Commento alla "Sintesi" del Gruppo ristretto di lavoro (Grl)

Tre questioni cruciali

La prima questione:
il rapporto con i nuovi poteri regionali

Il documento del Grl precisa che le proposte non sono state contestualizzate rispetto alle modifiche del titolo V della Costituzione, apportate dalla legge 18 ottobre 2001, n. 3, poiché non rientrava tra i suoi compiti entrare nel merito della loro soluzione. Allo stesso tempo riconosce, però, che è imprescindibile il confronto con le Regioni, le quali peraltro hanno già, a gran voce, rivendicato il proprio ruolo, e con le quali il Governo ha già avviato le procedure di consultazione.

Ora poiché la definizione dei nuovi poteri regionali è questione fondamentale, riteniamo opportuno cominciare la nostra analisi proprio da questo punto.

La legge costituzionale n.3 18/10/ 2001 ha ridisegnato i poteri dello Stato e delle Regioni rispetto alla scuola nei seguenti termini:

  • lo Stato ha legislazione esclusiva relativamente alle "norme generali sull’istruzione";
  • lo Stato ha legislazione concorrente con le Regioni sull’"istruzione", fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche
  • Le Regioni hanno legislazione esclusiva sull’"istruzione e la formazione professionale"

Nei confronti dell’istruzione e formazione professionale il nuovo articolo 117, varato con la succitata legge 3/2001, poco muta rispetto a quello del 1948 che assegnava alle Regioni " l’istruzione artigiana e professionale". Fu la legge n.845 21/12/1978, "Legge quadro in materia di formazione professionale" che distinse la "formazione professionale" a gestione regionale dall’"istruzione professionale" impartita negli istituti professionali statali, sancendo la dicotomia fra questi due settori. La ragione fu che a 30 anni di distanza dal varo della Costituzione, gli Istituti professionali, che nel frattempo si erano sviluppati e consolidati nell’alveo della più generale istruzione statale, si opposero alla propria separazione dalle restanti scuole secondarie di secondo grado. Tale opposizione si è ripresentata anche recentemente con i provvedimenti Bassanini: il dlgs. n. 112 del 31 marzo 1998 si è alla fine limitato alla mini-regionalizzazione degli istituti professionali privi di corsi quinquennali.

La domanda a questo punto è: "E’ giusto oggi riproporre la questione negli stessi termini del 1948, separando, a livello di legificazione, di organizzazione e di gestione, l’istruzione e la formazione professionale dalla restante istruzione secondaria?" Riteniamo di no e consideriamo arretrata questa parte della legge 30/2001, predisposta dal precedente governo, perché non tiene conto né delle profonde trasformazioni prodotte dall’"economia della conoscenza", né delle modificazioni epocali generate nei modi di apprendere, a qualsiasi livello e in qualsiasi settore, dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Come è possibile, allora, ricomporre un quadro sostanzialmente unitario?

Innanzitutto mantenendo in capo allo Stato la definizione del quadro normativo generale anche dell’istruzione e formazione professionale, se non altro perché i diplomi e le qualifiche devono avere valenza nazionale ed essere sempre più equiparabili in ambito europeo.

In secondo luogo, superando il centralismo statale nell’organizzazione e gestione di tutta l’istruzione e formazione. Non si possono più perpetrare i guasti generati da un Ministero che anziché essere organo di programmazione e indirizzo, attrezzato con propri centri scientifici e di ricerca, si è sempre configurato come ministero di gestione, in primis del personale, con il duplice danno di avere da un lato generato paralisi, dispersione, inefficienza, e dall’altro impedito l’avvio di strumenti di programmazione scientificamente fondati, in grado di indirizzare e valutare i processi di riforma.

Il passaggio alle Regioni degli aspetti gestionali e organizzativi di tutti gli istituti scolastici da un lato evita la netta separazione fra istruzione professionale e licei, dall’altro pone fine al paralizzante centralismo statale, unificando le competenze "di programmazione dell’offerta formativa e della rete scolastica", già attribuita alle Regioni dal decreto legislativo n. 112 del 31 marzo 1998, con quelle degli organici del personale, come è giusto che sia.

Due rilievi, uno per fugare paure, e uno per ribadire una conquista.

Il passaggio della gestione del personale, ora affidata a Direzioni territorialmente regionali, ma di emanazione ministeriale, a Direzioni autenticamente regionali, non significherà affatto difformità nei trattamenti economici e normativi fra le diverse regioni, poiché i contratti di lavoro rimangono nazionali, esattamente come è, ad esempio, per i medici. Gli eventuali integrativi dovranno essere a livello di istituzioni scolastiche autonome, come per i medici lo sono a livello di ASL. Ugualmente lo stato giuridico dovrà rimanere nazionale, si pensi ad esempio ai titoli di accesso e relative norme sulla formazione iniziale degli insegnanti.

La seconda questione che ci preme sottolineare è la salvaguardia e il potenziamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. I processi di decentramento dell’istruzione che hanno coinvolto tutti i paesi avanzati, hanno avuto due modalità di attuazione. La prima incentrata fondamentalmente sulla valorizzazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, la seconda su una forte delega di poteri agli Enti locali (v. ad esempio il caso della Svezia). E’ evidente che in situazioni di gestione assolutamente centralistica, come la nostra, la necessità è quella di operare in entrambe le direzioni, tenendo ben ferma, in ogni caso, l’autonomia delle scuole.

Siamo infatti convinti, come è stato d’altra parte verificato anche in altri Paesi, che le scuole che producono i migliori risultati siano quelle che hanno la capacità e il potere di darsi proprie finalità, chiare e condivise, programmi ambiziosi, una forte leadership educativa e docenti professionalmente qualificati e motivati. Di tutto questo il prerequisito è l’ autonomia, che è peraltro la condizione nella quale meglio può esprimersi la creatività e lo spirito d’iniziativa della comunità professionale degli insegnanti.

Non ci nascondiamo che un discorso serio sull’autonomia dovrà necessariamente riconsiderare questioni come il reclutamento e la carriera docente, ma intanto è importante non soffocare, attraverso nuovi vincoli e controlli locali, ciò che di fatto deve ancora prendere avvio.

La seconda questione:
la distinzione dei 2 percorsi di istruzione e formazione

La parte più innovativa del Rapporto, fortemente evidenziata nella Sintesi, è la ridefinizione e l’arricchimento del percorso professionalizzante a livello secondario e post-secondario. E’ stata questa, però, anche la parte più criticata, nella considerazione che la separazione dei percorsi a 14 anni sia "ghettizzante". Una critica questa che l’autorevole ricercatore svizzero Norberto Bottani, membro del Grl, ha definito del tutto incomprensibile per chi non viva in Italia

Siamo convinti, con Bottani e altri membri del Grl, che la ridefinizione e qualificazione del percorso professionale sia una scelta strategica. Il settore dell’istruzione tecnica e professionale costituisce già oggi, peraltro, la parte più cospicua di tutta la formazione secondaria, e anche i recenti dati sulle iscrizioni per l’a.s. 2002-2003 vedono gli istituti professionali in forte aumento, e la conferma degli istituti tecnici, pur in flessione, come la scuola secondaria più frequentata.

Perché tale questione, fondamentale e prioritaria, possa però essere affrontata con l’apporto del più ampio schieramento di forze e avere quindi maggiori possibilità di sbocchi positivi, devono essere sciolte alcune ambiguità che qui sommariamente elenchiamo:

  1. Si tratta innanzitutto di superare la netta separazione a livello legislativo, organizzativo e gestionale del percorso professionalizzante da quello dell’istruzione scolastica, riproposta dal nuovo art.117. Questa separazione ha già riacceso quei contrasti che hanno avuto inizio nel 1978 con la legge delega sulla formazione professionale. Questo problema, come abbiamo già espresso al punto 1 può essere risolto sia unificando la gestione del personale a livello regionale, sia mantenendo la definizione dei vari livelli di qualifica e diploma a livello nazionale, come è ben sottolineato nelle raccomandazioni contenute nella sintesi del Grl

     

  2. In secondo luogo si deve chiarire, come in parte fa il documento di "Sintesi", che gli Istituti tecnici sono parte integrante della formazione professionale.
    Con una precisazione. Se è vero che un percorso professionale è tale solo se termina con una qualifica o un diploma, si dovrà tenere conto, nell’inserire i tecnici nel percorso professionale, del riconoscimento o meno del loro diploma a livello europeo. Basti ricordare, per fare un esempio, il nostro attuale diploma per geometri e ragionieri non è riconosciuto a livello europeo, essendo previsto un titolo di formazione superiore.

     

  3. In terzo luogo va preso atto fino in fondo del fallimento dell’attuale formazione professionale impartita nei Centri regionali per la fascia dei 15-16 anni, che ha visto peraltro una frequenza inferiore al 4% della popolazione in età

Infine crediamo che per dare risposte credibili a questi temi occorra andare al cuore della questione, ossia ai curricoli e all’organizzazione dei contenuti culturali e professionali dei vari percorsi.

Noi sosteniamo che si tratta oggi di avviare un processo inverso rispetto a quello intrapreso nella seconda metà degli anni Ottanta con la così detta "sperimentazione Brocca". Allora si licealizzarono i tecnici e si indusse la licealizzazione degli stessi istituti professionali, aumentando a dismisura il numero delle discipline. Oggi occorre, al contrario, "professionalizzare" l’istruzione nel senso di potenziare i collegamenti con il mondo del lavoro e valorizzare l’apprendimento esperenziale, non per esiti utilitaristici, non cioè come fine, ma come mezzo per meglio far apprendere e motivare all’apprendere

In un bell’articolo dal titolo " The crisis in the classroom" l’australiana Anne Henderson, vice direttrice del Sydney Institute, sostiene che "l’educazione non è mai stata tanto collegata al lavoro come ora. Lo slogan non è più " Apprendere per la vita", ma "Una vita di apprendimento" ……L’apprendimento interattivo , nel quale la scuola si combina con esperienze di lavoro e attività extrascolastiche, diventerà la norma. I mondi oggi separati di lavoro e scuola si sovrapporranno…….Nell’"Era della creatività"( Demos, 1999) Tom Bentley ha raccomandato di ridurre il curricolo del 50% per "creare spazi per una più ampia gamma di esperienze di apprendimento"…… La sfida è il passaggio da quello che le persone conoscono a quello che fanno con le loro conoscenze".

Le ricerche e le esperienze a livello internazionale evidenziano la crisi profonda della tradizionale istruzione secondaria e la crescente insofferenza dei giovani verso le lezioni ex-.cathedra e lo stare in aula, e pongono sempre più l’accento su modalità di apprendimento e insegnamento quali:

a) il Contextual Teaching and Learning ,(CTL , CTL-M , Technet) un modo di insegnare e di apprendere che aiuta a mettere in relazione il contenuto delle discipline con le situazioni del mondo reale e a motivare gli studenti a fare collegamenti tra le conoscenze e le loro applicazioni, ottenendo un maggiore impegno e coinvolgimento;

b) il Work-based learning (ncrel , Center Point , ERIC_Digests , siu.edu ), Apprendimento basato sul Lavoro, una combinazione di preparazione scolastica e di esperienze assistite sul posto di lavoro, predisposte con la collaborazione del mondo industriale ed economico, per mettere in grado gli studenti di acquisire attitudini, conoscenze e abilità per l’inserimento e lo sviluppo nel lavoro o in altre situazioni della vita reale.

In conclusione riteniamo che l’obiettivo da perseguire sia quello di snellire al massimo i curricoli dell’istruzione tecnica e professionale e di potenziare modalità e attività di apprendimento basate sul saper fare e il collegamento con il lavoro.

Inoltre, anche in tutti gli altri percorsi scolastici il modo esperenziale di apprendere dovrà, sempre più sostituire quello ricostruttivo-simbolico, come bene ha evidenziato Francesco Antinucci nel suo libro "La scuola si è rotta" (Laterza, 2001)

La terza questione:
organizzazione dell’orario e delle discipline

E’ questa una delle parti più controverse, e anche meno chiare della proposta. Una parte che la "Sintesi" del Grl ha cercato di attenuare, dopo le critiche scatenatesi sul Rapporto Bertagna, ma sulla quale permangono molti lati oscuri e forti perplessità.

La proposta prevede per tutti i gradi e ordini di scuole un orario settimanale di 25 ore (825 annuali), di cui 20 ore settimanali (660 annuali) decise a livello nazionale e 5 ore settimanali (165 annuali) a quota locale pensate non tanto come aggiuntive, bensì come intensive rispetto alle precedenti; a queste ore si aggiungono 300 ore annuali, circa 10 settimanali, per i cosìdetti Laboratori (nelle scuole secondarie: Informatica, Attività motorie e sportive, Attività espressive, Lingue, Attività di progettazione di artefatti manuali o simbolici, di interventi di azione sociale, di soluzioni produttive e gestionali, del proprio progetto di vita, professionale e no, ecc.). Su queste 10 ore settimanali, o 300 annuali, sorgono i maggiori problemi. Vediamo quali.

Si dice:

  1. che gli istituti, da soli o in collaborazione tra loro, hanno l’obbligo di istituire i Laboratori
  2. che gli studenti e le famiglie hanno libertà di decidere "se, quando, come ed eventualmente in quale scuola" ne vogliono usufruire
  3. che le scuole, al termine del percorso formativo, hanno l’obbligo di accertare il raggiungimento del livello previsto di conoscenze, abilità e competenze relative a tali Laboratori (ogni due o 4 anni), anche se acquisite privatamente, al di fuori della scuola

 

Il problema di fondo, che questa impostazione solleva, è il concetto di flessibilità che qui si esprime: una questione tutta privata, delegata ai singoli e non alla autonomia delle scuole. Scrive Bertagna nel suo Rapporto : "In una società della conoscenza, nella quale ogni organizzazione è e si fa comunicazione e intelligenza distribuita … la centratura scolasticistica, con tutto il tradizionale armamentario concettuale che l’ha finora seguita (separazione disciplinare del sapere, antinomie epistemologiche del genere cultura umanistica, cultura scientifica, cultura tecnico-tecnologica, rigidità dei tempi e degli spazi, classificazione degli allievi per età invece che per altri criteri qualitativi molto più flessibili, piani di studio impostati per coppie oppositive quali discipline comuni e di indirizzo, cultura generale e cultura professionale, sapere gratuito e sapere utile) non è più accreditabile". Sul piano concettuale questo ragionamento è assolutamente corretto e condivisibile, ma è sul piano dell’applicazione che le storture si fanno evidenti. . E’ la scuola che deve essere messa in grado di cambiare il proprio impianto e di rompere antiche rigidità, che è tutt’altra cosa dal prospettare una sorta di avveniristica descolarizzazione. Non neghiamo che già oggi ci sia un massiccio ricorso ad agenzie e strutture private per varie forme di apprendimento, quali l’attività sportiva, la musica, la danza, le lingue straniere, ma il compito dei riformatori in questa particolare fase non è quello di accentuare questa tendenza, relegando la scuola a ente certificatore, quanto piuttosto quello di aiutarla ad evolvere, a costruire autonomamente percorsi educativi di qualità, differenziati ed equi, anche raccordandosi all’esterno, con altre scuole, altre istituzioni e agenzie.

I nodi problematici nei vari ordini e gradi dell’istruzione

Veniamo ora all’esame delle soluzioni proposte per i singoli gradi scolastici.

  1. Scuola dell’infanzia

Accantonata, fortunatamente, dal Progetto di legge la trovata del credito di un anno, ancora presente in questa sintesi, il problema della scuola dell’infanzia, una scuola il cui impianto e i cui "Orientamenti" sono tuttora validi, è costituito dalla sua generalizzazione su tutto il territorio nazionale, che per essere credibile e reale deve essere da subito accompagnata dai finanziamenti sulla base pianificazioni annuali. Tale generalizzazione deve consentire ai genitori la possibilità di scegliere fra le scuole statali ( regionali o comunali) e quelle gestite da persone, associazioni o enti privati.

La seconda questione, è l’unificazione della gestione delle scuole "statali" e "comunali.
Ripetiamo qui quello che abbiamo già scritto nel commento alla proposta Berlinguer : è abbastanza incredibile che a distanza di oltre 30 anni dall'istituzione della scuola materna statale, permanga la separazione tra scuole dell'infanzia gestite dai comuni (che lo Stato continua a considerare private) e scuole dell'infanzia gestite dallo Stato. Le motivazioni per cui non fu fin dall'inizio avviato il processo di unificazione non sono state solo di ordine economico, ma anche e soprattutto politico. Molti Comuni, in particolare i Comuni "rossi" non intendevano cedere allo Stato scuole su cui avevano fatto un fortissimo investimento. La parola d'ordine "Il diritto allo studio comincia a 3 anni" fu in molti comuni dell'Emilia Romagna, per esempio, molto più di uno slogan, fu il fondamento teorico su cui si realizzò una grande impresa culturale che trasformò negli anni '60 gli "asili" in scuole, facendole assurgere nella coscienza e nel costume dei cittadini a vere e proprie "scuole dell'obbligo". E sono state queste scuole comunali ad avere ispirato in molte parti gli "Orientamenti" del 1991. Nonostante questi meriti, ciò che si sta verificando oggi è la progressiva soppressione delle scuole comunali, per motivi di bilancio, con il rischio che un grandissimo patrimonio di esperienza vada disperso.

E' giunto dunque il tempo che le scuole pubbliche sia comunali che statali siano unificate, abbandonando un'anacronistica dicotomia, dal momento che i comuni altro non sono che un'articolazione dello Stato.

  1. Scuola primaria/scuola media

La proposta del Grl di " conservare" su raccomandazione del Ministro "l’articolazione vigente dell’obbligo scolastico in una scuola primaria, che resta ordinamentalmente quinquennale, e in una scuola secondaria di primo grado , che rimane triennale", ma nel contempo di organizzare i due cicli in percorsi biennali che si sovrappongono (la quinta è collegata alla prima media) è un espediente pasticciato per non mettere in discussione la condizione giuridica e contrattuale degli insegnanti della scuola elementare e media, e non sollevare questioni di edilizia scolastica. Per parte nostra rimaniamo convinti che, al di là dei problemi della così detta onda anomala, che potevano essere risolti con gradualità, si sarebbe potuto diminuire di un anno la scuola media, consentendo l’uscita dalla scuola al compimento della maggiore età, un obiettivo che rimane importante.

Ci conforta in questa convinzione quello che ha recentemente scritto l’inglese David Hargreaves, Direttore generale della Qualifications and Curriculum Authority, in relazione alla "crescente preoccupazione" espressa dal Governo "per i lenti progressi degli alunni fra gli 11 e i 14 anni (K stage 3), per troppi un periodo di calo della motivazione e di crescente disaffezione". Scrive a questo proposito David Hargreaves :"La scuola media è troppo lunga, ha un anno in più. Una scuola media di 2 anni ridurrebbe il disimpegno e migliorerebbe i risultati; l’anno risparmiato andrebbe aggiunto alla scuola secondaria superiore, con questo schema: 2 (scuola media)+ 2+3, al posto dell’attuale 3+2+2 (in Inghilterra la scuola secondaria è di 4 anni, 2+2, e termina da sempre a18 n.d.r). E’ nella secondaria superiore, non in quella inferiore, che i ragazzi hanno bisogno di più spazi per maturare nei loro studi". E aggiunge, "non possiamo farlo ora perché abbiamo appena avviato interventi strategici nella scuola media per portarla ai successi già ottenuti nella scuola primaria. Niente deve distrarci dagli obiettivi che ci siamo dati di innalzare i risultati dei ragazzi di 11/13 anni, ma proprio ciò consentirà di ridurre la scuola media a due anni, senza abbassarne gli standard. Un importante ponte verso questa struttura del 2+2+3, che impiegherà una decina d’anni a essere realizzata, può essere l’accelerazione del percorso per alcuni alunni, consentendo loro di fare gli attuali esami di terza media un anno prima e prendere di conseguenza il GCSE ( qualifica che ora si prende a 16 n.d.r.) anch’esso con l’anticipo di un anno "

Condividiamo questa analisi e siamo anche noi convinti che la scuola secondaria inferiore sia un punto particolarmente critico.
Varie indagini hanno dimostrato che nella scuola media non solo non si recuperano le carenze delle elementari, ma le stesse si aggravano con il passaggio dalla prima alla seconda media e ulteriormente dalla seconda alla terza, segnando di fatto il destino scolastico dei ragazzi. Per questo crediamo anche, a differenza degli "oltranzisti" dei percorsi "identici", che, con il mantenimento della media triennale, sia importante attribuire al secondo biennio la funzione di "orientamento", in modo tale da riuscire, pur all’interno di una struttura assolutamente unitaria, a individuare le aree per le quali i ragazzi nutrono maggiore interesse, evitando disaffezione e disimpegno, e riuscendo nel contempo a focalizzare maggiormente l’attenzione sulle discipline essenziali. Non dobbiamo dimenticare infatti che nell’indagine PISA-OCSE gli alunni italiani di 15 anni sono fra gli ultimi nella comprensione della lettura e nella matematica.

Per quanto concerne la scuola elementare, ora primaria, riteniamo che ogni decisione sull’insegnante prevalente nel primo biennio, debba essere lasciata all’autonomia delle scuole, nel rispetto di organici definiti in modo omogeneo.

  1. I licei e l’istruzione professionale

La proposta di ridurre i licei a quattro anni, definita dal Grl "border line", è ormai stata abbandonata dal Progetto di legge, e con essa è venuta meno la possibilità di uscita dal percorso scolastico a 18 anni. Abbiamo già detto che, pur considerando importante per i giovani non dover permanere nella scuola oltre la maggiore età, riteniamo anche che il solo settore in cui sia possibile la diminuzione di un anno sia la scuola media, pertanto piuttosto che soluzioni pasticciate che rischierebbero davvero di abbassare gli standard generali, tanto meglio conservare lo status quo e lavorare sui curricoli.

Una cosa va però detta con estrema chiarezza e forza: la decisione di mantenere i 5 anni deve assolutamente valere anche per gli istituti tecnici. L'assunzione di soluzioni differenziate (5 anni per i licei e 4 per gli istituti tecnici) sarebbe davvero una discriminazione e gerarchizzazione intollerabile, come lo stesso Grl ha sottolineato.

La seconda considerazione, che abbiamo già fatto, è che 8 licei sono assolutamente troppi. I contenuti dei licei vanno complessivamente ripensati, non si può procedere con pure aggiunte o facendo cambi puramente nominalistici.

Per quanto riguarda l’ istruzione professionale, mentre attribuiamo grande importanza alla scelta di avviare serie esperienze di alternanza scuola-lavoro, secondo la tendenza già positivamente sperimentata altrove, consideriamo sbagliato dividere i corsi triennali fra percorsi triennali mirati e percorsi triennali polivalenti, i "corsi mirati" sono infatti l’ultima ancora di salvezza lanciata alla formazione impartita nei Centri regionali i cui risultati sono stati fallimentari.

Formazione superiore

Condividiamo l’importanza di avviare un serio percorso di formazione superiore, che deve essere organizzato in modo più rigoroso, qualificato e sistematico degli attuali IFTS, che non sono mai decollati.

Valutazione e orientamento

E’ condivisibile l’impostazione data all’orientamento e alla valutazione, e l’attenzione prestata a modalità valutative innovative quali il portfolio. C’è un punto però che tradisce l’antica impostazione gentiliana, quando si prevede che "l’accesso agli studi liceali sia proposto dai consigli di classe dell’ultimo anno della scuola media sulla base dei risultati conseguiti dagli studenti, tenendo conto dei consigli d’orientamento e del contenuto del portfolio", mentre nessun orientamento viene previsto per l’istruzione professionale. Siamo alle solite: i "bravi", scelti, al liceo, magari con in testa il classico, e i "somari" all’istruzione professionale, senza nessun orientamento, perché la scelta è solo in negativo ( non sei idoneo per questo, non sei idoneo per quello, va al professionale!). L’ideologia di sempre secondo cui a scuola si considera importante solo l’intelligenza "logico-linguistica", escludendo tutte le altre. Nessuna traccia delle "intelligenze multiple". E’ nostra convinzione, invece, che finché questa mentalità non cambierà, nell’opinione pubblica e negli insegnanti, sarà difficile cambiare la scuola.

Formazione degli insegnanti

La proposta del Grl è condivisibile e costituisce un importante contributo.