Cara Sandra,
ti invio alcune riflessioni tra l'analitico e il paradossale che io e Domenico abbiamo scritto durante questi giorni in cui si è tenuta la solita liturgia della "Finanziaria", cerimonia tipicamente italiana che dimostra, a mio parere, quanto gli insegnanti (o meglio, il loro Sindacato) riescano a farsi male senza accorgersene.
Resto convinto, e proseguirò nella riflessione, che lo scambio perverso inaugurato con il Dopoguerra (in realtà tutto inizia con gli anni Trenta, con il Mussolini postgentiliano) tra sottoccupazione e basse retribuzioni, ha trovato nella Repubblica una perfetta continuità di culture e protagonisti.
Mi basta citare un dato (Censis, vari rapporti): nel 1980 gli studenti erano 9.764.319 e gli insegnanti di ruolo 792.929, dopo quindici anni (1996) con due milioni di studenti in meno (7.798.742) gli insegnanti erano diminuiti del 3% (769.316), oggi ne abbiamo addirittura recuperati quasi 90.000. Sul personale (quasi tutti bidelli) meglio stendere un velo pietoso: comunque è bene dire che oggi sono 286.000. Bravi!
Abbiamo salvato la categoria dal degrado?
Sono migliorati gli stipendi?
E' migliorata la qualità dell'istruzione?
Sono diminuiti i tassi di abbandono e ripetenza?
I nostri insegnanti, con tanti colleghi "a disposizione", lavorano con più soddisfazione?
I nostri ragazzi sono più intelligenti e preparati di venti anni fa?
Abbiamo conquistato un orario "professionale" che non ci costringa a giustificarci dinanzi alle altre professioni?
Possiamo liberarci di chi danneggia la nostra immagine?
Non riesco a rispondere a nessuna di queste domande, e nessuno vuole rispondere.
Importante che l'ufficio collocamento funzioni: ormai il "precariato" è diventato una categoria dello spirito non una condizione temporanea di lavoro. Lo stesso candido Berlinguer ne fa una apologia nel suo intervento al Senato, esaltandone il valore FORMATIVO (capisci? Allora, tutto il confuso dibattito sulla formazione universitaria dei docenti era uno specchietto per le allodole, una furbizia da "accademico").
E' bene citarlo per intero lui e gli altri teorici dell'efficienza "non ragionieristica", cioè dello sperpero di insegnanti (corsivi nostri)


 BERLINGUER (DS): Con tali norme, oltre a disapplicarsi l'istituto contrattuale, scompare infatti quella flessibilità che il centro sinistra aveva avviato con un lento processo di metabolizzazione dell'autonomia. Al contrario, l'indubbio elemento di criticità rappresentato dalle supplenze doveva essere superato attraverso il ricorso agli organici funzionali, senza peraltro dimenticare che la supplenza rappresenta una tappa importante nell'itinerario professionale dei giovani docenti.
 MANIERI (DS): Non solo le risorse per i rinnovi contrattuali non coprono infatti neanche l'inflazione reale, ma addirittura si modifica in modo unilaterale l'orario di lavoro al di fuori di un'ottica complessiva anche di retribuzione straordinaria e si innova la disciplina delle supplenze in una logica meramente ragionieristica. A tale riguardo, ella rileva peraltro che l'imposizione alle scuole di far fronte con proprie risorse alle assenze fino a trenta giorni non solo accresce significativamente il lavoro dei docenti ai quali si chiede un incremento orario, ma vanifica altresì l'utilizzo della supplenza quale prima esperienza professionale dei giovani docenti.
 (Senato della Repubblica, seduta del 10 ottobre 2001)

Di certo, questo scambio ha un costo altissimo per gli insegnanti: la loro dignità e lo stesso sviluppo professionale.
E' inutile girare intorno al problema, trovare cavilli, rivendicazioni, proporre emendamenti, trasformare gli insegnanti in esperti di finanza pubblica, secondo il modello mentale del BENALTRISMO nostrano (ben altro è il problema, bisogna andare alle cause, ci vorrebbe questo e quest'altro, ecc. ecc). Se lo scambio deve esserci, deve passare per la FINE del vecchio compromesso: zero precari, autonomia organizzativa; alte retribuzioni, nuovi orari, ecc… con tutta la gradualità possibile, ma a cominciare da oggi, da domani, da dopodomani, ma … da una data, da un punto, da un inizio.
Ancora una volta non si è avuto abbastanza coraggio.
Ora che il Sindacato ha fatto di tutto per devitalizzare l'articolo 13 dei suoi punti più innovativi - organico di rete, integrità della prestazione professionale (18 ore), autogestione, anche finanziaria, delle supplenze, una TABE tipicamente italiana, (3.700 miliardi ogni anno) - non possiamo che continuare la strada intrapresa di una ulteriore riflessione per uscire dalla stretta.
Di sicuro il
compromesso storico sottoscritto dalle gradi forze democratiche nel Dopoguerra per fare della scuola il più efficiente ammortizzatore sociale del Paese, sta esaurendo la sua spinta propulsiva. I segnali sono tutti concordi: i genitori preferiscono investire fuori dalla scuola (inglese, computer, ecc.); le imprese cercano altrove soluzioni ai loro problemi di formazione del personale, i mezzi di comunicazione di massa si pongono come aggressivi concorrenti ai vecchi (e invecchiati) modelli di apprendimento, intere generazioni di laureati non vogliono più intraprendere la nostra professione (graduatorie quasi esaurite in matematica, scienze, tecniche varie), dopo che è stata abbandonata dai maschi e dai giovani del Nord.
La scuola modello o il modello di scuola, vista dalle graduatorie permanenti, è sostanzialmente questa:
- Donne sposate;
- Meridionali;
- Che insegnano, per sedici anni, dai bambini delle materne ai diciottenni (solo quelli che ci stanno) un curricolo UNICO altamente "umanistico": italiano, storia, geografia e… forse, francese (l'inglese lo insegnano meglio le varie agenzie private);
- Qualche "esperta", per lo più studentessa universitaria che "passa" dalla scuola a integrare il curricolo unico in compresenza con l'insegnante di italiano;
- L'insegnante di educazione fisica resterà in aula a "spiegare" l'educazione fisica, finché non verrà sostituita dalle colleghe di italiano, che sono molto più capaci di leggere e interpretare (dettare, far riassumere, ecc.) un testo scritto.
O siamo pronti con altre idee e proposte, oppure rischiamo la definitiva marginalizzazione non solo della categoria, ma anche della scuola pubblica. La quale ha bisogno di INVESTIMENTI, ma NON AGGIUNTIVI, come ipocritamente si continua a rivendicare, ma risorse che provengono da una politica centrata sulla QUALITÀ, anche economica (sì: ragionieristica, perché il bilancio dello stato non è un'opinione). Lo so che dico una bestemmia, ma questa qualità si chiama EFFICIENZA della spesa e della gestione del personale, una dimensione altamente educativa per tutti. Tutto il resto è retorica di chi sa di chiedere l'impossibile, e lo fa per non assumersi responsabilità: loro le anime belle!
Io resto dell'opinione che la maggioranza degli insegnanti siano dotati di un pensiero adulto e maturo, che riescano a capire perfettamente la posta in gioco, forse bisogna trovare il modo di dire loro che anche noi abbiamo capito.
E, come sempre, per non perdere il buonumore, un omaggio, tratto da un breve apologo di un giovane collega che scrive,e molto bene, Alessandro Banda.

 Il precario universale
di Alessandro Banda
tratto da "Dolcezze del rancore", Torino, Einaudi 2001, pag 77,79
 Anche se, con l'entrata in vigore della nuova normativa prevista dal decreto legislativo del 3 febbraio 1993, n. 29, concernente la razionalizzazione dell' organizzazione delle amministrazioni pubbliche e la revisione della disciplina in materia di pubblico impiego (a norma dell' articolo 2 della legge 23 ottobre I992), anche se, con questa nuova normativa, il rapporto di lavoro pubblico è stato trasformato in uno di tipo privato, anche se, a seguito di tale privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, non si parla più di "congedo ordinario", ma di "ferie", anche se, con queste nuove norme, non si parla più di "congedo straordinario", ma di "assenze per malattia", anche se non si parla più di "presidi", ma di "dirigenti scolastici", anche se, soprattutto, per rimanere in ambito scolastico, il personale insegnante non sarà più , mai più diviso nelle due antiche categorie "di ruolo" e "non di ruolo" (cioè "precario"), bensì in quelle, nuove fiammanti, di "personale con contratto a tempo indeterminato" e "personale con contratto a tempo determinato", noi, a questa vecchia distinzione cardine (di ruolo e precari) ci sentiamo tuttavia affezionati.
Lo sappiamo che essa, come tutta la terminologia precedentemente citata, appartiene a una concezione caduta in irrimediabile obsolescenza, veicolata, questa concezione scaduta (e paramilitare) del pubblico impiego, dal Testo unitario degli impiegati civili dello Stato, dell'ormai lontanissimo 1957.
Pure, noi, alla vecchia distinzione tra precari e di ruolo ci sentiamo affezionati, lo ripetiamo. Perché essa ci pare possedere un valore più grande, che trascende il mero uso amministrativo. Un valore metafisico, o metafisico- teologico, per cosi dire, a nostro avviso.
Inoltre, in un mondo cosi complesso, chi potrebbe rifiutare una classificazione applicabile a tutti, a tutti, e dotata quindi di un grande potere semplificante ?
Ecco quindi, forti di queste nostre predilezioni e convinzioni, la proposta che facciamo, che ci permettiamo di formulare, sperando che pervenga quanto prima alle sedi competenti: "Perché non estendere a tutti li esseri umani la distinzione di precari e di ruolo?"
Infatti, si pensi un attimo: la vita ( e la qualifica di "vivo") è, di per sé, una condizione transitoria; la morte, viceversa, è una condizione permanente (e per conseguenza lo è anche, permanente, la qualifica di "morto"). O, per riassumere e riformulare il tutto con una classificazione tipica dell'amministrazione greca, la vita è "accidentale", la morte è "sostanziale". (o anche, sempre facendo riferimento all'assai lucida amministrazione ellenica: tutti i "vivi in atto" sono potenzialmente morti, sono già potenzialmente morti).
Dimodoché possiamo ora esplicitare appieno l'equazione fondamentale che ci sta tanto a cuore: l'umanità viva è un umanità precaria (cioè, prendendo a prestito le nuove categorie, il suo è un contratto a tempo determinato), l'umanità morta (che è oltretutto la stragrande maggioranza) è un'umanità di ruolo (ovverosia con contratto a tempo indeterminato). E chiaro, se uno è vivo, è vivo per poco: ottanta, novant'anni al massimo (precario); se uno è morto, invece, è morto per sempre (di ruolo).
Benché, sopra, ci siamo sforzati di adattare all'equazione i termini prescritti dalla nuova normativa (tempo determinato, tempo indeterminato), risulta evidente che non è la stessa cosa. La gloriosa diade, ancorché sorpassata, si presta in modo meraviglioso a esprimere, con felice sintesi, lo stato, passeggero o duraturo, del genere umano nella sua globalità.
Per questo ci appelliamo fiduciosi alla nostra Amministrazione, nelle Sue Sedi Centrali, Decentrate e Periferiche, perché non vada perso, non vada tristemente e desolatamente perso il cospicuo patrimonio esegetico, e la poderosa capacità definitoria, della cara, buona, vecchia coppia: precari e di ruolo. Grazie.

19/10/2001

Rosario Drago