentica convinzione. Quanto ad A. R., il discorso è diverso, ed emblematico dello sfacelo morale del momento. Apparteneva - me lo disse la cortesissima madre - ad una famiglia di professionisti che la sorte aveva gratificati di un altissimo censo; si giovava di un nugolo di zii, privi di discendenti, che avrebbero convogliato su di lui un patrimonio di centinaia di milioni non svalutati come quelli di oggi; un giovane - mi disse sua madre - che avrebbe potuto scegliere di frequentare gli studi universitari dove avesse voluto: ad Oxford, a Cambridge, a Parigi, a Tel-Aviv. Ma era un ragazzo afflitto dal complesso di colpa del ricco, del privilegiato, che rifiutava il bacio della fortuna dissimulandola sotto vestimenta da straccione - blue jeans sdruciti ed oleosi, eskimo imbrattato - così come dissimulava i moti dell'animo sotto un'ispida ed incolta barba. Vero è che più tardi, in primavera, in piazza del Duomo, al nostro vice-preside accadde di "scoprirlo" splendidamente agghindato, mondato di barba e di zazzera ed in abiti da cerimonia. "Toh! Non sei più tu", gli disse, "sembri un dandy; hai tradito il tuo dan? "No, fu la risposta, "debbo purtroppo partecipare ad una riunione conviviale della mia vasta famiglia, ed arrossì. Ecco: l'abbigliamento scolastico era per lui una divisa, abito di guerra; l'aggressività era un comportamento indotto, che diventava agnellesco quando tradizioni familiari o comode prospettive emergevano leonine. La sua identità ne risultava stravolta, ogni sincerità dissipata. Di ragazzi come A. R., a Milano ed in Italia, c'erano nugoli: radical-chic salottieri e mondani, orbati di "valori" e perciò disponibili ad ogni avventura, interiormente fragili, socialmente pericolosi perché ignari di sé medesimi. Ne faccio cenno non per conferire una nota di colore alla mia testimonianza; ne parlo perché, nella variegata tipologia dei sessantottini, questo mi è sempre parso il tipo più inquietante: gente intrinsecamente vuota, e tanto ipocrita. Quanti di questi "mascherati", oggi fra i 34 ed i 38 anni, hanno colmato quel vuoto? E di che cosa lo hanno riempito? La mia impressione è che parecchi di loro, avvalendosi di consolidata e inonesta dissimulazione, si siano inseriti nel "sistema", ed anche a buoni livelli. Meditino i politici, almeno quelli cui l'anagrafe consente di avvertire l' horror vacui.

Il provvedimento disciplinare fu rispettato dai due, ma la vita del liceo ne risultò compromessa. Il "movimento" non si dava e non ci dava tregua: l'assemblea concessa per il 21 ottobre fu rifiutata fra clamori ed insulti. Riunii il comitato di coordinamento degli studenti, quell'organo rappresentativo ristretto, composto di 25 alunni l'anno precedente, e concordai una seconda assemblea per il 31 ottobre. Fu questa certamente l'assemblea più drammatica e volgare che io ricordi; la quale comunque segnò una svolta risolutiva nella vita dell'Einstein.

In un'Aula magna gremitissima, in un'atmosfera ionizzata da scrosci di pioggia e di grandine che introduceva dall'ampio cortile una tetraggine invernale, gli umori più turpi esplosero oscenamente; uno studente di quinta, G. B., dopo uno sproloquio anarco-maoista, osò l'inosabile: «Quest'anno i professori faranno tutto quello che noi del "movimento studentesco" ordineremo, altrimenti li prenderemo tutti a schiaffi; ed uno da prendere subito a schiaffi lo abbiamo qui», ed accennò a me che ero seduto alla sua sinistra. Lo seguì immediatamente un altro studente, di una classe quarta, M. G., il quale, non meno delirante, disse: «Abbiamo sentite le puttanate dette dal preside; siamo stanchi di prestare orecchio a queste puttanate; noi ce ne fottiamo di questa merda dei professori; noi i professori ce li appendiamo ai coglioni», e concluse: «Confermo tutto quello che ha detto il mio compagno ed aggiungo che le poche volte in cui i professori ci dicono di sì o sorridono, lo fanno per meglio mettercelo in quel posto» (ed accennò ad un gesto osceno col medio della destra). Erano presenti professori, genitori, genitrici, bidelli: non meno di 700/800 persone. Avevamo udito l'inudibile, la cosa era di una gravità senza pari. Sospesi l'assemblea, riuscii, non senza fatica, a fare sgomberare l'Aula e mi parve fortuna che quattro giorni di imminente vacanza, dall'uno al quattro di novembre, offrissero a tutti una pausa di riflessione. In quei giorni mi giunsero dichiarazioni sottoscritte da 14 tra padri, madri, professori e bidelli che, testimoni della disgustosa assemblea, riportando le frasi sopra menzionate, chiedevano un intervento riparatore. Io stesso ebbi tempo sufficiente per meditare a lungo: ritenere il tutto una bravata e mettere l'intera vicenda sotto l'insegna della esuberanza giovanile? Privilegiare le illegalità constatate e denunciare ogni cosa all'autorità giudiziaria? Intervenire soltanto sui piano amministrativo-disciplinare? E, in tal caso, in quale misura? Come avrebbe reagito il Collegio dei professori? E quale sarebbe stata la reazione della opinione pubblica milanese, a cui certa stampa, compiacente, presentava l'Einstein come il liceo pilota della contestazione? Ci era noto che nel piano degli agitatori il crollo di esso era auspicato come fiore all'occhiello, foriero di altri blitz occupatori e di altri atti destabilizzanti. Gli umori delle famiglie dei nostri alunni erano contrastanti; in molte di esse si era equivocato e si equivocava sulla nostra sopportazione dell'anno precedente, ritenuta forse una scelta di campo atta ad incoraggiare gli extraparlamentari di sinistra. Eravamo davvero in difficoltà. Meditate, gente, meditate avrebbe detto un simpatico show-man musical-televisivo. Per farlo avevamo davanti quattro giorni di vacanza. Al di sopra di ogni considerazione, era comunque nostro dovere difendere l'istituzione scolastica, quel frammento, piccolo quanto si voglia, di Stato che una scuola è. Una scelta dunque esclusivamente pragmatica? Non soltanto tale, giacché molti erano i valori in gioco, e tanti i possibili sviluppi negativi che il caso comportava se non fosse risultata ferma la nostra risposta. Ma vada per il "pragmatico" di cui spesso siamo stati accusati di aver fatto uso. La scelta purtroppo era dilemmatica: o lo Stato o l'anarchia. Tertium non dabatur.

Si sarebbe preteso, come emerse dalle polemiche esplose subito dopo l'intervento punitivo, che si fosse deciso in modo meno drastico, a mezza strada tra sanzione disciplinare e perdono; si sarebbe preteso insomma una sintesi adbicatoria. Ma le sintesi si misurano col metro della Storia; quando si è nell'occhio del ciclone, in discrimine rerum, unico metro di scelta è il successo. Personalmente non potevo consentirmi perplessità: dovevo difendere il diritto di una pubblica istituzione ad essere rispettata; e dovevo farlo in modo non equivoco. Ed ai critici di una certa parte, che sono ancora oggi numerosi, pronti a gioire delle disavventure dello Stato a vantaggio del loro "particulare", va rammentato che lo Stato, democraticamente inteso, siamo noi.

E. Georgiacodis, L'utopia istituzionalizzata. 1969-1983: 14 anni in un liceo italiano, Milano, Shakespeare & Company, 1984, pagg.39 - 42

 


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