Giani Stuparich


Giani Stuparich (Trieste, 4 aprile 1891 - Roma, 7 aprile 1961) scrittore italiano.

Nasce a Trieste da madre triestina (Gisella Gentilli) e padre lussiniano (Marco Stuparich). Si laurea all'Università di Firenze in letteratura italiana. Allo scoppio della Guerra nel 1915 si arruola come volontario. Ferito due volte, viene fatto prigioniero, e internato in cinque campi di concentramento austriaci. Giani Stuparich è stato insignito della medaglia d'oro al valore militare. Nel 1918 Stuparich torna a Trieste. Insegna come professore di italiano al liceo Dante Alighieri dal 1921 al 1941. Rifiuta la tessera fascista. Nel 1945, viene internato insieme alla moglie e alla madre nella Risiera di San Sabba, a seguito di una delazione, e viene rilasciato dopo una settimana per l'intervento del vescovo e del Prefetto di Trieste. Fa parte del Comitato Liberazione Nazionale (CLN). Nel secondo dopoguerra alterna la professione di giornalista con quella di scrittore impegnandosi politicamente. Scrive numerosi articoli come uomo politico sulla "Questione" di Trieste e della Venezia Giulia. Muore a Roma il 7 aprile 1961.

L'esempio (1968)

Tre cose facevano del nostro ginnasio una scuola seria: il corpo insegnante, la buona volontà degli allievi, il sistema. Il corpo insegnante era scelto, perché ogni nuovo professore doveva passare più d'un vaglio, ultimo e decisivo, quello della capacità di fondersi o meno con lo spirito attivo della scuola. S'era formata, in nobile senso, una specie di casta fra i docenti del ginnasio comunale, per cui valeva sopra ogni altra la legge della dedizione all'insegnamento; nessun'altra ambizione era superiore a quella d'essere un bravo e coscienzioso insegnante. Perciò i più finivano la propria carriera nell'istituto in cui l'avevano iniziata. Le generazioni s'intrecciavano e si davano il cambio. Quello stesso atrio, quegli stessi colonnati ai vari piani, quelle stesse aule che li avevano visti scolari, li vedevano poi professori e l'istituto apriva a loro anche tutti i suoi misteri: sala del consiglio, presidenza, biblioteca, gabinetti scientifici. L'affiatamento fra colleghi avveniva per gradi e soltanto dopo un lungo periodo di rispettoso tirocinio i giovani si familiarizzavano con gli anziani e non sempre s'arrivava fino al «tu».

Ricordo che per alcuni anni, nel recarmi a far lezione in classe, seguivo al passo un mio vecchio professore di cui ero diventato collega; per il corridoio austero più di una volta dovetti sussultare nel timore che da un momento all'altro egli si volgesse a redarguirmi con la sua antica autorità. Tanto era il prestigio con cui alcuni insegnanti s'imponevano agli allievi. Quell'insegnante poi era l'incarnazione della severità professorale e aveva fatto gemere molte generazioni nella morsa della sua inflessibile pedagogia. Di buon cuore, dietro le quinte, com'ebbi occasione di scoprirlo quando gli fui compagno di scena, era sul palcoscenico, ossia in cattedra, la rigida maschera del dovere, dell'inquisizione, del giudizio imparziale e irrevocabile.

Pochi insegnanti spingevano fino a tal punto la loro ars docendi, i più lasciavano trasparire anche nell'istruzione le loro qualità o debolezze umane, ma tutti mettevano nel far scuola il meglio di se stessi. Non li distoglieva dall'insegnamento concreto la preoccupazione di ammucchiare titoli universitari o la vanità di prodursi quali brillanti conferenzieri o l'ambizione politica; erano contenti delle ore vive che passavano in mezzo ai propri allievi e per queste si preparavano anche coscienziosamente.

[.]

Ricorderò, di quand'ero scolaro, il preside Cesare Cristofolini (per quanti anni batté nel cervello dei suoi scolari i verbi in mi, ed era uno studioso ed eccellente grecista! Questo amore d'inculcare la rudimentale dottrina era vissuto anche nei professori d'eccezionale levatura). Alto, testa eretta, gli occhietti lampeggianti sotto la vastissima fronte, la voce tonante, Cristofolini era proprio il preside per antonomasia: sembrava davvero che la vita dell'istituto si svolgesse tutta sotto la sua perseverante vigilanza. Il busto severo dell'Alighieri al pianterreno, la figura imponente di Cristofolini, si corrispondevano per noi ragazzi, quando, suonato l'ultimo campanello, uscivamo dalle aule e dovevamo passare tanto davanti all'uno che all'altro. Egli era là, appoggiato alla balaustrata di marmo, e ci fissava un attimo come sfilavamo rispettosi, salutando, sotto i suoi occhi.

Non dimenticherò mai il giorno che uno scolaro dell'ottava passò, chissà per quale ottenebramento, senza salutarlo. Con un balzo gli fu addosso urlante, lo afferrò per il colletto e lo scosse ripetute volte: il giovane era diventato uno straccio. Tutto il movimento degli scolari si era arrestato di colpo; nel silenzio penoso. L'atrio e le scale risuonarono dei ruggiti del preside. Quando questi si calmò e lasciò andare il colpevole, lo sfollamento della scolaresca riprese fra un timido sbocciare di commenti; ma subito s'arrestò un'altra volta: ancora la voce del preside. Il colpevole veniva richiamato, questa volta per nome. Si può immaginare come tutti noi, volgendo gli occhi alla nuova scena, temessimo per lui; il silenzio fattosi ora ancor più pavido e completo di prima, stavamo col fiato sospeso. «Lei ha commesso una grave mancanza. Lei ha mancato non a me di rispetto, bensì all'istituto, - le parole erano calme e come martellate, - ma il preside ha commesso una mancanza non meno grave della sua; io che dovrei dare esempio d'equanimità ho trasceso nell'ira. Le chiedo scusa, qua la mano.».

Niente influisce sull'animo dei giovani meglio della franchezza e della lealtà che si dimostra loro. Il preside Cristofolini riusciva a far operosa quella dignità umana senza la quale la scuola perde ogni magia educatrice. Per natura impulsivo e iracondo, egli sapeva davanti a tutti elevarsi sopra se stesso, sublimare i propri istinti, provocando negli altri con l'esempio della catarsi che l'ossigeno della vita morale.

Quest'impegno all'educazione morale, più o meno felicemente attuato, ma da tutti gl'insegnanti sentito, formava, insieme con l'altro, didattico, il clima della nostra scuola. Io ho in mente il ginnasio liceo Dante, ch'è stato il mio, ma tutte le nostre scuole, dalle popolari alle cittadine, alle reali, alla nautica, alle commerciali, al liceo femminile vivevano nello stesso clima. Era un orgoglio per Trieste avere delle ottime scuole.

G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Roma, Editori Riuniti, 1984, pagg. 35-38.

 


Torna ad inizio pagina