Charles Dickens


Charles Dickens (Portsmouth, 7 febbraio 1812 - Gadshill, 9 giugno 1870) uno dei più noti scrittori inglesi del XIX secolo. Le sue opere (in ordine cronologico):

Il Circolo Pickwick - Oliver Twist - Nicholas Nickleby - La bottega dell'antiquario - Barnaby Rudge - L'America - Martin Chuzzlewi- Racconti di Natale - Impressioni d'Italia - Dombey e figlio - David Copperfield - Casa Desolata- Tempi difficili - La piccola Dorrit - Le due città - Grandi speranze - Il nostro comune amico -Il mistero di Edwin Drood (Incompiuta)

È sepolto nell' abbazia di Westminster nell'angolo dei poeti (Poet's Corner)

Il pedagogo dei fatti (1854)

«Ora quello che voglio sono Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i Fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient'altro gli tornerà mai utile. Con questo principio educo i miei figli e con questo principio educo questi ragazzi. Attenetevi ai Fatti, signore!».

La scena si svolgeva in un'aula spoglia, anonima, monotona, lugubre; per dare enfasi a queste osservazioni l'oratore sottolineava ogni fase, tracciando con l'indice quadrato una linea sulla manica del maestro. A dare ancora più enfasi alle parole dell'oratore c'erano il muro quadrato della sua fronte con le sopracciglia per base e, sotto, gli occhi, comodamente annidati in due oscure e ombrose caverne scavate nel muro stesso. A dare ancora più enfasi c'era la voce dell'oratore, inflessibile, secca, autoritaria. A dare ancora più enfasi c'erano i capelli dell'oratore, che crescevano ispidi a corona intorno alla testa, calva sulla sommità, simili a una foresta di pini destinati a proteggere dal vento quella lucida superficie, tutta bitorzoli, che pareva la crosta di una torta di prugne, come se nel cranio non ci fosse abbastanza spazio per contenere tutti i solidi fatti che vi erano pigiati. L'atteggiamento deciso dell'oratore, l'abito quadrato, le gambe quadrate, le spalle quadrate, perfino la cravatta, annodata per serrarlo alla gola con una stretta implacabile - anche questa un fatto - tutto serviva a dare ancora più vigore all'enfasi.

«Nella vita servono Fatti, signore, soltanto Fatti!».

L'oratore, il maestro e la terza persona adulta presente indietreggiarono un poco e, facendo girare tutto intorno lo sguardo, scrutarono i piccoli vasi disposti qua e là, in ordine, pronti a ingollare galloni e galloni difatti, che li avrebbero colmati fino all'orlo.

[.]

Thomas Gradgrind, signore. Un uomo concreto. Un uomo di fatti e calcoli. Un uomo che parte dal principio che due più due fa quattro e basta; un uomo che non si lascia convincere a con cedere niente di più. Thomas Gradgrind, signore - decisamente Thomas - Thomas Gradgrind. Regolo, bilancino, tavola pitagorica sempre in tasca, signore, sempre pronto a pesare e a misurare ogni particella di natura umana e a dire esattamente a quanto ammonta il tutto. Mera questione di cifre, semplice operazione aritmetica. Potreste sperare di far credere qualche sciocchezza a George Gradgrind, ad Augustus Gradgrind, a John Gradgrind, a Joseph Gradgrind (tutti personaggi ipotetici, non reali), ma non a Thomas Gradgrind, no, signore!

Era così che mentalmente il signor Gradgrind presentava se stesso alla sua cerchia privata di conoscenze e al pubblico in generale. Era così, sostituendo, è ovvio, alla parola signore le parole ragazzi e ragazze, che Thomas Gradgrind ora presentava Thomas Gradgrind ai piccoli recipienti che aveva dinanzi e che bisognava stipare di fatti.

Nel fissarli con sguardo fiammeggiante dal fondo delle caverne già descritte, sembrava una specie di cannone che, carico di fatti fino all'imboccatura, si preparasse a scagliarli d'un sol colpo al di là delle regioni dell'infanzia. Faceva anche venire in mente un apparecchio galvanico, pronto a sostituire con un cupo meccanismo le tenere fantasie giovanili che andavano spazzate via.

«Ragazza numero venti», disse Gradgrind puntando quadratamente l'indice quadrato, «non conosco quella ragazza. Chi è?».

«Sissy Jupe, signore», spiegò il numero venti arrossendo, alzandosi e facendo un inchino.

«Sissy non è un nome», osservò Gradgrind. «Non farti chiamare Sissy. Fatti chiamare Cecilia».

«E mio padre che mi chiama Sissy, signore», rispose la ragazzina con un tremito nella voce, facendo un altro inchino. «Non ha alcun motivo per farlo. Diglielo che non deve. Cecilia Jupe. Vediamo: cosa fa tuo padre?».

«Lavora con i cavalli in un circo, signore, se lo consentite». Gradgrind aggrottò la fronte e, con la mano, fece un gesto come per scartare quella discutibile vocazione.

«Non ne vogliamo sapere di cose del genere qui; non devi dirci queste cose. Tuo padre doma cavalli, vero?».

«Sì, signore, se lo consentite: quando ce n'è qualcuno da domare, lo domano nell'arena del circo».

«Non nominare l'arena del circo qui. Bene, allora devi dire che tuo padre fa il domatore di cavalli. Cura anche i cavalli ammalati, vero?».

«Oh sì, signore».

«Benissimo! Allora è veterinario, maniscalco e domatore di cavalli. Dammi la definizione di cavallo».

(A quella imperiosa richiesta, Sissy Jupe si sentì terribilmente allarmata.)

«Ragazza numero venti incapace di definire il cavallo!», sentenziò Gradgrind a edificazione generale dei piccoli recipienti.

«Ragazza numero venti non possiede fatti su uno degli animali più comuni! La definizione di cavallo di qualche ragazzo ora. La tua, Bitzer».

Il dito quadrato si mosse qua e là per puntarsi improvvisamente su Bitzer, forse perché costui sedeva, per caso, sulla traiettoria dello stesso raggio di sole che, filtrando attraverso una delle nude finestre della stanza dalle pareti bianchissime, illuminava Sissy. Ragazzi e ragazze erano disposti in due gruppi compatti, divisi al centro da uno stretto passaggio; Sissy, seduta all'angolo di una fila al sole, stava all'inizio del raggio di cui Bitzer, il quale si trovava all'angolo della fila sull'altro lato, qualche banco più avanti, riceveva la fine. Ma, mentre i capelli e gli occhi della ragazza erano così neri che al sole si accendevano di un colore ancora più vivo e lucente, Bitzer aveva occhi e capelli così chiari che, illuminati da quello stesso raggio, parevano sbiadirsi del tutto. I freddi occhi non sarebbero sembrati neppure occhi, se non fosse stato per le ciglia cortissime che, per contrasto con qualcosa che era ancor più scialbo, ne mettevano in evidenza la forma. I capelli tagliati corti avrebbero potuto benissimo essere la semplice continuazione delle lentiggini che gli punteggiavano la fronte e il resto del volto; la pelle, esangue e diafana in modo innaturale, dava l'impressione che, se si fosse tagliato, ne sarebbe sprizzato sangue bianco.

«Bitzer», disse Thomas Gradgrind, «dai tu la definizione di cavallo».

«Quadrupede. Erbivoro. Quaranta denti, cioè ventiquattro molari, quattro canini e dodici incisivi. La muta avviene in primavera; nei paesi umidi cambia anche le unghie. Zoccoli duri che però richiedono la ferratura. Età riconoscibile da segni nella bocca». Così (e molto di più) Bitzer.

«Ora, ragazza numero venti, sai che cos'è un cavallo», disse Gradgrind.

Sissy Jupe fece un altro inchino e, se avesse potuto diventare più rossa, sarebbe arrossita ancora di più. Bitzer, dopo un rapido battito di palpebre rivolto a Thomas Gradgrind, con la luce che, posandosi sulle ciglia tremule, le faceva assomigliare alle antenne di un insetto laborioso, tornò a sedersi premendo le mani sulla fronte coperta di lentiggini.

Si fece allora avanti il terzo signore. Era un uomo abilissimo nel tagliar la testa al toro: un funzionario del governo; a suo modo (e anche a quello di molti altri) un pugile di professione, sempre in allenamento, sempre pronto ad ammannire agli altri un suo sistema; sempre a pontificare dal podio del suo piccolo incarico ufficiale, sempre pronto a combattere tutta quanta l'Inghilterra. Aveva un vero genio per venire al sodo, in qualsiasi luogo su qualsiasi argomento e, sempre usando una terminologia pugilistica, si dimostrava un osso duro. In ogni dibattito si buttava a capofitto: colpiva col destro il primo argomento che gli capitava sotto tiro, poi continuava con il sinistro, si fermava, scartava, bloccava, metteva alle corde l'avversario (combatteva sempre tutta quanta l'Inghilterra) e gli piombava addosso con tutto il suo peso. Finiva sempre per mettere fuori combattimento il buon senso e per cancellare nello sfortunato avversario la percezione del tempo. Dalle massime autorità aveva avuto l'incarico di preparare l'avvento del Millennio della burocrazia, quando sulla terra regneranno soltanto funzionari governativi.

«Molto bene», disse questo gentiluomo con un sorriso pieno di vigore, incrociando le braccia. «Ecco un cavallo. Ora, ragazzi e ragazze, voglio chiedervi una cosa. Tappezzereste una camera con figure di cavalli?».

Dopo un attimo di silenzio coro: «Sì, signore!»; al che l'altra metà, leggendo sul volto del gentiluomo che il sì non andava bene, gridò in coro: «No, signore», Come è consuetudine in simili circostanze.

«No, naturalmente no. E perché no?».

Un attimo di silenzio. Un ragazzo grosso e tardo, che respirava con l'affanno, si arrischiò a rispondere che a lui non andava una camera tappezzata di carta perché preferiva l'intonaco.

«Devi tappezzarla», ribatté il gentiluomo con un certo calore.

«La tappezzeria ci deve essere, ti piaccia o non ti piaccia», confermò Thomas Gradgrind. «Non venirmi a raccontare che non la tappezzeresti. Cosa vuol dire che non vuoi tappezzarla, ragazzo mio?».

«Ve lo spiegherò io il perché», disse il gentiluomo con un cupo silenzio. «Vi spiegherò perché non si deve tappezzare una stanza con figure di cavalli. Nella realtà, nei fatti, vi è mai capitato di vedere cavalli che passeggiano su e giù per i muri di una stanza?».

«Si, signore», da una metà. «No, signore», dall'altra.

«No, naturalmente», continuò il gentiluomo, lanciando uno sguardo indignato alla metà che aveva sbagliato. «Ebbene non dovete vedere in nessun luogo nessun luogo dovete avere cose che non vedete di fatto; in nessun luogo dovete avere cose che non avete di fatto. Quello che si chiama Gusto è soltanto un sinonimo di fatto».

Thomas Gradgrind con la testa fece un segno di approvazione.

«Questo è un principio nuovo, una scoperta», disse il gentiluomo. «Bene, vi metterò alla prova un'altra volta. Immaginiamo di dove mettere un tappeto in una stanza. Scegliereste un tappeto con un disegno a fiori ?»

Poiché cominciava a essere convinzione generale che con quel gentiluomo, il «No, signore» era sempre la risposta esatta, il coro dei no fu clamoroso. Solo pochi distratti risposero sì, e fra questi Sissy Jupe.

«Ragazza numero venti», disse il gentiluomo, sorridendo con la tranquilla consapevolezza di chi sa.

Sissy arrossì e si alzò.

«Così, nella tua stanza - o in quella di tuo marito, se fossi già donna e avessi marito - metteresti un tappeto con disegni a fiori ?», chiese il gentiluomo. «Perché?».

«Se lo consentite, signore, amo molto i fiori», rispose la ragazza.

«E per questo li metteresti sotto i tavoli, le sedie, e lasceresti che la gente li calpestasse con scarpe pesanti?».

«Non ne soffrirebbero, signore, se lo consentite, non si schiaccerebbero né appassirebbero, sarebbero sempre una copia di qualcosa che è bello e gradevole alla vista, e io potrei immaginare...».

«Ahi, ahi, ahi! Non devi immaginare!», tuonò il gentiluomo, tutto contento di essere arrivato tanto facilmente al punto. «Ecco! Non devi mai immaginare!».

«Non devi farlo, Cecilia Jupe», ripeté solennemente Thomas Gradgrind. «Non devi mai fare nulla di simile».

«Fatti, fatti, fatti», ribadì il gentiluomo. «Fatti, fatti, fatti», ripeté Thomas Gradgrind.

«Dovete sempre farvi guidare e governare dai fatti», disse il gentiluomo. «Speriamo di avere tra poco un consiglio difatti, composto da funzionari difatti, che impongano al popolo di essere un popolo difatti. Al bando la parola immaginazione! Non dovete averci a che fare. Nessun oggetto d'uso o di ornamento deve contenere nulla che contraddica i fatti. Nei fatti non si cammina sui fiori e così non dovrete camminare sui fiori di un tappeto; non si vedono uccelli esotici o farfalle appollaiarsi o posarsi sui piatti, quindi non vi sarà consentito di disegnare sul vasellame uccelli e farfalle. Non ci sono quadrupedi che passeggiano su e giù per le pareti, perciò non dovrete avere sulle pareti immagini di quadrupedi. Per tutti questi scopi, dovrete usare combinazioni e varianti (nei colori fondamentali) di figure geometriche che si possono provare e dimostrare. Ecco la nuova scoperta. Ecco il fatto. Ecco il gusto».

La ragazza fece una riverenza e si rimise a sedere. Era molto giovane e pareva spaventata dall'aspetto fattuale che il mondo sembrava offrire.

«Signor Gradgrind, se ora il signor M'Choakumchild vuol tenere la prima lezione, sarò lieto, com'è vostro desiderio, di osservare il suo metodo».

Gradgrind si dimostrò molto soddisfatto. «Signor M'Choakumchild, non aspettiamo che voi».

Il signor M'Choakumchild esordì nel migliore dei modi. Era uscito di recente dalla stessa fabbrica che, usando identici metodi e ispirandosi agli stessi principi, aveva plasmato, oltre a lui, altri centoquaranta maestri, come se si fosse trattato di gambe di pianoforte. Aveva superato tutti gli esami possibili e aveva risposto a volumi interi di domande astruse. Ortografia, etimologia, sintassi e prosodia, biografia, astronomia, geografia e cosmografia generale, teoria delle proporzioni, algebra, agrimensura e livellazione, musica vocale e disegno dal vero: aveva tutto sulla punta delle sue dieci gelide dita. Con molta fatica si era fatto strada fino al molto Onorevole Consiglio Privato di Sua Maestà, sezione B, e aveva colto il fiore dai rami più alti delle scienze fisiche e matematiche, del francese e del tedesco, del latino e del greco. Sapeva tutto su tutti i bacini idrici del mondo (qualunque cosa fossero), e tutta la storia di tutti i popoli e tutti i nomi di tutti i fiumi e di tutte le montagne e tutti i prodotti, usi e costumi di tutti i paesi, e tutti i rispettivi confini e la loro posizione in relazione ai trentadue punti della bussola. Ah, perfino eccessivo, questo M'Choakumchild. Se solo avesse imparato un pò di meno, quanto meglio e quante più cose avrebbe insegnato!

In questa lezione preparatoria, M'Choakumchild si mise all'opera come la Morgiana dei quaranta ladroni, scrutando dentro i vasi che gli stavano dinanzi, osservandoli uno a uno, per vedere quello che contenevano. Dimmi, mio buon M'Choakumchild, sei proprio sicuro che, riempiendoli tutti fino all'orlo con la tua scienza bollente, riuscirai a uccidere la furtiva immaginazione che vi si cela, o talvolta solo a mutilarla e sfigurarla?

Ch. Dickens, Tempi difficili, Milano, Rizzoli, 1990, pagg. 7 - 13.

 


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