UN
LIBRO DA LEGGERE Fresco di libreria un libro che dovremmo leggere: Raffaele Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo (Laterza, pagg. 152, lire 22.000). Ve lo proponiamo attraverso questo articolo di Umberto Galimberti comparso nella sezione Cultura di la Repubblica del 21 Febbraio. Sui temi affrontati segue un contributo di Alessandro Rabbone comparso sulla lista didaweb. |
Le rivoluzioni dell’homo
videns
Con
l’avvento di tv e computer è finita la lunga epoca del "sapiens"
che si formava soprattutto leggendo.
Sostiene
Raffaele Simone, in un libro appena uscito, che dopo la scrittura e la stampa
siamo ora giunti ad una terza fase nella quale accade che molte cose si imparino non dai libri, ma per averle viste o sentite.
La
scuola è un problema anche perché negli ultimi 30 anni ha trascurato questo
mutamento radicale seguitando a privilegiare metodi di apprendimento
tradizionali, quasi al riparo del nuovo. Cambiare non sarà facile
di
Umberto Galimberti
Prima
la televisione e poi il computer, questi “elettrodomestici gentili” come
vuole la loro iniziale reputazione, oggi hanno gettato la maschera rivelandosi
per quel che sono: i più
formidabili condizionatori di pensiero, non nel senso che ci dicono cosa
dobbiamo pensare, ma nel senso che modificano in modo radicale il nostro modo di
pensare, trasformandolo da analitico, strutturato, sequenziale e referenziale,
in generico, vago, globale, olistico. Questa trasformazione non è
necessariamente un guaio. Il
pensiero analitico ha duemilacinquecento anni di storia che coincide con la
storia dell’Occidente. Prima non si pensava in modo analitico e sequenziale,
ma olistico e globale, e oggi, grazie alla televisione e al computer, si torna a
pensare in quel modo.
Le
conseguenze sono già visibili nella nostra scuola, che nessuna riforma può
migliorare se prima non ci si rende conto di questa trasformazione che pone in
conflitto la cultura della scuola con la cultura dei giovani. La scuola educa
all’analiticità, al controllo linguistico, all’esplicitazione verbale, alla
consequenzialità proposizionale, allo spirito critico, alla necessità di
tradurre in parole il proprio mondo interiore e la propria esperienza. Rispetto
a questo modello, la cultura giovanile è quanto di più dissonante vi possa
essere, perché all’esplicitazione verbale preferisce l’allusione, così
come predilige l’esperienza vissuta all’analisi dell’esperienza e alla sua
nominazione.
Per
i giovani le esperienze è meglio averle, viverle, rievocarle che raccontarle
analiticamente e tradurle in strutture discorsive, per cui andare a scuola
finisce con l’essere una finzione, quando non una penitenza, finita la quale,
si può tornare alla realtà vera e autentica che non si articola in
proposizioni verbali, ma in emozioni totali, come la musica, ad esempio, che non
è una materia scolastica, ma qualcosa di infinitamente più profondo e
coinvolgente, che accomuna una cultura all’altra, mettendo in secondo piano la
differenza linguistica e la sua articolazione proposizionale.
Leggo
queste cose in un bellissimo libro di Raffaele
Simone, La terza fase. Forme di
sapere che stiamo perdendo (Laterza, pagg. 152, lire 22.000). La prima fase coincise con l’invenzione della scrittura
che permise di dare stabilità alle conoscenze che sono un patrimonio fragile,
delicato, sempre esposto al rischio di andare perduto. La seconda
fase si aprì venti secoli dopo con l’invenzione della stampa che fece del libro, fino allora costosissimo e non riproducibile,
un bene a basso costo e alla portata di tutti, che consentì a milioni di
persone di attingere a cose pensate da altri a immense distanze di tempo e di
spazio.
Negli
ultimi trent’anni siamo traghettati nella terza fase, dove le cose che sappiamo, dalle più elementari alle
più complesse, non le dobbiamo necessariamente al fatto di averle lette da
qualche parte, come accadeva fino a trent’anni fa, ma semplicemente al fatto
di averle viste in televisione,
al cinema, sullo schermo di un computer, oppure sentite dalla viva voce di qualcuno, dalla radio, o da un
amplificatore inserito nelle nostre orecchie e collegato a un walkman. A questo
punto sorgono spontanee le domande che Raffaele Simone opportunamente si pone:
come la trasformazione della strumentazione tecnica modifica il nostro modo di
pensare? E ancora: quali forme di sapere stiamo perdendo per effetto di questo
cambiamento?
Con
l’avvento della scrittura il vedere
acquistò un primato rispetto all’udire,
ma non lasciò senza cambiamenti la stessa vista che, da visione delle immagini
del mondo, dovette imparare a tradurre in significati una sequenza lineare di simboli visivi. Se leggo la parola
“cane”, la forma grafica della parola e quella fonica non hanno niente a che
fare con il cane, e allora la visione dei codici alfabetici comporta un
esercizio della mente che la visione per immagini non richiede. Ciò ha
comportato un passaggio da un tipo di intelligenza che Raffaele Simone chiama simultanea a quell’altro tipo di intelligenza considerata
più evoluta che è quella sequenziale.
L’intelligenza
simultanea è caratterizzata
dalla capacità di trattare nello stesso tempo più informazioni, senza però
essere in grado di stabilire una successione, una gerarchia e quindi un ordine.
E’ l’intelligenza che usiamo ad esempio quando guardiamo un quadro, dove
e’ impossibile dire che cosa in un quadro vada guardato prima e cosa dopo.
L’intelligenza sequenziale, invece, quella che usiamo per leggere, necessita
di una successione rigorosa e rigida che articola e analizza i codici grafici
disposti in linea.
Sull’intelligenza
sequenziale poggia quasi tutto il patrimonio di conoscenze dell’uomo
occidentale. Ma questo tipo di intelligenza, che fino a qualche anno fa sembrava
un progresso acquisito e definitivo, oggi sembra entrare in crisi ad opera di un
ritorno dell’intelligenza simultanea, più consona all’immagine che
all’alfabeto. Non a caso si assiste in tutto il mondo ad un arresto dell’alfabetizzazione
che da diversi anni non si schioda dal quel 47 per cento di analfabeti, per cui
sembra si rovesci quel processo, che sembrava irreversibile, che aveva portato
l’uomo dall’intelligenza simultanea a quella sequenziale. Radio, telefono e
televisione hanno riportato al primato l’udito
rispetto alla vista, e ricondotto la vista dalla decodificazione dei segni
grafici alla semplice percezione delle immagini che sugli schermi si susseguono,
con conseguente modificazione dell’intelligenza la quale, da una forma
evoluta, regredisce a una forma più elementare.
Naturalmente
guardare è piu’ facile che leggere
e quindi, cari amici del libro, apprestiamoci ad essere sempre più rari e, in
questo mondo mediatico, anche un po’ strani. L’homo
sapiens, capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti è,
come dice Raffaele Simone, sul punto di essere soppiantato dall’homo
videns che non e’ portatore di un pensiero, ma fruitore di immagini,
con conseguente “impoverimento del capire” dovuto, secondo Giovanni Sartori
(Homo videns. Televisione e
post-pensiero, Laterza, 1998) all’incremento del consumo di
televisione. E come è noto, una moltitudine che “non capisce” è il bene più
prezioso di cui può disporre chi ha interesse a manipolare le folle.
“Non ho letto il libro, ma ho visto il film”, così si giustifica la
gente che non legge. Ma quali segni di mutamento profondo nell’uso della
nostra mente nasconde questa semplice frasetta? Raffaele Simone ne elenca
alcuni: innanzitutto il ritmo mentale che nella lettura è autotrainato, nella
visione è eterotrainato dall’emittente, per cui chi guarda è costretto a
seguire il ritmo imposto dallo spettacolo. Ciò comporta una riduzione della correggibilità per cui chi guarda, a differenza di chi
legge, non può fermarsi per verificare se ha ben capito quel che ha visto. La
possibilità di fermarsi consente in ogni fase della lettura di richiamare la
nostra enciclopedia di
conoscenze precedenti, mentre la cosa non è consentita a chi vede, perché la
successione delle immagini, non lasciandogli il tempo, non glielo permette. La
concentrazione, il silenzio, la solitudine sono essenziali a chi legge, mentre
si può guardare collettivamente, convivialmente e addirittura facendo altre
cose. Condizioni, queste, che non
favoriscono per nulla la riflessione e l’approfondimento.
In
compenso la visione esercita la multisensorialità,
per cui se si perde quel che trasmette il canale uditivo è possibile seguire
quello visivo e viceversa, alla fine qualcosa rimarrà, e l’utente si sente da
questo rassicurato. Inoltre, a differenza della lettura, il carattere iconico
della visione, consente di afferrare a prima vista il proprio oggetto e
quindi di coinvolgere immediatamente l’emozione, che però cattura l’anima
senza il tempo di un’elaborazione. La “fatica di leggere” non può
competere con la “facilita’ di guardare”, e allora, rispetto al libro, la
televisione sarà il medium più
amichevole perché è quello che “dà meno da fare”.
Oggi
la scuola va male perché da trent’anni a questa parte ha a che fare sempre
meno con l’homo sapiens e sempre più con l’homo
videns, la cui mente finisce con l’essere diversamente conformata.
Ancora buona per conoscenze iniziali
complesse come la matematica, che si continua a imparare meglio a scuola
che fuori, la scuola va perdendo terreno ogni giorno di più perché, invece di
interagire con l’espansione esponenziale delle informazioni, superficiali
finché si vuole, ma comunque elementi di conoscenza messi a disposizione dai
media, sembra un rifugio in cui ci si rinchiude per essere protetti dal fluire
della conoscenza e dal suo accrescersi.
La
scuola infatti è cognitivamente lenta
finché si limita a trasmettere un pacchetto delimitato e statico di conoscenze
selezionate, e metodologicamente lenta
nella sua difficoltà ad accedere a quei luoghi di conoscenza che non sono solo
le enciclopedie e i vocabolari, ma le banche dati e i repertori. Per cui oggi la
scuola non è più il luogo della movimentazione della conoscenza, ma quello in
cui alcune conoscenze, dopo essere state trasmesse e classificate, si
sedentarizzano, stagionano, e si staticizzano.
Che
fare? Non lo so. Ma è già un passo avanti prender conoscenza di almeno due
cose: innanzitutto che l’intelligenza sequenziale, che finora ha
caratterizzato l’Occidente nella costruzione delle sue conoscenze, cede ogni
giorno di più il passo all’intelligenza simultanea, e in secondo luogo che la
scuola ha ormai a che fare con un universo giovanile che fatica enormemente di
più che in passato a seguire il carattere sequenziale dell’intelligenza a cui
la scuola affida quasi esclusivamente la trasmissione del suo sapere.
Per
i passaggi epocali non ci sono ricette pronte, ma sfide di pensiero e di
paziente sperimentazione. Mettiamoci al lavoro.
UN CONTRIBUTO AL DIBATTITO
Sul
tema
"Le rivoluzioni dell'homo
videns"
di
Alessandro Rabbone
Scrive
Galimberti:
"Con l’avvento di tv e computer è finita la
lunga epoca del “sapiens” che si formava soprattutto leggendo.
………………………………………….
i più formidabili condizionatori di pensiero, non
nel senso che ci dicono cosa dobbiamo pensare, ma nel senso che modificano in
modo radicale il nostro modo di pensare, trasformandolo da analitico,
strutturato, sequenziale e referenziale, in generico, vago, globale, olistico.
Questa trasformazione non è necessariamente un guaio.
Il pensiero analitico ha duemilacinquecento anni di storia che coincide
con la storia dell’Occidente. Prima non si pensava in modo analitico e
sequenziale, ma olistico e globale, e oggi, grazie alla televisione e al
computer, si torna a pensare in quel modo."
Non
certo per contraddire le tesi di Galimberti - Simone, ma per allargare un po’
lo spettro del discorso, vorrei ricordare altre interpretazioni in qualche modo
simili a questa, che prendono in considerazione i mutamenti di pensiero legati
all’invenzione della scrittura, alla diffusione della stampa e all’avvento
della tecnologia degli ultimi decenni. Mi riferisco a W. Ong (Oralità e
scrittura, il Mulino), che già più di dieci anni fa sottolineava
l’importanza dell’interiorizzazione psicologica di modelli
culturali-comunicativi riferiti ai tre momenti storici.
A
differenza di Galimberti, Ong fissa la sua attenzione non tanto sul
coinvolgimento percettivo dei sensi, quanto sulle modalità di comunicazione.
L’uomo occidentale passa così da una fase di cultura orale ad una alfabetica
che trova la sua massima espansione dopo l’invenzione del libro a stampa.
L’avvento dei media secondo Ong segna sì un ritorno ad un universo orale, ma
ad un’oralità “secondaria” (cioè mediata dall’esperienza alfabetica).
A differenza di quanto sembra sostenere Galimberti non si tratta dunque di un
ritorno al passato tout court, ma dell’ingresso in un mondo comunicativo
inedito...
Molto
chiaro, in questo senso, è l’esempio dell’uso del registratore vocale. Si
tratta senz’altro di uno strumento che ha a che fare con l’oralità e non
con la scrittura; eppure nell’usarlo noi mettiamo in funzione procedure e
“concetti” che abbiamo interiorizzato grazie alla pratica della lettura e
scrittura. Con il registratore possiamo fissare nel tempo e rendere disponibile
infinite volte una registrazione, esattamente come avviene con un testo scritto
e come non sarebbe invece possibile in una cultura di oralità “primaria”.
Allo stesso modo le icone del desktop del mio computer (o un semplice videogioco
per bambini), pur non avendo a che fare con i codici alfabetici strettamente
intesi, sono altrettanto lontane dalle rappresentazioni isomorfe delle culture
pre-alfabetiche e risulterebbero incomprensibili ad un analfabeta tanto quanto
le lettere dell’alfabeto.
La distinzione tra pensiero sequenziale (dell’homo sapiens) e pensiero simultaneo (dell’homo videns) è senz’altro verosimile, ma parrebbe corretto identificare quest’ultimo con il “pensiero reticolare”, che indubbiamente presenta aspetti di simultaneità?
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