LA RESPONSABILITA’ E LA SCUOLA

memoria per il gruppo che intende definire i criteri per un codice deontologico


di Marco Rossi Doria

E’ da qui che si deve partire ben prima che da un codice……

Il mondo in cui era collocata la scuola nel secolo appena concluso è cambiato per sempre.

Dobbiamo pensare a come comportarci da educatori nel nostro tempo. Dobbiamo avere un’idea di scuola in mezzo ad un mondo nuovo e difficile. E questa idea la si può costruire certamente in modi diversi e, tuttavia, ognuno deve riconoscere che la scuola è forse l’organizzazione sociale che ha, più di ogni altra (sì, anche più della sanità), al suo centro, il fattore umano poiché modi, strumenti e risultati dei processi che vi hanno luogo sono essenzialmente umani e relazionali.

E’ da qui che si deve partire ben prima che da un codice.

La scuola pubblica italiana, che, nel corso della sua storia, è stata, forse, il più potente fattore di promozione sociale che l’Italia abbia conosciuto, aveva intorno, fino a qualche lustro fa, una società stabile e ordinata secondo valori e modi educativi radicati.

Oggi è chiamata a nuove sfide. …

Abbiamo perso cose che l’umanità ha costruito e conservato per millenni

Abbiamo perso cose che l’umanità ha costruito e conservato per millenni, comuni a tutte le società umane, cose che davano senso stesso all’accompagnamento e guida alla crescita delle nuove generazioni e che non riusciamo a sostituire.

Le comunità non esercitano più la sapiente ripetizione di alcune certezze che accompagnano la crescita: stabilità delle figure adulte di riferimento, .., riti di passaggio e di iniziazione graduati per età e un percorso di prove protette eppure vere di vita e di sfide nel mezzo dell’infanzia e dell’adolescenza, le liturgie prese seriamente e condivise dalla comunità e dal gruppo dei pari di età, i tanti gesti replicati secondo ritmi rallentati lungo le giornate, le settimane, i mesi, le festività e l’ascolto di storie e memorie raccontate…….

Sono cose che strutturavano la persona, davano a ognuno identità e posto al mondo e contribuivano a creare uno spazio interno sufficientemente largo per potere contenere le speranze e le pene.

Il naturale narcisismo di ogni persona in crescita trovava un limite codificato che permetteva di misurare sogni e ambizioni con richieste espresse in modo relativamente chiaro dal mondo adulto …..

Oggi tutto questo è fortemente indebolito e traspare, soprattutto in adolescenza, una spinta caotica alla competizione smisurata in risposta al ripetersi di una richiesta di prestazione individuale e di successo tendenti all’assoluto e quantificabile subito e spesso in termini direttamente economici, espressi in denaro. Il narcisismo naturale è sempre meno definito da limiti. Anzi, vengono costantemente suggerite attese senza limiti e viene sminuito lo spazio e il tempo dedicati alla costruzione del sé ma, contemporaneamente, il mondo mostra tutto intorno limiti terribili quali l’aids, le guerre, la mancanza di lavoro, ecc.

La costruzione del sé attraverso un rinforzo realistico è un processo oggi più difficile. Aumentano le tensioni o verso l’onnipotente irraggiungibile o, al contrario, in modo speculare, verso la rinuncia e lo stato di attesa, spesso depressiva.

Appare, insomma, molto più complicata di un tempo, per i nostri ragazzi/e, la costruzione di identità attraverso la progressiva e guidata trasformazione del narcisismo in realistici progetti di vita.

Le aule e i corridoi delle nostre scuole, le palestre sportive e tutti i luoghi dove i ragazzi vivono e apprendono sono segnati da questa chiara fatica di crescere e nel crescere.

E’ anche di fronte a questo che ci troviamo noi docenti.

Tanto è vero che ci troviamo ogni giorno davanti alle sempre più diffuse ed estreme sofferenze che tutto questo ingenera: bullismo, anoressia, diffusione di droghe sono ovunque in aumento e vivono nella scuola come punte di una curva gaussiana che ha una base di disagio larghissima.

Il vuoto dovuto alla perdita di antiche certezze si accompagna, tuttavia, a grandi conquiste nei diritti

Il vuoto dovuto alla perdita di cornici educative certe si accompagna, tuttavia, a grandi conquiste nei diritti e nelle possibilità per le nuove generazioni.

E il governo delle molte nuove possibilità, dei diritti e dei saperi sempre più estesi e articolati ma anche delle perdite di orizzonti pesano sulla scuola entro un intreccio molto complesso, che suggerisce – a chi a scuola insegna e educa – nuove e ricchissime prospettive e, insieme, sentimenti di incertezza, paura, inadeguatezza, isolamento che inducono a cautele, dubbio, senso di impotenza.

Orientarsi è davvero difficile.

La questione del come guidare le giovani generazioni è una delle decisive questioni che disegnano oggi il disagio della civiltà ed è questione che riguarda, da tempo, il mondo intero e segnatamente tutte le società sviluppate ma, nel nostro paese, è relativamente recente.

Per quanto ci si rivolga alla famiglia, alle comunità religiose, all’esperienza sportiva, ecc., la principale richiesta di tenuta del campo educativo complessivo viene rivolta alla scuola pubblica e ai suoi docenti.

La responsabilità collettiva dei docenti

Noi docenti siamo, dunque, davanti a una grande responsabilità collettiva: non possiamo voltarci dall’altra parte dinanzi alla richiesta pressante della presenza di una sponda adulta ben più ampia di quella rappresentata da una buona o da un buon insegnante di un tempo; …

Contemporaneamente ci misuriamo con un orizzonte di sapere rapidamente in crescita e con un’enorme estensione delle opportunità e dei diritti:

  • la città, la nazione, l’Unione Europea, il mondo sono luoghi percorribili per apprendere quasi per ogni nostro ragazzo,
  • le mani e la mente, il pensiero e la produzione sono nuovamente ravvicinati in tutti i processi di apprendimento,
  • il tempo per apprendere non è più ristretto a una sola stagione della vita.

La protezione autoreferenziale di una scuola dai compiti forse ben enucleati e delimitati in astratto ma non rispondenti alla relazione educativa chiesta dalle persone in crescita e dal nostro tempo, …..non possono arginare a lungo la sfida che viene dalle cose …

Il campo delle responsabilità educative farà davvero fatica a riflettersi adeguatamente in un codice deontologico.

Né appare adeguata la soluzione della sola protesta che, di governo in governo, una parte dei docenti sceglie per dare parola alle difficoltà.

E tutto questo è ancor più vero dinanzi ai terribili eventi planetari che mostrano un tempo assai più incerto di quello vissuto dalle ultime generazioni, in cui guidare e orientare implica ulteriori e ancor più ampie responsabilità.

Viene alla mente una frase di Hannah Arendt a proposito dell’educare e dei doveri che comporta:

"Gli educatori rappresentano di fronte al giovane un mondo del quale devono dichiararsi responsabili anche se non l’hanno fatto loro e anche se lo desiderano diverso. Questa responsabilità è implicita nel fatto che gli adulti introducono i giovani in un mondo che cambia di continuo. L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto di quel mondo si assume la responsabilità."

Un vertice da cui guardare alla questione deontologica

Il vertice, da cui guardo, da anni, alle cose della scuola e dell’educazione è quello degli esclusi dalla scuola. Ed è, al contempo, quello che viene principalmente da una comunità di pratiche educative. Infatti, nella mia esperienza ma – credo – in quella di ognuno che fa scuola per bene, il senso, la forza della vita professionale esiste certamente in relazione al senso di responsabilità individuale rispetto al compito di educare ma prioritariamente e soprattutto in relazione alla comune impresa educativa, alla sua valenza sociale, costruita giorno per giorno insieme ad altri educatori, appunto, in modo altamente artigianale.

Lo so: il nostro è un punto di vista parziale. E’ il punto di osservazione che parte dalla relazione quotidiana con chi è fuori dal cerchio protetto della nostra società….

In ogni caso, è forse anche bene ricordare che il punto di osservazione che guarda alla scuola dal lato di chi ne è escluso, è qualcosa di fortemente vitale per tutta la scuola perché, seppure nato da una parte, … contribuisce a una visione globale, davvero molto larga.

Tale punto di osservazione, infatti, per un verso, vuole rendere effettivamente godibili un insieme di diritti non goduti eppure sanciti dalla Convenzione Internazionale dei Diritti dell’infanzia di New York che il nostro Parlamento ha reso legge dello Stato con voto unanime (legge 27/5/1991 n.° 179) e che, dunque, li ratifica e recepisce pienamente nel nostro ordinamento e li indica quale grande cornice culturale e di diritto a cui tutti gli insegnanti devono e possono richiamarsi nonché dalla Costituzione e da molte leggi tese a promuovere l’inclusione sociale e le opportunità formative.

Per altro verso, tale punto di osservazione mette inevitabilmente in discussione l’intero castello dell’Istruzione italiana. Non solo nel senso che segnala le criticità dell’intero suo impianto ma anche nel senso che suggerisce strade nuove, cure, soluzioni…. E, del resto, chiunque ne sappia un po’ di storia della pedagogia sa riconoscere che spesso è stata la scuola estrema a scoprire cose per tutta la scuola. La pedagogia che faticosamente pratichiamo a Chance credo che possa segnalare, con molta forza, cose importanti sul profilo professionale dei docenti, ma insegna soprattutto che la relazione educativa è il centro della scuola che funziona.

La scuola è per le giovani persone che vanno a scuola

Siamo, dunque, un team di professionisti, specialisti dell’apprendimento, impegnati per l’Istruzione pubblica che hanno, al tempo stesso, intrapreso una specifica, non semplice fatica, di ricostruire sperimentalmente la possibilità dell’istruzione tra chi, giovanissimo, si trova già escluso, una possibilità fondata sulla fortissima integrazione tra istruzione e formazione, che si basa sulla cura paziente, ogni giorno, dei percorsi educativi, appunto integrati, per tanti singoli ragazzi e ragazze che si trovano già fuori da molte opportunità della vita: Mario, Anna, Luigi, Antonio, Assunta ………. e tante, tanti altri.

I nomi, le persone, i visi, i gesti, le storie sono le cose che per noi contano.

Non dimentichiamo mai che la scuola è soprattutto per le giovani persone che vanno a scuola.

Quello che impariamo ogni giorno dalla relazione educativa con i ragazzi e le ragazze e, poi, gli uni dagli altri – tra noi docenti, con i nostri dirigenti scolastici, con gli operatori sociali, con gli psicologi che fanno da sostegno al nostro lavoro di cura e relazione e con le altre figure di formatori con cui lavoriamo gomito a gomito – rappresenta il sangue e i nervi della nostra azione: il nostro sapere professionale deriva e ha senso in questa fatica che è, insieme, per ciascuno di noi, educare e apprendere a nostra volta.

Accettare la comune fatica dell’incertezza e della difficile costruzione dell’etica della responsabilità

C’è, in tutto questo – credo – materiale davvero interessante per una riflessione deontologica – una riflessione che riprenda il termine deontology a partire dal fondatore Jeremy Bentham: una volta stabilito un nesso tra l’utile e il bene è possibile e necessario discutere nel merito e dell’utile e del bene.

In campo educativo questa prospettiva riporta tutto, inevitabilmente, non già a una serie di precetti fissati una volta per sempre, fondati su una scienza normativa, quale quella di un "ente che sia perfetto", come suggeriva Rosmini, bensì a un comportamento, da scoprire e ri-inventare ogni volta, che vada verso la difficile ricomposizione del conflitto tra interesse individuale e collettivo e verso la costruzione di identità individuale e collettiva, un comportamento in cui la forza della presa in carico adulta si deve misurare, ogni volta e ogni giorno, con la difficoltà del compito educativo di fronte al quale ci si trova.

E’ un compito per il quale un’intera comunità di pratiche deve saper utilizzare, in modo integrato:

  • competenze disciplinari aggiornate,
  • costanza della mediazione comunicativa e culturale gestita in molte direzioni,
  • competenze psico-pedagogiche e relazionali,
  • competenze organizzative e di costruzione di impresa pedagogica attenta a processi e prodotti.

 

E entro questo moto complesso - e non a partire da un insieme di precetti fermi - che l’educatore, nel concreto della sua azione a scuola, deve e può trovare il tempo, la curiosità etica, l’ambizione fattiva, l’intelligenza di darsi delle regole.

E’ quanto meno discutibile, dunque, che il lavoro di un gruppo sulla deontologia a scuola si possa concentrare prioritariamente intorno a temi giuridici, possa indagare soprattutto su come costruire norma in modo stabile, lasciando, così, sullo sfondo la relazione educativa per come essa si manifesta, nei fatti, entro il lavoro vivo del fare scuola.

Tutta la materia richiama, invece, un’opera aperta, incerta, ogni volta arrischiata e un’opera creata a più mani.

Trovare un codice che fermi questa ben più ampia opera mi sembra un compito irrealizzabile e anche una riduzione, falsamente rassicurante, del mestiere di educare. Per chi sta in mezzo al lavoro educativo appare qualcosa che serva per lenire il senso di difficoltà e buona per salvarsi l’anima, non per rimboccarsi le maniche.

Governare l’incertezza…

Ma, dunque, qualcosa va detto anche sull’inevitabile incertezza che questo mestiere porta con sé e che l’educatore deve poter sostenere. Del resto, è del governo dell’incertezza che parla ogni pedagogia sapiente.

Un nome per questo governo l’ha, forse, trovato, involontariamente, un sociologo, Giovan Francesco Lanzara, in un bel libro sulla competenza progettuale e i modelli di intervento nelle organizzazioni……….. Il libro ci parla della capacità di pensare ed agire attraverso contesti…..del potenziale "generativo di senso" che l’azione porta con sé.

Sono le persone in azione – nel nostro caso i docenti– che rivelano come questa qualità generativa sappia indicare una competenza grande in chi ne fa uso. Questa dote – dice Lanzara - il poeta John Keats l’ha definita Negative Capability:

"…quando l’uomo è capace di stare nelle incertezze, nei Misteri, nei dubbi senza essere impaziente di pervenire subito a fatti e a ragioni".

Penso che dobbiamo riconoscere - nell’arte di pensare e fare scuola - questa dote, questa capacità.

E’ straordinaria la corrispondenza che questa capacità ha con una serie di life skills – le abilità per la vita – che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Unicef e l’Unesco considerano obiettivi dell’educazione per tutti i ragazzi e le ragazze del pianeta, in ogni contesto culturale.

Ed è parimenti straordinaria la corrispondenza tra questa capacità di "stare nel vivo del contesto eppure scegliere, guidare, prendere posizione pur nelle incertezze" e le competenze che - da tempo e da più parti - la letteratura individua come decisive per la costruzione di una nuova cittadinanza.

In un libro di Richard Sennett del 1966 - Uses of Disorder: Personal Identity and City Life, si dice:

"Il primo segreto di una "buona città" sta nell'offrire alla gente la possibilità di assumersi la responsabilità dei propri atti in una "società storicamente imprevedibile", e non in un "mondo di sogno, di armonia e di ordine prestabiliti. (...) Possono affrontare le loro responsabilità solo coloro che sono divenuti maestri nell'arte difficile di agire in un quadro di ambivalenze e incertezze, nate dalla diversità e dalla varietà. Sono persone moralmente mature quegli esseri umani che crescono "avendo bisogno dell'ignoto, sentendosi non completi senza una certa anarchia nella propria vita" - coloro che imparano ad "amare 'l'altro' che è tra di essi….".

Questa corrispondenza tra arte del pensare la scuola e fare scuola e quella di imparare a essere cittadini nel mezzo dell’incertezza ci dice che docenti, educatori, ragazzi e cittadini tutti possano vivere in una polis in cui il dovere va strenuamente cercato ma entro la complessità del contesto, in modo aperto e senza illudersi che l’etica della responsabilità possa essere prioritariamente determinata e stabilita dalla parola scritta.

Un sistema di patti

Sarebbe oggi utile, invece, pensare ad un sistema di patti più leggeri ma non per questo meno impegnativi, a un esercizio condiviso e costante di costruzione della responsabilità nella scuola.

Sempre le Nazioni Unite ci indicano nei percorsi di empowerment le metodiche atte alla graduale assunzione di responsabilità crescenti da parte di gruppi di educatori ed operatori: sono percorsi che si fondano sul potenziamento delle risorse umane, sulla crescita dei gruppi in azione.

La scuola pubblica potrebbe agire anziché per codici, per spore, attraverso la diffusione di buone pratiche il cui innesto entro il corpo della scuola dovrebbe essere favorito grazie a un’intelaiatura di supporto, uno scaffolding di sostegno che ne curi la ricettività, replicabilità e modellizzazione entro nuovi contesti.

Del resto va anche e finalmente riconosciuto che quel che di più vivo e ricco vi è stato e che è in azione oggi nella scuola italiana è partito da gruppi di docenti che hanno saputo assumere in proprio un ruolo competente e responsabile, costruendo le esperienze pedagogiche migliori che abbiamo e dedicandosi a una loro accorta manutenzione nel tempo.

Le esperienze che funzionano rappresentano altrettanti percorsi che, comunque ispirati, sono sempre partiti per libera scelta e non grazie a un codice: così è, nel piccolo e nel grande, nelle scuole d’Italia.

Sebbene siamo – credo – tutti coscienti di vivere entro una società in cui è debole la cultura che presta attenzione ai risultati, sarebbe, tuttavia, opportuno concentrare la riflessione teorica e anche organizzativa sul come diffondere invece che sul come dovrebbe essere. Peraltro non è questo l’approccio della migliore cultura imprenditoriale, quella che sostiene e premia la dimensione, appunto, dell’intraprendere e del rinnovare rispetto alla statica dello stabilire?

Vengono alla mente i versi di Kuan Tzu che, forse, ci dicono qualcosa, insieme, sull’insegnare e sul processo di costruzione di responsabilità:

"Se date un pesce a un uomo farà un solo pasto,

se gli insegnate a pescare, mangerà per tutta la vita"

In ogni caso, non è facile immaginare uno Stato liberale e fondato sul consenso che abbia la scuola retta da docenti che seguono un codice fisso, magari stabilito altrove rispetto a dove essi operano e assumono responsabilità concrete.

E non è facile immaginare un codice che, a sua volta, per potere funzionare, abbia bisogno di contemplare una casistica sterminata di eventi e circostanze e che, a ogni accadimento della vita educativa, rischi di essere smentito e di perdere la stessa autorevolezza su cui pretenderebbe di fondarsi.

In una "società storicamente imprevedibile", in un paese che, per profonde ragioni culturali e circostanze storiche ha una manque di senso diffuso della responsabilità civile e che soffre della malattia della superfetazione di leggi e dispositivi normativi, così spesso ritualmente disattesi, è più saggio rivolgere lo sguardo alla cultura del patto informale tra cittadini.

Bisogna accettare il rischio della costruzione progressiva di responsabilità, che possa partire su principi di civiltà che sappiano fondarsi innanzitutto sulla legge non scritta, sull’accordo informale ma forte tra chi vive insieme gli spazi educativi della scuola e della città: patto tra educatori, patti educativi pensati dai ragazzi, grazie al lavoro educativo della scuola e delle famiglie, che possano determinarsi progressivamente attraverso la faticosa costruzione dei progetti di vita di ciascuno, patti di cittadinanza legati alle comunità educativa, al quartiere, alla città, in un evidente rimando tra forme organizzative e saperi.

E a questi patti costruiti nel vivo delle relazioni, fondati sul principio della concorde adesione, che, poi, si deve dare voce scritta, ma in modo non definitivo né chiuso né valido sempre e ovunque.

E’ probabile che a rafforzare questi percorsi, impegnativi ma aperti, di costruzione della responsabilità educativa possano venire – come già accade - i contributi delle associazioni dei docenti, le riflessioni dei gruppi più avvertiti e, soprattutto, un auspicabile moltiplicarsi di intese inter-istituzionali tra i diversi attori della scuola dell’autonomia e, insieme, del federalismo a cui vengono oggi riconosciute sempre più ampie competenze in campo educativo: consorzi tra scuole e tra scuole e altre agenzie educative, comuni, province, regioni.

Nel nostro paese è già possibile creare reti di responsabilità educativa che vadano ben oltre un’idea di processo di apprendimento chiuso entro ogni distinta scuola, ogni distinta classe. Vi sono centinaia di esempi che si muovono in tale direzione.

Da questo punto di vista il possibile modello italiano – una volta scartata la via angusta dell’ordine professionale che risponde a un codice - non è nemmeno quello più arioso dei General councils britannici ma forse, appunto, quello di un moltiplicarsi di patti educativi capaci, col tempo, di integrarsi ed espandere l’assunzione responsabile di regole per concorde adesione.

Una cosa è certa: non si può dire a parole "federalismo" e, contemporaneamente, aspirare a un unico, centralistico regolatore educativo.

La sfida della libertà

Si può certamente storcere il naso, essere scettici circa la realizzabilità di una simile prospettiva e dunque di un comportamento degli insegnanti che se ne sappia fare carico.

Ma è tempo anche di domandarsi: l’alternativa qual è?

Ci sono dei passaggi cruciali nella vita delle grandi istituzioni, come in quella delle persone. Oggi la scuola italiana è a uno di questi passaggi e lo è il fare scuola di centinaia di migliaia di docenti posti davanti al nuovo.

C’è una ragione che dovrebbe comunque spingerci oltre: così come stiamo – legati a un’idea di scuola basata sul singolo docente della sua materia, spesso congelata a un momento determinato dello sviluppo dei fondamenti che la costituiscono - una scuola ferma nello spazio e nel tempo - non riusciamo a rispondere a nessuna delle sfide che vediamo davanti.

Ma c’è anche una grande ragione in positivo, una motivazione forte per cambiare: produrre un nuovo, autentico contesto di significato per i docenti e gli studenti poiché non si può più difendere e conservare ancora a lungo un tipo di istruzione obsoleta, autoreferenziale, in-sensata.

Questo possibile nuovo contesto non è solo per gli studenti, è anche per i docenti che devono poter vivere la scuola come un contesto "salvo" di ripensamento di pezzi di cultura, di incontro tra generazioni e di misura anche del proprio essere persone e cittadini, in una dimensione più ecologica del fare scuola, in cui rinasca lo spazio della soddisfazione per le imprese compiute insieme e del piacere di fare bene.

Perché ciò sia deve poter essere fortemente presente un selettore fondamentale: la libertà.

Infatti la responsabilità ha senso e peso solo se c’è libertà di ideazione, assunzione di compito, proposta e progettazione, azione nel tempo e nello spazio, gestione organizzativa e finanziaria, manutenzione.

Diffondere le migliori pratiche

Eppure, nel nostro paese, un rinnovamento è da tempo in atto. Anzi, ogni volta che si costruiscono opportunità ben strutturate di valutazione dei percorsi e di osservazione e modificazione del proprio operare pedagogico, si ottengono risultati incoraggianti.

Sappiamo già che la libertà di sperimentare il nuovo produce frutti.

Del resto, da molti lustri, c’è una esperienza ricca di scuola viva, in cui è piacevole imparare e insegnare, che crea modelli pedagogici alti, capace, da sola, di costanza nell’innovazione.

Sì, c'è un grande bisogno di ritrovare un senso di andare a scuola per gli studenti, ma anche per i docenti.

E lo si vede quando le scuole si muovono in avanti. Non si tratta solo di esperienze cosiddette "di punta" e pienamente codificate: si tratta di linee pedagogiche che attraversano tante scuole, di migliaia di docenti che studiano, che sanno guardarsi e migliorare con grande serietà intellettuale e competenza. E’ un patrimonio a cui va dato spazio proprio nella battaglia per costruire patti educativi tra docenti e con tutto ciò che gli sta intorno, secondo la logica – seguita da tutte le grandi organizzazioni sovra nazionali - delle migliori pratiche, best practices, da modellizzare e generalizzare in modo partecipato, creativo, aperto.

Al centro di questo patrimonio vi sono alcune questioni cruciali che vanno ricordate e che devono restare la bussola per la costruzione condivisa di patti educativi :

  • la cura attenta della relazione educativa,
  • i contenuti e le operazioni che ogni studente dovrà essere messo in grado di fare per dare senso al proprio apprendimento e renderlo davvero spendibile socialmente,
  • l’attenzione alla costruzione di identità che veda nella scuola una autentica palestra di impresa- intesa come luogo di costruzione di azioni nel mondo e anche dentro se stessi e di ricostruzione della storia e della propria storia.

 

Quando queste questioni vengono messe sul tappeto nelle scuole, crescono, insieme, libertà e responsabilità.

Ma c’è uno scandalo da cui non è ammissibile prescindere

Ma c’è uno scandalo da cui non è ammissibile prescindere.

E’ noto che nel nostro paese gli adolescenti esclusi dalla scuola sono moltissimi, tra gli 80.000 e i 100.000 ogni anno.

Si tratta di uno scandalo, nel senso più nobile e terribile del termine: sconvolgimento della coscienza, della sensibilità…..

Sì, a fronte di un esercito di quasi novecentomila addetti all’Istruzione Pubblica, l’Italia – grande potenza mondiale – perde centomila ragazzi ogni anno.

Questo scandalo è spesso richiamato nei dispositivi di legge, nelle memorie degli uffici centrali e periferici, nei documenti sindacali, della Confindustria, delle associazioni di categoria, della Chiesa, dell’Osservatorio Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza e, ritualmente, viene nominato in un paragrafo, qui o lì messo, di quasi ogni scritto che si occupi di scuola; è sempre ricordato nei progetti di tantissime scuole così come nei moltissimi dispositivi che li ispirano.

Prende nomi che cambiano nel tempo: abbandono, disattesa o dispersione scolastica, fallimento formativo….

Viene evocato quando la cronaca ci consegna tremende notizie su nostri ragazzi di tredici, quattordici, quindici anni sofferenti, perduti o morti o quando gli studi di settore vengono resi ogni anno pubblici e mostrano le inconfutabili grandezze dello scandalo.

Ma non è stata costruita una rete nazionale di scuole o di esperienze della seconda opportunità – come, invece, è accaduto in altri posti del mondo - né è stata indicata una qualche authority che riunisse e sostenesse le molte agenzie e competenze, come pure accade altrove; oltre i molti seminari e convegni e le migliaia di occasioni formative per i docenti su questo tema, non c’è stata una seria, grande chiamata alla riflessione nazionale – da parte delle Istituzioni - su questa perdita di decine di migliaia di persone all’istruzione di base e alla formazione in così giovane età che è, insieme, perdita delle coscienze di tutti noi docenti ed educatori italiani.

Tanto meno esiste un organico Piano che dia indirizzo alle scuole dell’autonomia e che sappia prendere su di sé il peso e la responsabilità piena dello scandalo, capovolgendone il significato in azione positiva e propositiva.

I miei colleghi ed io abbiamo avuto modo, nel corso di questi anni di battaglie intorno a questo scandalo, di apprezzare spezzoni di iniziative che, tuttavia, hanno, ogni volta, deluso le due condizioni insostituibili per ogni speranza di successo che sono:

  • la continuità nel tempo degli interventi
  • il coordinamento costante.

La storia delle aspettative disattese su questo fronte andrebbe scritta con cura perché insegna molto sulla curiosa ma innegabile relazione che c’è tra l’incostanza delle misure istituzionali e la perdita di occasioni di istruzione di base per tante migliaia di nostri ragazzi.

E’ una relazione che rivela, amaramente, anche un poderoso intreccio di responsabilità che riguardano ciascuno, che non sono identificabili solo nelle Istituzioni astrattamente intese ma "nelle persone che si occupano di " – dunque in ogni membro del cosiddetto personale della scuola, sindacalisti, volontari, imprenditori, tutti noi compresi, nessuno escluso.

La nostra esperienza e osservazione ci dicono che la deontologia del sistema-scuola e, insieme, di tutte le professioni legate all’educazione ha a che vedere direttamente con questo scandalo.

E’ pur vero, però, che esiste il principio della responsabilità politica.

Tutto il mondo politico riconosce, da molti lustri, la verità di questo scandalo……...
Ma nessun governo lo ha saputo guardare davvero negli occhi né ha davvero pensato al come affrontarlo.
E nessuna opposizione ha sollevato questo scandalo a grande questione nazionale.
Nessuno.
Né si sono sentite levare al cielo, con suono adeguato, le trombe della protesta sindacale.

E non è vero che il sistema Italia e la scuola pubblica italiana ne siano, per definizione, incapaci. Tanto è che tutti i bambini oggi frequentano la scuola elementare, cosa che non avveniva venti anni fa’. Siamo, quindi, capaci di affrontare grandi imprese nel campo dell’educazione di base. Ma non ci stiamo ponendo questo compito oggi.

E questo scandalo ha luogo non in un paese incompetente in questo campo bensì in un paese che ha migliaia di ottimi docenti già instancabilmente e da anni e anni al lavoro su questo fronte ma che si sentono lasciati soli, in un paese che ha un’ampia tradizione, studi importanti e aggiornati, uffici che conservano, con testardo senso della testimonianza civile, i dati e la memoria di questa grande, scandalosa vicenda italiana e, ancora, esperienze pilota riconosciute ovunque, tra cui la nostra ma non solo la nostra.

Eppure, non si riesce a stabilire una grande priorità nazionale e la concertazione forte tra tutti gli attori interessati non trova alcun tavolo: l’apertura di una battaglia di civiltà contro questo nostro scandalo interno non avviene nella misura tale da poter pesare e da poter determinare un significativo cambiamento.

Quando si perdono, in un modo o in un altro, due ragazzi su dieci a un decoroso percorso di istruzione e formazione - in un paese pienamente sviluppato e che ha un’immensa, millenaria tradizione culturale - di quale Scuola stiamo parlando?

Dopo anni di osservazione, temo che la mancata reazione al fallimento formativo di massa sia anche favorita da un potente rimosso collettivo, una vergogna che impedisce di prendere misura e misure su cosa sia la relazione a scuola, tra adulti educatori e ragazzi e ragazze.

Lo dico con tristezza e senza alcuna faziosità perché è questa una questione che non consente parzialità politica di sorta e per la sua gravità e perché nessuno può dirsi innocente.

Forse questo è – in una società che nessuno pretende che diventi compiutamente giusta ma semplicemente decente – uno dei quattro terribili scandali, insieme alla sistematica distruzione del nostro ambiente, alla disoccupazione cronica di massa – a cui, pure, è sempre più legato lo scandalo del fallimento dell’istruzione e della formazione - e insieme alla mancata accoglienza civile degli immigrati da parte di una nazione di emigranti nella quale ogni famiglia ha gente che vive altrove nel mondo e che ha contribuito a costruire altri mondi…..

Quando i ragazzi e le ragazze ci chiedono conto di queste cose, a cui è faticoso ma possibile dare soluzione e non genericamente del mondo imperfetto in cui viviamo, come rispondiamo noi tutti, con quale onore deontologico?

Per il rispetto che porto alle Istituzioni voglio dirlo con assoluta sincerità: aldilà della opportunità o meno di un codice deontologico, che io non considero una buona soluzione per le ragioni che ho qui espresso, ragionare della professionalità docente in modo neutro, separato o esterno rispetto allo scandalo del fallimento formativo di massa, per me, non ha alcun senso.

In un sistema di patti, ci vuole un patto d’onore del sistema-scuola intorno a questa battaglia – che abbia il segno della First Priority - che dia nuovo senso alla stessa parola professionalità.