Albino Bernardini
Albino Bernardini nasce il 18 ottobre del 1917 a Siniscola in provincia di Nuoro. A partire dal 1945 si dedica interamente alla scuola e nel 1960 lascia la sua terra e si trasferisce nei pressi della capitale. Entra a far parte del MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) dove, tra gli altri, conosce il poeta-scrittore per bambini Gianni Rodari ed al quale rimarrà legato da sincera amicizia fino alla sua prematura scomparsa nel 1980. Nel 1968 viene pubblicato "Un anno a Pietralata", il suo primo libro, dal quale verrà tratto il film "Diario di un Maestro". Da quel momento in poi non farà altro che sfornare un libro dietro l'altro, per la maggior parte favole e racconti per bambini. Ne ricordiamo alcuni: "Bobby va a scuola", "La banda del bolide", "Tante storie sarde", "Le avventure di Grodde", "II palazzo delle ali" fino all'ultimissimo "Un viaggio lungo trent'anni". Ha ricevuto decine di premi e riconoscimenti. Seguace del francese Frenet e dello svizzero Jean Piaget, è l'inventore della trovata didattico-educativa costituita dalle "storie senza finale"; ovvero racconti e favole che non vengono appositamente conclusi, per dare modo ai piccoli lettori dì inventarsi un finale tutto loro. Ha collaborato con vari quotidiani tra i quali l'Unità, il Paese Sera e l'Unione Sarda.
Visita in classe (1968)
Al direttore non ci pensavo proprio, quando un bel giorno me lo vidi comparire dinanzi alla porta. Era quella la seconda o la terza volta che lo vedevo, per quanto fossero trascorsi alcuni mesi dall'inizio dell'anno scolastico. Svolgeva infatti le sue mansioni interamente nel suo ufficio: non so come facesse a trascorrere il tempo, chiuso per giornate intere in una stanza. Da quel che mi risultava, la sua principale occupazione era quella di leggere le circolari che gli giungevano da ogni dove e sottolineare per bene le parti che doveva farci conoscere, e poi farcele firmare. Inoltre ci scriveva continuamente lettere per ogni stupidaggine: a me, in tutto l'anno, deve averne scritte almeno una quindicina. Se si pensa che controllava un centinaio insegnanti, anche facendo una media i dieci lettere a testa (io avevo il primato), ne scrisse in tutto almeno un migliaio. Come lavoro didattico non c'era proprio male! Tutte avevano lo stesso tono noioso e pedante, tutte quella forma che rispecchia la mentalità del burocrate incallito, tutte, invariabilmente, cominciavano con le parole di rito: «Con riferimento a...». Gli chiedevo una qualsiasi cosa, facevo una proposta, (sempre attraverso la segretaria, naturalmente!) e, anziché rispondermi subito tergiversava e poi concludeva sempre nello stesso modo:
«vedrò, ci penserò e poi le comunicherò». Dopo qualche giorno, invece di chiamarmi e dirmi a voce a sua decisione, (la mia aula distava dalla direzione non più di 15 metri), arrivava la segretaria o la bidella, secondo l'importanza della questione, con la lettera in cui il direttore esprimeva il suo parere.
La prima volta che lo vidi se non vado errato, fu in occasione di una riunione che indisse qualche mese dopo l'inizio dell'anno scolastico. Era la sua presentazione ufficiale, a cui, certamente, si era preparato chissà per quanto tempo. Ma come avviene spesso in questi casi, quando si vuole dimostrare il contrario di quello che realmente si è, si finisce col fare una gran magra figura. Voleva proprio convincerci di essere un uomo di elevata cultura, e così mise nel suo discorso Dante, Petrarca e Leopardi, recitando versi e facendo riferimenti a libri, tanto che alla fine si dimenticò di parlare della nostra scuola e, quindi, dei nostri problemi. Naturalmente non gli passò neppure lontanamente per la testa l'idea di chiede il nostro parere. Parlava come se davanti avesse ragazzetti a cui voleva fare la solita lezioncina dall'alto del piedistallo in cui si era collocato. Dunque, penosissima impressione iniziale! I commenti furono naturalmente severi e non si fecero attendere: mentre parlava, le gomitate e il bisbiglio avevano creato una certa animazione in platea; ma lui non se ne accorse, preso com'era dal fervore della recita che lo impegnava fino in fondo. Una incolmabile e immediata rottura si era operata tra noi e lui. Chi ne fece le spese naturalmente furono, come sempre, la povera scuola e soprattutto i poveri bambini di Pietralata che di ben altro avevano bisogno.
Quel giorno, appena il direttore fu in classe, ci guardammo per qualche attimo negli occhi, trovandoci finalmente faccia a faccia. Aveva un paio di occhiali con lenti spesse e con montatura robusta, baffi grossi e neri, venati di bianco. Subito dopo i convenevoli d'occasione si sedette in cattedra e diede inizio con solennità alla visita: prese il registro, lo sfogliò con cura e lesse tutto, dai nomi alla cronaca, alle osserva ioni. I bambini. che fino a quel momento erano stati attratti dalla novità dell'inatteso ospite avevano taciuto e scambiato tra loro qualche parola, evidentemente per chiedersi chi fosse mai quest'uomo dall'aspetto così severo e burbero; quando però lui prese a leggere si stancarono e ripresero a pensare alle loro cose. Fu così che qualcuno alzò un pò la voce. Io non se se il direttore interpretò il chiacchierio mancanza di rispetto nei suoi confronti, fatto sta che si alzò e gridò:
«Chi ha parlato?»
Nessuno rispose; tutti lo guardarono un pò allarmati e sbigottiti. Poi rivolsero lo sguardo verso di me come per chiedermi: «che diavolo vuole?». Ero imbarazzato anch'io; mi veniva istintivo dire che non era il caso di gridare per una sciocchezza del genere. Certo un altro avrebbe risolto la cosa pregando i ragazzi di tacere un attimo, così come fanno tutti. Preferii attendere per non precipitare le cose. Scese dalla cattedra con cipiglio, non certo da educatore, si avvicinò minaccioso ai bambini e continuò:
«Guai a chi si permette di parlare quando c'è il direttore in aula, ed io sono il vostro direttore!». Poi, rivolgendosi a me un pò sottovoce: «E lei ha fatto male a non dirlo subito».
«Signor direttore», dissi, «i bambini l'hanno intuito, non era necessario, mi pare, annunziarlo solennemente» e intanto mi venne una gran voglia di ridere, ricordandomi in quel momento di un altro direttore che entrato un giorno in un negozio per comprare un ombrello, disse: «Voglio un ombrello da direttore».
«Allora perché si mettono a chiacchierare?», insistette.
«Perché lei si è messo a leggere e non credo si possa pretendere che stiano in silenzio per tanto tempo, senza far nulla».
Si passò dopo un pò alle interrogazioni di rito: lettura, scrittura alla lavagna, recitazione di qualche poesia, domande di storia e geografia. Il secondo incidente si verificò quando Sandro intervenne per correggere un suo amico che riteneva avesse sbagliato.
«Chi ti ha interrogato?», gridò il direttore, «impicciati dei fatti tuoi! E intanto ora mettiti in piedi. Poi, rivolgendosi agli altri con voce sempre più alterata: «Chi interviene senza essere chiamato lo caccio via e lo sospendo».
Sandro non si diede per vinto, incoraggiato evidentemente dal mio atteggiamento, e sostenne che il suo intervento era legittimo in quanto lui era il capo-gruppo e doveva intervenire quando uno sbagliava, secondo l'abitudine della classe. Stavo per intervenire ancora, anche se la risposta di Sandro era stata bruciante, per precisare, ma fui preceduto:
«Ognuno», riprese subito a dire il direttore, «deve pensare agli affari suoi. Se uno sbaglia c'è qui il maestro che corregge. Se io vedo nella strada uno che cammina a quattro zampe, la cosa non mi riguarda e, voltando la faccia dall'altra parte, continuo il mio cammino, cioè penso alle cose mie; anche voi dovete fare così».
«Ma noi, signor direttore camminiamo con due gambe!», intervenne ironico Beppe.
«Nessuno ti ha autorizzato a fare dello spirito», replicò il direttore, accalorandosi sempre più nel tentativo di far sembrare valide le sue concezioni.
«Allora se uno sta affogando», intervenne Roberto, «non bisogna aiutarlo?»
«Quella è un'altra cosa, che vai a dire! Siediti e taci».
Non c'era da sbagliare: eravamo agli antipodi.
«Mi scusi signor direttore», dissi deciso e seccato, «le cose che afferma lei sono in aperto contrasto con quello che dal primo giorno di scuola vado insegnando e mettendo in pratica attraverso una specifica organizzazione, senza la quale le parole hanno il valore del nulla. Ecco perché i bambini intervengono per giudicare e criticare. Non si tratta di un fatto occasionale. Lei capisce che non possono cambiare un modo di vivere in un baleno, anche perché credono che quello ché dice il maestro sia sempre condiviso dal direttore, che come superiore, dovrebbe saperne più di lui. Ed ora ci vedono in disaccordo. Se lei continua a sostenere i suoi principi basati sull'individualismo, finisce che questi non capiscono più niente e non credono a nessuno dei due».
«Ma vede», riprese, «io sono per il rispetto massimo dell'individuo e pertanto per la più ampia e assoluta libertà, che non può essere in nessun modo intaccata, neppure dal compagno, che deve pensare a far rispettare la sua libertà e non quella degli altri... Sa, l'uomo...», e qui fece tutto un discorso astratto, pieno di formule imparaticce e ficcate di forza, quindi contraddittorie.
Io lo guardavo mostrandogli evidentemente la mia disapprovazione, perché ogni tanto ripeteva:
«So che lei parte da diversi principi, so che non è d'accordo, pero, ma...». Intanto si toccava il baffo destro e subito dopo spingeva indietro con l'indice gli occhiali che minacciavano di cadere per via dei continui movimenti del la testa. Non trovava difficoltà a sostenere la sua tesi; la cosa che lo infastidiva - ormai lo palesava chiaramente - era il fatto che si era trovato di fronte ad una classe che non conosceva e che non si era curato di studiare.
Quando richiusi la porta alle sue spalle, un vero coro di esclamazioni si levò:
«Meno male! sor maé», disse Luciano.
«Io ero stanco!», gridò il nanetto.
«Non ci viene sempre, vero?», disse Beppe.
«Per dire una parola mette in piedi un bambino, ma che razza di direttore e ; ma i direttori sono tutti così?», domandò Roberto.
«Quando ha gridato», disse Sandro, «io credevo che fosse diventato matto; ha visto come si è fatto rosso? Sembrava un tacchino quando fa glu-glu. Lei li ha visti i tacchini quando si arrabbiano? «
«SI, sì, sono così».
Per fortuna, da quel giorno non lo vedemmo più in classe fino alla fine dell'anno.