Le ambiguità nella nota del MIUR
Cominciamo con un'osservazione banale: il comunicato del MIUR è impreciso e inciampa quando fa riferimento alle esperienze europee.
Scrive il MIUR :
«… gli ITS non sono un prolungamento del sesto e settimo anno della scuola superiore ma corsi professionalizzanti di alta specializzazione tecnica realizzati secondo i modelli internazionali più avanzati (le SUPSI svizzere, le IUT francesi e le Fachhochschule tedesche)»
Fra le esperienze citate, le Scuole Universitarie Professionali in Svizzera non si chiamano SUPSI ma SUP o HES (acronimo francese per «Hautes Ecoles Spécialisées»). La SUPSI è la Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana nel Canton Ticino. Questa è solo una delle università tecnologiche elvetiche.
Ci sono altre SUP famosissime come quelle di Bienne, di Ginevra, di Friburgo, che hanno una lunga storia alle spalle, solo per fare alcuni esempi. In Germania istituti analoghi hanno sostituito o quantomeno affiancato il vecchio termine di Fachhochschulen» con Università di Scienze Applicate.
In entrambi i casi l'assunzione del termine «scuola universitaria» o «università» non è stata casuale. Nomina sunt consequentia rerum. E' avvenuto infatti all'interno del percorso che ha portato progressivamente questi istituti ad allinearsi alla così detta Dichiarazione di Bologna del 1999 e al processo che ne è seguito, che ha via via condotto i Paesi dell'UE a riorganizzare l'istruzione terziaria su tre livelli, che sono:
1) la laurea di 1° livello (laurea breve triennale),
2) la laurea specialistico/magistrale (+ 2 anni),
3) e, in seguito, il dottorato (+3 anni).
Sia le elvetiche SUP sia le tedesche «Università di Scienze Applicate» hanno assunto il percorso 3+2. Così è avvenuto per gli IUT in Francia.
Ora questo problema non è affrontato per gli ITS che non sono sintonizzati sull'accordo di Bologna. La cosa è tutt'altro che irrilevante. Se è indubbio infatti che gli ITS debbano essere ben distinti dai corsi universitari, più direttamente collegati all'ambito delle applicazioni tecniche e delle attività professionali presenti nel mondo del lavoro, è altrettanto indubbio che debbano essere collocati al grado terziario e concludersi con titoli di pari dignità e livello di quelli universitari.
La questione del titolo in uscita è molto importante sia per l'equiparazione ad analoghi titoli europei sia per rendere questi corsi appetibili ai bravi studenti, che diversamente si orienteranno verso l'università. E, se mi è consentita una battuta, lo è tanto più in Italia, un Paese dove si può esibire il titolo di «Dottore» già dopo la laurea breve, mentre altrove questo avviene solo dopo il dottorato!