OSSERVAZIONI SU “I SAPERI ESSENZIALI”

a cura di Giovanni Campana

 

1. Il documento non risponde, come invece dichiara, alle "attese della società civile e dei professionisti della scuola".

Il documento dichiara in premessa di volere corrispondere alle attese della società civile e dei professionisti della scuola, ma le attese della società e dei professionisti della scuola riguardo ai saperi essenziali non paiono essere quelle indicate dal documento. Le richieste maggiormente condivise sono oggi così sintetizzabili:

1) una chiara distinzione tra le discipline centrate sul criterio della massima padronanza e quelle che, pure considerate irrinunciabili, non mirano tanto alla padronanza, quanto piuttosto alla ricchezza e varietà dell’esperienza cognitiva e formativa e  poste pertanto su un piano chiaramente diverso. Al primo ambito appartengono la formazione linguistica e la formazione matematica;

2) una collocazione prioritaria per la lingua inglese e l’informatica (soprattutto un piano strumentale);

3) il carattere aperto e integrale dell’esperienza formativa, dunque la vivacità e l’estensione in senso orizzontale dell’attività pratica ed espressiva nei campi del fare, dell’immagine, della musica, dell’attività motoria.

La direzione del documento non è questa:

1)   esso sembra affermare il primato della formazione linguistica, ma poi insiste con tale enfasi sulla "pari dignità" dei linguaggi (i linguaggi della mente e i linguaggi del corpo) da lasciare l’impressione che l’importante sia superare le distinzioni più che mantenere e rafforzare un chiaro primato della formazione linguistica;

2)   la matematica è posta in modo defilato, quasi con paura, dando l’impressione che si debba insegnarla un po’ meno, preoccupandosi soprattutto che sia una matematica più facile;

3)   l’inglese è affermato  senza tanti approfondimenti;

4)   l’informatica è affermata, ma senza un chiara priorità. Essa figura nelle premesse, ed è più volte richiamata, ma nel quadro dei saperi figura, in definitiva, all’ultimo posto;

5)   se c’è una priorità - sia perché questa priorità è dichiarata in premessa, sia per l’insistenza con cui tale sapere ricorre nei diversi ambiti - è il posto dato alla storia, nel senso del taglio storico e storico-epistemologico con cui deve essere affrontato ogni sapere.

2. Il documento non espone, come invece dichiara, i saperi essenziali per la formazione di base

Da un documento sui saperi essenziali si dovrebbe cogliere chiaramente quali sono, appunto, i saperi essenziali, che, come tali, dovrebbero essere pochi e imporsi con chiara evidenza: essenziale è ciò che conta in mezzo a tutto il resto.

Ora se si chiedesse a 100 lettori di riferire quali sono i saperi posti in primo piano dal documento, probabilmente vi sarebbero molte incertezze e difformità nell’identificazione:

1)  La formazione linguistica? Non è così scontato, anche per l’affermata “pari dignità di parola scritta, immagine, suono, ecc.” nella didattica.

2)  Certamente non la matematica, volutamente posta dopo le scienze

3)  Le scienze? Forse, ma soprattutto per gli aspetti sperimentali. Ciò che viene sottolineato è che esse non devono essere fortemente strutturate.

4)  Non l’informatica, che è dopo la musica, il cinema, ecc., anche se viene richiamata più volte con riferimento alle potenzialità delle nuove tecnologie

5)  La storia? Non proprio. Semmai la storicità come trasversalità assoluta onnicomprensiva

6)  L’espressività, le arti sonore, l’immagine: questo sembra davvero fortemente sottolineato. E tuttavia il fare, che dovrebbe essere il criterio dominante, è affermato chiaramente per la musica, mentre per l’immagine il taglio diviene subito molto “culturale”. Anche qui non si capisce che cos’è ciò che conta: come mai per la musica il piano culturale informativo è da tenere ai margini e per le arti figurative è la questione fondamentale?

7)  è centrale l’idea di un primato del ragionare e del capire. L’introduzione della filosofia, intesa esattamente nel senso di apprendere a ragionare su principi, criteri di validità, ecc., rivela senza dubbio questa centralità degli aspetti di consapevolezza. Ma, nei vari saperi, questo ragionare e capire sembra inteso, in generale, come un primato dello sgusciare via da ogni sapere troppo strutturato, un primato della trasversalità programmatica, un primato del superamento: ma tutto questo è l’affermazione di una esigenza - mirare alla coscienza della complessità in tutti i campi - che non si vede come possa costituire un sapere essenziale di base.

In sintesi, il documento non delinea il quadro dei saperi di base, ma piuttosto una formazione non di base, che presuppone essa stessa una formazione di base.

 3. Il documento si occupa impropriamente di metodologia didattica

L’intero documento si pone in modo deciso anche sul  piano delle impostazioni didattiche.

Può darsi che non sia possibile definire la proposta del tipo di formazione senza vincolarla a scelte determinate, ma, se così è, ciò costituisce un problema estremamente delicato in ordine all’autonomia professionale dei docenti e all’autonomia delle scuole.

Il documento non è prescrittivo per i docenti, ma si rivolge agli estensori dei futuri programmi e a coloro che fisseranno gli standard di apprendimento, all’editoria scolastica, alle università e ai docenti. In ogni caso esso dà numerose indicazioni molto nette e in alcuni casi molto specifiche di metodologia didattica, anche in senso consapevolmente alternativo rispetto a modalità considerate tuttora importanti pressoché dalla totalità dei docenti.

L’innovazione didattica è un’esigenza profonda. Ma la via per perseguirla è l’autonomia, non la limitazione dell’autonomia. Si tratta di porre gli obiettivi formativi, delineando i saperi e i traguardi irrinunciabili, ma lasciando ai docenti e alle scuole i modi per arrivarvi.

Questo modello - la scuola risponde degli esiti rispetto agli obiettivi, ma è libera quanto alle procedure - deve essere il motore che avvii, con forza necessitante, un processo evolutivo nella scuola. Perché il modello funzioni è necessaria una condizione fondamentale: che la scuola, le scuole siano sensibilizzate ai risultati della loro azione, in modo che si sviluppi quella “reazione circolare” quel “circolo virtuoso” finora impossibile nella scuola.

4. Conclusioni

Per sensibilizzare la scuola ai propri risultati  la vera condizione sarà la pressione ambientale.

Bisogna  che il quadro dei saperi essenziali e gli obiettivi formativi da porre contestualmente siano pochi, fondamentali, chiari, tali da orientare con la massima chiarezza il mondo della scuola e da poter essere assunti nella loro evidenza dall’opinione pubblica - e, con essa, dai mass media - in modo che la società tutta sia raccolta attorno ad un progetto formativo, lasciando autonome le scuole nel perseguirlo.

Questo comporta che si rinunci alla via opposta, che è quella attuale: porre una visione dei saperi - che dovrebbero essere essenziali e di base - talmente raffinata, complessa, sofisticata, e così lanciata su posizioni controverse, da dover poi convincere gli insegnanti e tutta la scuola a credere nella loro validità, oppure da costringere in qualche modo gli insegnanti ad assumere quella visione, quelle didattiche, ecc.

Gi aspetti più avanzati dei saperi e della didattica devono essere piuttosto al centro della formazione dei docenti. Quella è la sede per spingersi verso livelli veramente alti, sempre più necessari. Non è attraverso programmi e documenti come questo sui saperi che si introduce innovazione, perché in questo caso saranno i docenti a piegare i programmi  e non i programmi a piegare i docenti.

Così l’asserita "pari dignità" dei diversi saperi - così poco scontata da sentire il bisogno di abbozzare una giustificazione teorica (la pari dignità dei saperi sarebbe dovuta al fatto che tutti i saperi sono prodotti dalla mente umana!) - è una concezione largamente non condivisa, anche a livelli di alta consapevolezza culturale: è noto, ad esempio che il primato del linguaggio verbale costituisce un principio incancellabile per i più (se è vero che della parola siamo tutti incessantemente sia fruitori che produttori, mentre dell’immagine siamo essenzialmente fruitori, visto che pochi ne sono anche produttori, il principio di integrare  la parola con i linguaggi non verbali è anche oggi  preferibile all’audacia pedagogica della pari dignità) .

Lo Stato deve astenersi dall’assumere come propria e perciò imporre ai docenti una visione, in definitiva, di rilievo quasi filosofico. Se lo Stato fa scelte di questo genere, rischia di voler avere e di imporre una propria molto precisa pedagogia, una pedagogia di Stato.

Deve essere fatta invece anche in questo campo la scelta dello stato leggero, il quale, individuati gli obiettivi essenziali nella loro nitidezza, si limita a favorire e sostenere con ogni sforzo di intelligenza  e con investimenti, i processi evolutivi della società, esercitando un chiaro controllo sui risultati, non sulle scelte professionali.

Come per l’intera pubblica amministrazione, si deve promuovere una scuola che risponda non della conformità delle procedure, ma del perseguimento degli obiettivi. Laddove docenti e capi di istituto si sentissero in dovere di assumere le metodologie gradite o “canoniche”, tenderebbero poi a considerarsi, grazie alla conformità delle procedure, comunque assolti davanti al problema dei risultati. La sensibilizzazione delle scuola agli esiti, unico possibile innesco evolutivo del sistema scuola, non potrebbe avere luogo. Anche al di fuori di una vera e propria prescrittività finirebbero per imporsi vasti e mortali conformismi e, fatalmente, un processo non nuovo di burocratizzazione della didattica.