La posizione dell'ADi 

Le “ Idee guida per il progetto di legge regionale in materia d’istruzione, formazione e transizione al lavoro” presentate il 3 ottobre 2002 costituiscono la risposta della Regione Emilia Romagna sia al Ddl governativo di riforma della scuola, sia alle iniziative di sperimentazione del ministro Moratti (protocolli regionali sull’istruzione e formazione professionale,  protocollo con la provincia autonoma di Trento,  decreto per l’avvio della sperimentazione nella scuola dell’infanzia e nella prima elementare). Una risposta però che si configura più come testimonianza contro la politica del  governo che come volontà e capacità politica di individuare strategie per risolvere alcuni dei problemi drammatici dell’istruzione nel nostro Paese, quali l’abbandono di qualsiasi percorso formativo da parte di migliaia e migliaia di giovani nel corso o alla fine dell’ultimo anno di obbligo scolastico, il 16,5% della popolazione in età (dati 2000),  che diventa il 30% della popolazione fra i 15 e i 19 anni (dati 1999), senza parlare dei risultati preoccupanti  dell’indagine OCSE-PISA 2000 (Program for International Student Assessment, Programma per la Valutazione Internazionale degli Studenti) che colloca i nostri quindicenni fra gli ultimi nella comprensione di un testo scritto e nell’utilizzo di basilari competenze matematiche e scientifiche, all’interno dei 32 Paesi esaminati.  

La Regione pare non considerare questi dati allarmanti, e, secondo le dichiarazioni dell’assessore Bastico, parte dall’assunto che la scuola, almeno in Emilia Romagna, sia in buone condizioni. Un giudizio che prescinde però da qualsiasi indagine rigorosa e sistematica, di cui questa regione pare non  sentire il bisogno, tanto che, a differenza della Lombardia, del Piemonte e del Trentino, l'Emilia Romagna non ha accolto l’invito a partecipare alla seconda indagine internazionale OCSE-PISA (primavera 2003), privandosi di uno strumento impareggiabile di conoscenza della situazione dell’istruzione nel proprio territorio.

La nostra analisi del progetto di legge della Regione E.R. si svilupperà sui seguenti punti:

  1. Abdicazione ai propri poteri e mantenimento dello status quo

  2. Rinuncia alla conquista di un’efficace devoluzione in materia di istruzione

  3. Il mito del sistema integrato e dell’obbligo scolastico

  4. La grande assente: la formazione tecnico-professionale superiore

  5. Oltre gli anticipi nella scuola dell’infanzia

  6. La necessità di una battaglia politica propositiva

 

1 - Abdicazione ai propri poteri e mantenimento dello status quo

Il primo dato che emerge  è l’intento dell’Emilia Romagna di abdicare per legge ai propri poteri e di adoperarsi, con lo strumento della legge, per il mantenimento dello status quo.

La regione dichiara infatti di rinunciare alla quota di curricolo che la legge le assegnerà per devolverlo alle scuole autonome, ed esprime contemporaneamente l’intenzione di elaborare propri “progetti concernenti innovazioni di carattere ordinamentale da proporre allo Stato ai sensi dell’art. 11 del DPR 8 marzo 1999, n. 275”. In definitiva una rinuncia alla propria autonomia di intervento per ripercorrere la strada delle autorizzazioni ministeriali.

Dichiara inoltre di non avere alcun interesse a “rivendicare la gestione di una parte degli attuali istituti professionali di Stato”, che la riforma del Titolo V assegna alla sua legislazione esclusiva. In questo modo la Regione ripropone immodificata la deleteria dicotomia fra istruzione professionale statale e formazione professionale regionale, due categorie ibride ai margini della classificazione internazionale, che, nel panorama europeo, rappresentano una vera e propria anomalia, "una rarità", è stato detto. Contemporaneamente perpetua il mito dell’integrazione fra i due sistemi, che di fatto complica e ostacola l’elaborazione e la gestione di percorsi professionalizzanti innovativi e agili. In realtà l’unico vero obiettivo che la Regione raggiunge con questa impostazione è la conquista del consenso di entrambe le corporazioni: le agenzie e i formatori regionali da un lato, i docenti e i dirigenti degli Istituti professionali statali dall'altro, entrambe rassicurate  che nulla cambierà.

 

2 - Rinuncia alla conquista di un’efficace devoluzione in materia di istruzione

Con questo progetto di legge, la Regione rinuncia all’obiettivo di costruire un’efficace devoluzione nel settore dell’istruzione . Il progetto si muove ancora nell’ottica delle autorizzazioni ministeriali (si veda la rinuncia ai propri poteri per ricadere nella pratica delle sperimentazioni concesse da Roma) e in quella della pura contrapposizione fra centro e periferia (richiesta di un fondo da spartire con l’Ufficio scolastico regionale, di emanazione ministeriale, per “contrastare i tagli”, anziché rivendicare una propria gestione unitaria dell’insieme del sistema dell’istruzione).

La riforma del Titolo V della Costituzione non ha realizzato per la scuola, quella devoluzione coraggiosa che avrebbe dovuto liberarla dagli antichi vincoli centralistici. Sono stati fatti passi parziali e a volte contraddittori, come è  il caso delle diverse responsabilità assegnate alle Regioni per l’“istruzione e formazione professionale” rispetto a quelle relative a tutti gli altri settori dell’istruzione. Occorre maggiore chiarezza e maggiore decisione nella decentralizzazione dei poteri dello Stato, e senza distinguo e separazioni fra i diversi settori dell’istruzione. Occorre cioè una devoluzione impostata su due principi fondamentali: a) il mantenimento in capo allo Stato della definizione del quadro normativo generale di tutta l’istruzione, compresa quella professionale, se non altro perché i diplomi e le qualifiche devono avere valenza nazionale ed essere equiparabili in ambito europeo; b) il trasferimento alle Regioni dell’amministrazione di tutta l’istruzione, senza distinzioni di sorta. Va in tal senso approfondito e completato il processo avviato con il decreto legislativo n.112 del 31 marzo 1998, che ha attribuito alle Regione solo le competenze “di programmazione dell’offerta formativa e della rete scolastica”, mentre sono rimaste agli Uffici scolastici regionali, di diretta emanazione ministeriale, quelle, ad esempio, della programmazione e della gestione degli organici del personale.  E’ invece evidente che non devono più esserci sul territorio uffici statali, e che quelli esistenti devono trasformarsi in strutture interne all’amministrazione regionale. In tal modo si eviterebbero fra l’altro le costanti diatribe fra centro e periferia sulla questione degli organici. Chi ha il potere decisionale sulla programmazione e sullo sviluppo delle sedi scolastiche deve averlo anche sul personale . Sarebbe questo l’unico modo peraltro per superare la dicotomia gestionale fra i docenti degli Istituti Professionali (assegnati alle Regioni dalla riforma costituzionale) e quelli delle altre scuole secondarie superiori. E’ questa dicotomia infatti che costituisce oggi, ed ha sempre costituito in passato, uno dei principali motivi della fortissima e reiterata opposizione al passaggio dell’istruzione professionale statale alle Regioni. Un’opposizione che si manifestò  dopo la nascita delle Regioni, quando la legge 845/78, successiva al DPR 10/72 ( con il quale si dava attuazione a quella parte dell’art. 117 che attribuiva alle regioni “l’istruzione artigiana e professionale”), dovette sancire la separazione anche lessicale fra “formazione professionale” regionale ( termine appositamente coniato) e “istruzione professionale” statale. Gli Istituti Professionali, cresciuti e consolidati nell’alveo della più generale istruzione statale, si schierarono  infatti risolutamente contro la propria regionalizzazione. La stessa opposizione si è riproposta più recentemente nei confronti dei provvedimenti Bassanini, che volevano rilanciare il passaggio alle Regioni di tutta l’istruzione professionale. Alla fine, il trasferimento ha riguardato poche decine di Istituti Professionali, quelli  privi di corsi quinquennali (Dlgs. n. 112 del 31 marzo 1998). Di tutto questo non si è tenuto conto quando si è formulato il nuovo articolo 117, che, riproponendo la regionalizzazione degli istituti professionali statali, e il loro distacco dal resto dell’istruzione secondaria che rimane amministrata dallo stato, sta provocando le stesse reazioni.

Norberto Bottani - direttore dello SRED di Ginevra, per anni direttore dell’attività di ricerca educativa dell’OCSE- così si è espresso sulla devoluzione (lettera pubblicata sul website dell’ADi nel marzo scorso): <<(…) sarebbe buona cosa accettare una volta per tutte il principio del federalismo scolastico senza più nessuna riserva mentale, senza calcoli meschini e considerazioni fumose che mascherano malcelati interessi corporativi e studiare un piano serio, dettagliato  di decentramento completo del sistema scolastico italiano. Nessuno può pretendere di  realizzare un piano del genere dall'oggi al domani, anche perché lo si deve preparare con grande professionalismo, studiarlo nei dettagli e pianificarlo rigorosamente senza avventure stile "onda anomala". Ci vorranno dieci o quindici anni per trasformare la scuola. Il progetto quindi non potrà essere che bipartisan, come si suol dire ora, perché nessuno ha la certezza che una  stessa maggioranza possa governare così a lungo. Per questa ragione, l'influsso principale lo eserciterà il gruppo che saprà prepararsi meglio. (…)E' una sfida, ma chi ha fede - quella laica nella razionalità pragmatica - potrebbe anche vincerla>>.

Vogliamo infine ricordare che in tutta Europa le riforme scolastiche sono state costruite negli ultimi vent’anni sul decentramento dei poteri dello stato e sull’autonomia delle scuole. Esemplari sono i casi della Spagna, dove la riforma, che ha avuto un iter più che decennale, si è strettamente intrecciata alla costruzione delle Regioni (“Comunità Autonome”), e della Svezia, dove successivi provvedimenti hanno portato nel corso di circa vent’anni al totale decentramento del governo dell’istruzione. Vogliamo anche ricordare che questi processi non sono stati né di destra né di sinistra, in Spagna, ad esempio, sono stati promossi dal governo socialista di Gonzales e in Svezia dai conservatori tornati  al potere nel 1976 dopo 43 anni di ininterrotto governo socialdemocratico. In entrambi i Paesi, quando la maggioranza governativa è cambiata, il decentramento non è assolutamente stato rimesso in discussione.  

Non ci pare purtroppo questo lo spirito che anima la Regione Emilia Romagna.

 

3 - Il mito del sistema integrato e dell’obbligo scolastico

La questione dell’obbligo scolastico  è il perno attorno a cui ruota tutto il progetto di legge della Regione Emilia Romagna , e in nome del quale sono ipotizzati percorsi di integrazione fra scuola e formazione professionale in tutti gli ordini di scuola secondaria superiore. L’assolvimento dell’obbligo dentro alla scuola appare tanto dirimente per la Regione che uno dei pochissimi punti sui quali il progetto di legge definisce poteri decisionali è il veto all’accesso alla formazione professionale prima dei 15 anni, anche in eventuale contrapposizione con decisioni nazionali. 

Non si tiene conto in tutto questo che la questione dell’obbligo scolastico è oggi un falso problema in quanto c’è  un principio che lo vanifica, perchè lo ricomprende, ed è l’obbligo formativo fino a 18 anni, che è il vero obiettivo da perseguire con la massima determinazione.

Anziché arroccarci sulla questione dell’obbligo scolastico fino ai 15/16 anni, sarebbe molto più rispondente a criteri di equità elaborare percorsi di formazione, articolati e vari, che portino tutti all’acquisizione della maturità professionale entro il diciottesimo anno di età, come avviene nella maggior parte dei Paesi europei. L’obiettivo che ci si deve dare è quello di consentire a tutti, nessuno escluso, di ottenere, entro la scadenza del 18esimo anno di età una qualifica. Che questa sia acquisita in un percorso scolastico, oppure nella formazione professionale o in percorsi di alternanza scuola-lavoro, poco importa. Ciò che importa è la qualità della formazione impartita, l’equiparabilità delle qualifiche ovunque acquisite, e la possibilità di proseguire verso la formazione superiore, non solo universitaria. Si tratta di costruire percorsi sufficientemente attraenti per i giovani, tali da indurli a rimanere in formazione e non a scappar via, come oggi avviene. Qui invece ci si impantana in una faccenda giuridica che poco ha a che fare con la posta in gioco . Gli Stati europei tendono ormai a creare condizioni che permettano di tenere in formazione la totalità dei giovani fino ai 18 anni. In certi Paesi questo obiettivo è quasi raggiunto con tassi di formazione a 18 anni del 90 per cento. Tutto ciò senza avere modificato di uno iota la durata dell'obbligo scolastico, che può benissimo scadere a 14, 15, 16 anni, tanto fa lo stesso. La domanda d'istruzione ha relativizzato l'importanza dell'obbligo scolastico. Solo se si identifica l'obbligo scolastico con l'obbligo di frequentare un certo tipo di scuola si generano problemi artificiosi, ci si complica la vita. Questo modello non sta più in piedi nelle società postmoderne, come ha in più occasioni avuto a dire Norberto Bottani, esaminando la situazione della formazione secondaria in Italia.

La posta in gioco è tale che occorre prescindere dagli interessi delle corporazioni,  insegnanti o  formatori, che hanno sempre condizionato l’unificazione fra istruzione e formazione professionale. Si tratta invece di fare fino in fondo l’interesse dei giovani, di quei giovani che dimostrano sempre più insofferenza al tradizionale stare in classe. Dall’indagine OCSE-PISA risulta che un quarto degli studenti quindicenni di 32 paesi non ha più nessuna voglia di andare a scuola e non desidera altro che smettere di frequentarla, questa proporzione è del 38%in Italia. Di tutto questo il Pdl non tiene nessun conto e non fa nemmeno cenno ai percorsi di alternanza scuola-lavoro ( che non sono l’apprendistato) , una modalità in atto in vari Paesi europei che, se ben concepita, rappresenta un modello efficace di formazione, in alternativa alla scuola tradizionale. L’alternanza scuola-lavoro è un sistema  che permette ad un numero importante di giovani non solo di imparare una professione, ma anche di elaborare nuove efficaci strategie d’apprendimento. Nonostante la diffidenza con cui l’alternanza scuola-lavoro è guardata in Italia,  essa è ben lungi dall’essere uno sfruttamento larvato e subdolo di giovani lavoratori, essa esprime, al contrario, un’alta valenza educativa.

 

4 - La grande assente: l’istruzione tecnico-professionale di livello superiore

Un’altra grave carenza del Pdl è l’assenza di qualsiasi impegno nei confronti di un sistema di formazione superiore che si affianchi a quello universitario, che non può ridursi ai soli asfittici e precari IFTS, gli unici fugacemente richiamati nel Pdl . E’ questo invece un settore fondamentale, fortemente sviluppato negli altri stati europei e di cui noi siamo privi. La necessità di dotarci di questo percorso parallelo a quello universitario è dimostrata dal fatto che l’Italia è il Paese con il maggior numero di iscritti al primo anno di università e il minor numero di laureati.

Nel nostro Paese tutto l’assetto del percorso professionalizzante è obsoleto e debole, occorre ripensare l’intero impianto ed elaborare un sistema di formazione professionale completo. Su questa materia, che costituisce legislazione esclusiva della regione, è doveroso che la Regione intervenga anche con precisi impegni di legge.

 

5 - Oltre gli anticipi nella scuola dell’infanzia.

Nei confronti dell’anticipo delle iscrizioni alla scuola dell’infanzia dei bambini di due anni e mezzo, proposto dalla sperimentazione Moratti, e presente nel Ddl di riforma, il Pdl regionale si allinea con le posizioni di rifiuto espresse dai sindacati della scuola.

Vale la pena, a questo proposito,  ricordare che mentre da noi infuriava questa polemica contro gli anticipi, in Francia i sindacati degli insegnanti proclamavano per il 6 settembre 2002  uno sciopero per motivi opposti, ossia contro la decisione del nuovo Governo di  diminuire le ammissioni alla scuola dell’infanzia dei bambini di 2 anni. Attualmente in Francia il 35% dei bambini di 2 anni frequenta la scuola dell’infanzia, rispetto al 99% di quelli fra i 3 e i 6 anni.

Non vi è dubbio comunque che, al di là delle specifiche contingenze, ci si trovi in  presenza di due tendenze convergenti che premono per accessi precoci, da un lato la crescente richiesta sociale di servizi per la primissima infanzia, che se inseriti nel sistema scolastico diventano gratuiti,  dall’altro l’abbandono di qualsiasi tratto assistenziale nei nidi da 0 a 3 anni a favore di spiccate caratteristiche educative. Si sta insomma ripercorrendo per i servizi riservati a questa fascia di età la stessa strada che portò in Italia gli antichi asili a diventare prima scuole materne poi scuole dell’infanzia. Passaggi non nominalistici ma di contenuto, che  negli anni ’70 furono sostenuti dalla gloriosa parola d’ordine “Il diritto allo studio comincia a tre anni”.

A livello europeo una legge particolarmente avanzata sotto questo profilo è la LOGSE (Ley Orgánica de Ordenación General del Sistema Educativo) ossia la legge di riforma della scuola spagnola varata dal socialista Gonzales nel 1990. In essa tutta l’educazione prescolare , l’Educación infantil, da 0 a 6 anni è diventata parte integrante del sistema dell’istruzione, ed è suddivisa in 2 cicli, 0-3 e 0-6. Nel primo ciclo il rapporto insegnante/bambini è di 1/8 nelle sezioni con iscritti al di sotto dell’anno, di 1/13  da 1 a 2 anni, di 1/20  da 2 a 3 anni, mentre nel secondo ciclo di 1/25 in tutte le sezioni da 3 a 6 anni.

In Italia l’unificazione fra asili nido e scuole dell’infanzia  all’interno del sistema dell’istruzione  è ancora  molto lontana. Ci si aspetta però che una regione come l’Emilia Romagna , nota in tutto il mondo per la qualità dei suoi “asili nido”, faccia qualcosa di più che opporre dei rifiuti agli anticipi o prevedere soluzioni tampone. Ciò a cui si assiste  sono timidi tentativi di parziali aggregazioni di fatto. Ad esempio la delibera applicativa della Legge regionale E.R. n.1/2000, prevede le così dette “sezioni primavera”, denominazione con la quale vengono indicate le sezioni di nido  che accolgono bambini in età 2-3 anni aggregate a scuole dell’infanzia. Noi crediamo che la regione debba assumersi l’impegno politico perché possano svilupparsi processi  di inclusione di tutta l’educazione prescolare (0-6) nel sistema dell’istruzione . Un obiettivo che richiede non solo enormi investimenti, che devono essere pianificati e previsti con gradualità, ma anche  un governo unitario della scuola dell’infanzia e degli asili nido, che sarà possibile solo se le Regioni assumeranno il governo di tutto il sistema educativo del proprio territorio, portando coraggiosamente a compimento il processo, ancora contraddittorio e parziale, di devoluzione dell'istruzione.

 

6 - La necessità di una battaglia politica propositiva

L’insieme delle analisi e delle proposte che siamo venuti formulando  portano alla conclusione che in questa fase non serve tanto una legge regionale, e ancor meno questo progetto di legge, quanto piuttosto la capacità di avanzare puntuali e qualificate proposte in tutte le sedi istituzionali anche e soprattutto al fine di modificare il modello governativo. Un modello che ha collocato il percorso professionale in posizione subalterna nei confronti del  restante settore dell’istruzione secondaria di secondo grado, cancellando le parti più avanzate delle proposte  del Gruppo ristretto di lavoro,  secondo le quali dopo i 14 anni tutti i percorsi secondari avrebbero dovuto avere pari dignità e simmetricità fino a 18 anni, ed essere tutti proiettati verso la  formazione superiore non più solo universitaria. Al posto di questo percorso quadriennale per tutti, il Ddl ha  ripristinato la durata quinquennale per i soli licei, con una riproposizione dell’arcaica gerarchizzazione e distinzione fra cultura “disinteressata” e preparazione al lavoro. Contemporaneamente non ha dato nessuna chiara indicazione per la formazione professionale superiore, lasciando come unica ipotesi quella degli attuali asfittici IFTS. L’incapacità e la mancanza di volontà del governo di dare ampio respiro all’istruzione e formazione professionale nel Ddl, si sono riproposte nei protocolli regionali firmati con cinque regioni . La  finalità dichiarata di questi protocolli è quella di avviare la “sperimentazione di nuovi modelli nel sistema d’istruzione e formazione”, ma in realtà essi si limitano, come si evince dal testo, unicamente alla formazione professionale regionale. Non solo, l’intervento appare ristretto alla sola parte debole  della formazione professionale, quella che interessa la fascia di ragazzi che di norma abbandona la scuola nel corso dell’ultimo anno di obbligo o che al termine dell’obbligo non si iscrive in nessun percorso successivo.  Un’iniziativa, quindi, che ha poco a che fare con una politica d’ampio respiro che si ponga l’obiettivo ambizioso di sperimentare nuovi modelli di istruzione e formazione professionale, generalizzabili su scala nazionale. Un’iniziativa che appare piuttosto circoscritta alla riproposizione dell’antica ipotesi di assolvimento dell'obbligo scolastico nei centri regionali. Una linea di arretramento, perché non tiene conto né di  trent’anni di fallimenti dei corsi regionali di primo livello , né del fatto che ormai solo in Italia, Francia e Spagna ci sono programmi corti di formazione professionale, e che questi stanno scomparendo ovunque. Dunque anche nei protocolli firmati dalle 5 Regioni del centrodestra, dal MIUR e dal Ministero del Lavoro ci si è impantanati, sia pure con un’operazione inversa, nella questione dell’obbligo scolastico, dirottandolo nella formazione regionale, anzichè prevedere ipotesi di ampio respiro impostate sull’obbligo formativo ai 18 anni.

Un altro terreno, oltre all’istruzione e formazione professionale, in cui  c’era e c’è ampio spazio per una battaglia politica avanzata, è quello dell’educazione prescolare. Non vi è dubbio infatti che anche sulla questione anticipi della scuola dell’infanzia,  la posizione governativa non sia particolarmente lungimirante, ma parallelamente la posizione dell’Emilia Romagna non dà nessuna indicazione di prospettiva. Cade di nuovo nel tranello: anziché rilanciare verso l’alto e battersi per un articolo nella legge di riforma che si ispiri, ad esempio, alla LOGSE spagnola varata dal socialista Gonzales con l’inclusione  di tutta l’educazione prescolare da 0 a 6 anni nell’istruzione,  si allinea pedissequamente alle posizioni sindacali, limitandosi all’opposizione nei confronti degli anticipi e ad eventuali soluzioni tampone.

Ben altro da questa Regione ci si potrebbe e dovrebbe aspettare