Alcuni criteri per sviluppare la partecipazione attraverso il dibattito

Vi sono alcune competenze di base come la capacità di argomentare le proprie opinioni, di ascoltare le opinioni altrui, di convincere e di lasciarsi convincere, che sono alla base dell’educazione alla cittadinanza e alla cittadinanza democratica in particolare.
Vediamo come queste competenze si articolano un po’ più da vicino, fissando una serie di criteri che funzionino sia come regole che come punti di riferimento.

1. Primo criterio: diritto di parola

Il primo criterio indica che non ci devono essere preclusioni o censure  preventive, tutti i valori, tutte le idee e tutte le opinioni hanno cittadinanza e quindi diritto di parola. Anche se ci sono delle opinioni che qualcuno, o anche molti, possono considerare aberranti, non si può tappare la bocca a nessuno tacciandolo, ad esempio, di “razzismo” o di “fascismo”.
Non è improbabile che affiorino opinioni estreme quando, ad esempio, si discute se agli immigrati possa essere concessa la cittadinanza o il diritto di voto. I termini “vergogna” o “vergognoso” riferiti alle opinioni espresse da qualcuno dovrebbero essere censurati. Il dialogo non richiede necessariamente stima reciproca (si può legittimamente disprezzare chi ha opinioni diverse dalle proprie), ma richiede il rispetto del diritto di esprimere le proprie idee.
La possibilità di poter esprimere le proprie idee anche quando queste non sono condivise dalla maggioranza è un forte antidoto contro la tendenza a conformarsi, a seguire il gregge, il che vuol dire il più delle volte, accondiscendere alle opinioni imposte d’autorità. L’insegnante, senza forzare troppo, deve però assicurarsi che tutti i propri studenti esercitino il diritto di parola, frenando l’esuberanza dei coloro che parlano sempre e facilitando la partecipazione di coloro che tendenzialmente si mettono ai margini. Imparare a discutere vuol dire imparare delle regole che varranno poi sempre nella vita sia tra i colleghi di lavoro sia nelle riunioni di condominio. Il diritto di parola però è reciproco. Ognuno può parlare, ma tutti hanno il diritto di contraddirlo.

2. Secondo criterio: capacità di argomentazione

Il diritto di parola deve essere accompagnato dalla capacità di  argomentazione. Un conto è parlare per slogan, per frasi fatte, oppure saper “argomentare” facendo appello alla capacità di comprensione logico-razionale o emotivo-affettiva del o degli interlocutori.  Purtroppo, la popolazione italiana è esposta, attraverso il talk show televisivi ad dosi esorbitanti di comunicazione politica che costituiscono vere scuole di dis-educazione alla cittadinanza, soprattutto per quanto riguarda la qualità dell’argomentazione. La trasformazione del dibattito in spettacolo impone lo spot e la parola d’ordine, la continua sovrapposizione delle voci, la tendenza a svalutare e denigrare l’interlocutore. In breve, ostacola la “buona argomentazione” che faccia appello alla razionalità del pubblico piuttosto che alla sua emotività e ai suoi pregiudizi, utilizzando prove fattuali e ragionamenti coerenti e logicamente conseguenti. Gli stessi studenti possono essere addestrati ad elaborare criteri per distinguere buona da cattiva argomentazione in modo sia di valutare criticamente la comunicazione alla quale sono esposti, sia di adottare  modelli positivi nell’esercizio della propria capacità argomentativa. Invito qualche bravo linguista-semiotico a “smontare” le strutture argomentative di un talk show.

3. Terzo criterio: capacità di ascolto e possibilità di cambiare idea

L’argomentazione è uno strumento per convincere l’interlocutore. L’argomentazione presuppone però che vi sia dall’altra parte la capacità di ascolto, di lasciarsi convincere, e, a sua volta, di convincere. Il processo dialogico non funziona se non ammette la possibilità per entrambi gli interlocutori di cambiare idea, di mettersi - sia pure temporaneamente – dal punto di vista dell’altro. La disponibilità a cambiare idea, a modificare la propria posizione, implica l’abbandono della convinzione che vi sia un’unica verità, la propria. La democrazia è incompatibile con la certezza assoluta di essere nel giusto. Una ragionevole dose di dubbio, senza quindi cadere in un relativismo radicale, è un ingrediente indispensabile di un’educazione democratica alla cittadinanza.

4. Quarto criterio: prendere posizione di fronte a questioni controverse

La democrazia è, tra le altre cose, un modo per prendere decisioni di fronte a questioni “controverse”, che dividono l’opinione pubblica e le forze politiche. L’argomentazione, il dialogo, sono modi attraverso i quali i soggetti acquisiscono la capacità di “prendere posizione” di fronte a questioni controverse.  Se non ci fossero questioni controverse non ci sarebbe neppure bisogno della politica e della democrazia, basterebbe dare il potere di decidere agli esperti.  Alcuni esempi:<
  1. E’ controverso se ci sia un limite, e dove sia collocato, nella capacità di una comunità di accogliere una popolazioni di immigrati.
  2. E’ controverso se lo stato debba o meno contribuire al finanziamento delle scuole private, come sembrano suggerire interpretazioni diverse di una norma della nostra Costituzione.
  3. E’ controverso se sia meglio, per mettere in ordine i conti pubblici, alzare le tasse, ridurre la spesa pubblica, oppure ricorrere all’aumento del debito pubblico.
  4. E’ controverso se consentire l’unione civile di coppie dello stesso sesso e, in caso positivo, se sia ammissibile l’adozione dei figli pregressi di uno dei partner.
  5. E’ controverso stabilire in quale settimana dal concepimento sia legittima l’interruzione della gravidanza, cioè l’aborto.
  6. E’ controverso, per quanto riguarda la questione scottante dell’eutanasia definire il confine tra la cura e l’accanimento terapeutico.
   Sono tutte questioni che dividono gli animi e suscitano le passioni.

5) Quinto criterio: sviluppare la pedagogia della controversia

La scuola non può sottrarsi al compito di affrontare “questioni  controverse” (cioè, in ultima istanza, politiche). Tenere la politica fuori dalle aule scolastiche ha un prezzo troppo alto in quanto condanna la scuola a restare uno spazio al di fuori della realtà, ad essere, e ad essere percepita, dagli stessi studenti come irrilevante per affrontare la realtà che è inevitabilmente permeata di politica.  E del resto è ben comprensibile come molti insegnanti resistano di fronte alla possibile irruzione di tematiche politiche in aula e si trincerino dietro l’ideologia della neutralità professionale. Ed è altrettanto, purtroppo, comprensibile come altri insegnanti ne possano approfittare testimoniare la propria militanza politica e fare proseliti tra i propri studenti. E’ possibile evitare di cadere nelle trappole del silenzio da una parte e della militanza dall’altra ? La risposta a questo interrogativo potrà essere positiva se la scuola saprà sviluppare quella che io chiamo “pedagogia della controversia”, una pedagogia capace di formare competenze di ascolto e di argomentazione, prima di tutto nella formazione stessa degli insegnanti, di tutti gli insegnanti.

6. Sesto criterio: ricorrere al modello Dewey

Chi vuole contribuire allo sviluppo di una “pedagogia della controversia” farà bene a ricorrere al modello di Dewey che, sul rapporto tra educazione e democrazia, resta ancor oggi un punto di riferimento obbligato. Egli suggerisce che l’insegnante debba svolgere una funzione maieutica, debba organizzare la classe in piccoli gruppi, di composizione possibilmente eterogenea, all’interno dei quali si possa sviluppare una dinamica interattiva alla quale partecipino potenzialmente tutti i soggetti coinvolti. Suggerisce anche di tener conto delle emozioni in modo da incanalarle e non da soffocarle, in modo che favoriscano la cooperazione senza negare la competizione. L’apprendimento cooperativo e la pedagogia dei giochi di ruolo risalgono tutti, direttamente o indirettamente, all’insegnamento di Dewey.


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