La posizione dell'ADi
La Regione pare non considerare questi dati allarmanti, e, secondo le dichiarazioni dell’assessore Bastico, parte dall’assunto che la scuola, almeno in Emilia Romagna, sia in buone condizioni. Un giudizio che prescinde però da qualsiasi indagine rigorosa e sistematica, di cui questa regione pare non
sentire il bisogno, tanto che, a differenza della Lombardia, del Piemonte e del Trentino, l'Emilia Romagna non ha accolto l’invito a partecipare alla seconda indagine internazionale OCSE-PISA (primavera 2003), privandosi di uno strumento impareggiabile di conoscenza della situazione dell’istruzione nel proprio territorio.
La nostra analisi del progetto di legge della Regione E.R. si svilupperà sui seguenti punti:
Abdicazione ai propri poteri e mantenimento dello status quo
Rinuncia alla conquista di un’efficace devoluzione in materia di istruzione
Il mito del sistema integrato e dell’obbligo scolastico
La grande assente: la formazione tecnico-professionale superiore
Oltre gli anticipi nella scuola dell’infanzia
La necessità di una battaglia politica propositiva
1 - Abdicazione ai propri poteri e mantenimento dello status quo
Il primo dato che emerge
è l’intento dell’Emilia Romagna di abdicare per legge ai propri poteri e di adoperarsi, con lo strumento della legge, per il mantenimento dello status quo.
La regione dichiara infatti di rinunciare alla quota di curricolo che la legge le assegnerà per devolverlo alle scuole autonome, ed esprime contemporaneamente l’intenzione di elaborare propri “progetti concernenti innovazioni di carattere ordinamentale da proporre allo Stato ai sensi dell’art. 11 del DPR 8 marzo 1999, n. 275”. In definitiva una rinuncia alla propria autonomia di intervento per ripercorrere la strada delle
autorizzazioni ministeriali.
Dichiara inoltre di non avere alcun interesse a “rivendicare la gestione di una parte degli attuali istituti professionali di Stato”, che la riforma del Titolo V assegna alla sua legislazione esclusiva. In questo modo la Regione ripropone immodificata la deleteria dicotomia fra istruzione professionale statale e formazione professionale regionale, due categorie ibride
ai margini della classificazione internazionale, che, nel panorama europeo, rappresentano una vera e propria anomalia, "una rarità", è stato detto. Contemporaneamente perpetua il mito dell’integrazione fra i due sistemi, che di fatto complica e ostacola l’elaborazione e la gestione di percorsi professionalizzanti innovativi e agili. In realtà l’unico vero obiettivo che la Regione raggiunge con questa impostazione è la conquista del consenso di entrambe le corporazioni: le agenzie e i formatori regionali da un lato, i
docenti e i dirigenti degli Istituti professionali statali dall'altro, entrambe rassicurate
che nulla
cambierà.
Norberto Bottani - direttore dello SRED di Ginevra, per anni direttore dell’attività di ricerca educativa dell’OCSE- così si è espresso sulla devoluzione (lettera pubblicata sul website dell’ADi nel marzo scorso): <<(…) sarebbe buona cosa accettare una volta per tutte il principio del federalismo scolastico senza più nessuna riserva mentale,
senza calcoli meschini e considerazioni fumose che mascherano malcelati interessi corporativi e studiare un piano serio, dettagliato
di decentramento completo del sistema scolastico italiano. Nessuno può pretendere di
realizzare un piano
del genere dall'oggi al domani, anche perché lo si deve preparare con grande professionalismo, studiarlo nei dettagli e pianificarlo rigorosamente senza avventure stile "onda anomala". Ci vorranno dieci o quindici anni per trasformare la scuola. Il progetto quindi non potrà essere che bipartisan, come si suol dire ora, perché nessuno ha la certezza che una
stessa maggioranza possa governare così a lungo. Per questa ragione, l'influsso principale lo eserciterà il gruppo che saprà prepararsi meglio. (…)E' una sfida, ma chi ha fede - quella laica nella razionalità pragmatica - potrebbe anche vincerla>>.
Vogliamo infine ricordare che in tutta Europa le riforme scolastiche sono state costruite negli ultimi vent’anni sul decentramento dei poteri dello stato e sull’autonomia delle scuole. Esemplari sono i casi della Spagna, dove la riforma, che ha avuto un iter più che decennale, si è strettamente intrecciata alla costruzione delle Regioni (“Comunità
Autonome”), e della Svezia, dove successivi provvedimenti hanno portato nel corso di circa vent’anni al totale decentramento del governo dell’istruzione. Vogliamo anche ricordare che questi processi non sono stati né di destra né di sinistra, in Spagna, ad esempio, sono stati promossi dal governo socialista di Gonzales e in Svezia dai conservatori tornati
al potere nel 1976 dopo 43 anni di ininterrotto governo socialdemocratico. In entrambi i Paesi, quando la maggioranza governativa è cambiata, il decentramento non è assolutamente stato rimesso in discussione.
Non ci pare purtroppo questo lo spirito che anima la Regione Emilia Romagna.
3
-
Il mito del sistema integrato e dell’obbligo scolastico
La questione dell’obbligo scolastico
è il perno attorno a cui ruota tutto il progetto di legge della Regione Emilia Romagna
, e in nome del quale sono ipotizzati percorsi di integrazione fra scuola e formazione professionale in tutti gli ordini di scuola secondaria superiore. L’assolvimento dell’obbligo dentro alla scuola appare tanto dirimente per la Regione che uno dei pochissimi punti sui quali il progetto di legge definisce poteri decisionali è il veto all’accesso alla formazione professionale prima dei 15 anni, anche in eventuale contrapposizione con decisioni
nazionali.
Non si tiene conto in tutto questo che la questione dell’obbligo scolastico è oggi un falso problema in quanto c’è
un principio che lo vanifica, perchè lo ricomprende, ed è l’obbligo formativo fino a 18 anni, che è il vero obiettivo da perseguire con la massima determinazione.
Anziché arroccarci sulla questione dell’obbligo scolastico fino ai 15/16 anni, sarebbe molto più rispondente a criteri di equità elaborare percorsi di formazione, articolati e vari, che portino tutti all’acquisizione della maturità professionale entro il diciottesimo anno di età, come avviene nella maggior parte dei Paesi europei. L’obiettivo che ci
si deve dare è quello di consentire a tutti, nessuno escluso, di ottenere, entro la scadenza del 18esimo anno di età una qualifica. Che questa sia acquisita in un percorso scolastico, oppure nella formazione professionale o in percorsi di alternanza scuola-lavoro, poco importa. Ciò che importa è la qualità della formazione impartita, l’equiparabilità delle qualifiche ovunque acquisite, e la possibilità di proseguire verso la formazione superiore, non solo universitaria. Si tratta di
costruire percorsi sufficientemente attraenti per i giovani, tali da indurli a rimanere in formazione e non a scappar via, come oggi avviene. Qui invece ci si impantana in una faccenda giuridica che poco ha a che fare con la posta in gioco . Gli Stati europei tendono ormai a creare condizioni che permettano di tenere in formazione la totalità dei giovani fino ai 18 anni. In certi Paesi questo obiettivo è quasi raggiunto con tassi di formazione a 18 anni del 90 per cento. Tutto ciò senza avere modificato di uno iota la durata dell'obbligo
scolastico, che può benissimo scadere a 14, 15, 16 anni, tanto fa lo stesso. La domanda d'istruzione ha relativizzato l'importanza dell'obbligo scolastico. Solo se si identifica l'obbligo scolastico con l'obbligo di frequentare un certo tipo di scuola si generano problemi artificiosi, ci si complica la vita. Questo modello non sta più in piedi nelle società postmoderne, come ha in più occasioni avuto a dire Norberto Bottani, esaminando la situazione della formazione secondaria in Italia.
La posta in gioco è tale che occorre prescindere dagli interessi delle corporazioni,
insegnanti o
formatori, che hanno sempre condizionato l’unificazione fra istruzione e formazione professionale. Si tratta invece di fare fino in fondo l’interesse dei giovani, di quei giovani che dimostrano sempre più insofferenza al tradizionale stare in classe. Dall’indagine OCSE-PISA risulta che un quarto degli studenti quindicenni di 32 paesi non ha più nessuna voglia di andare a scuola e non desidera altro che smettere di frequentarla, questa proporzione è del 38%in Italia. Di tutto questo il Pdl non tiene nessun conto e non fa nemmeno
cenno ai percorsi di alternanza scuola-lavoro ( che non sono l’apprendistato)
,
una modalità in atto in vari Paesi europei che, se ben concepita, rappresenta un modello efficace di formazione, in alternativa alla scuola tradizionale. L’alternanza scuola-lavoro è un sistema
che permette ad un numero importante di giovani non solo di imparare una professione, ma anche di elaborare nuove efficaci strategie d’apprendimento. Nonostante la diffidenza con cui l’alternanza scuola-lavoro è guardata in Italia,
essa è ben lungi dall’essere uno sfruttamento larvato e subdolo di giovani lavoratori, essa esprime, al contrario, un’alta valenza educativa.
4 - La grande assente: l’istruzione tecnico-professionale di livello superiore
Un’altra grave carenza del Pdl è l’assenza di qualsiasi impegno nei confronti di un sistema di formazione superiore che si affianchi a quello universitario, che non può ridursi ai soli asfittici e precari IFTS, gli unici fugacemente richiamati nel Pdl . E’ questo invece un settore fondamentale, fortemente sviluppato negli altri stati europei e di cui noi siamo privi. La
necessità di dotarci di questo percorso parallelo a quello universitario è dimostrata dal fatto che l’Italia è il Paese con il maggior numero di iscritti al primo anno di università e il minor numero di laureati.
Nel nostro Paese tutto l’assetto del percorso professionalizzante è obsoleto e debole, occorre ripensare l’intero impianto ed elaborare un sistema di formazione professionale completo. Su questa materia, che costituisce legislazione esclusiva della regione, è doveroso che la Regione intervenga anche con precisi impegni di legge.
5
- Oltre gli anticipi nella scuola dell’infanzia.
Nei confronti dell’anticipo delle iscrizioni alla scuola dell’infanzia dei bambini di due anni e mezzo, proposto dalla sperimentazione Moratti, e presente nel Ddl di riforma, il Pdl regionale si allinea con le posizioni di rifiuto espresse dai sindacati della scuola.
Vale la pena, a questo proposito,
ricordare che mentre da noi infuriava questa polemica contro gli anticipi, in Francia i sindacati degli insegnanti proclamavano per il 6 settembre 2002
uno sciopero per motivi opposti, ossia contro la decisione del nuovo Governo di
diminuire le ammissioni alla scuola dell’infanzia dei bambini di 2 anni. Attualmente in Francia il 35% dei bambini di 2 anni frequenta la scuola dell’infanzia, rispetto al 99% di quelli fra i 3 e i 6 anni.
Non vi è dubbio comunque che, al di là delle specifiche contingenze, ci si trovi in
presenza di due tendenze convergenti che premono per accessi precoci, da un lato la crescente richiesta sociale di servizi per la primissima infanzia, che se inseriti nel sistema scolastico diventano gratuiti,
dall’altro l’abbandono di qualsiasi tratto assistenziale nei nidi da 0 a 3 anni a favore di spiccate caratteristiche educative. Si sta insomma ripercorrendo per i servizi riservati a questa fascia di età la stessa strada che portò in Italia gli antichi asili a diventare prima scuole materne poi scuole dell’infanzia. Passaggi non nominalistici ma di contenuto, che
negli anni ’70 furono sostenuti dalla gloriosa parola d’ordine “Il diritto allo studio comincia a tre anni”.
A livello europeo una legge particolarmente avanzata sotto questo profilo è la LOGSE (Ley Orgánica de Ordenación General del Sistema Educativo) ossia la legge di riforma della scuola spagnola
varata dal socialista Gonzales nel 1990. In essa
tutta l’educazione prescolare
, l’Educación infantil,
da 0 a 6 anni è diventata parte integrante del sistema dell’istruzione, ed è suddivisa in 2 cicli, 0-3 e 0-6.
Nel primo ciclo il rapporto insegnante/bambini è di 1/8 nelle sezioni con iscritti al di sotto dell’anno, di 1/13
da 1 a 2 anni, di 1/20
da 2 a 3 anni, mentre nel secondo ciclo di 1/25 in tutte le sezioni da 3 a 6 anni.
In Italia l’unificazione fra asili nido e scuole dell’infanzia
all’interno del sistema dell’istruzione
è ancora
molto lontana. Ci si aspetta però che una regione come
l’Emilia Romagna
, nota in tutto il mondo per la qualità dei suoi “asili nido”,
faccia qualcosa di più che opporre dei rifiuti agli anticipi o prevedere soluzioni tampone. Ciò a cui si assiste
sono timidi tentativi di parziali aggregazioni di fatto. Ad esempio la delibera applicativa della Legge regionale E.R. n.1/2000, prevede le così dette “sezioni primavera”, denominazione con la quale vengono indicate le sezioni di nido
che accolgono bambini in età 2-3 anni aggregate a scuole dell’infanzia.
Noi crediamo che la regione debba assumersi l’impegno politico perché possano svilupparsi processi di inclusione di tutta l’educazione prescolare (0-6) nel sistema dell’istruzione
. Un obiettivo che richiede non solo enormi investimenti, che devono essere pianificati e previsti con gradualità, ma anche
un governo unitario della scuola dell’infanzia e degli asili nido, che sarà possibile solo se le Regioni assumeranno il governo di tutto il sistema educativo del proprio territorio, portando coraggiosamente a compimento il processo, ancora contraddittorio e parziale, di devoluzione dell'istruzione.
6
- La necessità di una battaglia politica propositiva
L’insieme delle analisi e delle proposte che siamo venuti formulando
portano alla conclusione che in questa fase non serve tanto una legge regionale, e ancor meno questo progetto di legge, quanto piuttosto la capacità di avanzare puntuali e qualificate proposte in tutte le sedi istituzionali anche e soprattutto al fine di modificare il modello governativo. Un modello che ha collocato il percorso professionale in posizione subalterna nei confronti del
restante settore dell’istruzione secondaria di secondo grado, cancellando le parti più avanzate delle proposte
del Gruppo ristretto di lavoro,
secondo le quali dopo i 14 anni tutti i percorsi secondari avrebbero dovuto avere pari dignità e simmetricità fino a 18 anni, ed essere tutti proiettati verso la
formazione superiore non più solo universitaria. Al posto di questo percorso quadriennale per tutti, il Ddl ha
ripristinato la durata quinquennale per i soli licei, con una riproposizione dell’arcaica gerarchizzazione e distinzione fra cultura “disinteressata” e preparazione al lavoro. Contemporaneamente non ha dato nessuna chiara indicazione per la formazione professionale superiore, lasciando come unica ipotesi quella degli attuali asfittici IFTS. L’incapacità e la mancanza di volontà del governo di dare ampio respiro all’istruzione e formazione professionale nel Ddl, si sono riproposte nei protocolli regionali firmati con cinque
regioni . La
finalità dichiarata di questi protocolli è quella di avviare la “sperimentazione di nuovi modelli nel sistema d’istruzione e formazione”, ma in realtà essi si limitano, come si evince dal testo, unicamente alla formazione professionale regionale. Non solo, l’intervento appare ristretto alla sola parte debole
della formazione professionale, quella che interessa la fascia di ragazzi che di norma abbandona la scuola nel corso dell’ultimo anno di obbligo o che al termine dell’obbligo non si iscrive in nessun percorso successivo.
Un’iniziativa, quindi, che ha poco a che fare con una politica d’ampio respiro che si ponga l’obiettivo ambizioso di sperimentare nuovi modelli di istruzione e formazione professionale, generalizzabili su scala nazionale. Un’iniziativa che appare piuttosto circoscritta alla riproposizione dell’antica ipotesi di assolvimento dell'obbligo scolastico nei centri regionali. Una
linea di arretramento, perché non tiene conto né di
trent’anni di fallimenti dei corsi regionali di primo livello , né del fatto che ormai solo in Italia, Francia e Spagna ci sono programmi corti di formazione professionale, e che questi stanno scomparendo ovunque. Dunque anche nei protocolli firmati dalle 5 Regioni del centrodestra, dal MIUR e dal Ministero del Lavoro ci si è impantanati, sia pure con un’operazione inversa, nella questione dell’obbligo scolastico, dirottandolo nella formazione regionale, anzichè
prevedere ipotesi di ampio respiro impostate sull’obbligo formativo ai 18 anni.
Un altro terreno, oltre all’istruzione e formazione professionale, in cui
c’era e c’è ampio spazio per una battaglia politica avanzata, è quello dell’educazione prescolare. Non vi è dubbio infatti che anche sulla questione anticipi della scuola dell’infanzia,
la posizione governativa non sia particolarmente lungimirante, ma parallelamente la posizione dell’Emilia Romagna non dà nessuna indicazione di prospettiva. Cade di nuovo nel tranello: anziché rilanciare verso l’alto e battersi per un articolo nella legge di riforma che si ispiri, ad esempio, alla LOGSE spagnola varata dal socialista Gonzales con l’inclusione
di tutta l’educazione prescolare da 0 a 6 anni nell’istruzione,
si allinea pedissequamente alle posizioni sindacali, limitandosi all’opposizione nei confronti degli anticipi e ad eventuali soluzioni tampone.
Ben altro da questa Regione ci si potrebbe e dovrebbe aspettare