Le buone pratiche

Il tema delle "buone pratiche" è diventato un ritornello ossessionante nelle sfere che si occupano dei programmi europei d'istruzione e formazione. Nessuno però ha finora condotto un rigoroso esame critico della pertinenza e della validità del principio delle "buone pratiche". Orbene, il fondamento teorico del ricorso alle buone pratiche è il contagio delle politiche dell'istruzione della formazione, ma una procedura del genere, di chiaro stampo ottocentesco, meriterebbe di essere messa alla prova. A Bruxelles, le buone pratiche, in primis, sono quelle della gestione e dell'amministrazione. Queste sono rilevate dalla Commissione che raccoglie informazioni in tutti i paesi Membri e le compara per selezionare quelle da sottoporre ai governanti ed ai funzionari, in tutti i campi della politica statale. Poi, scendendo sempre più giù, si arriva anche al livello di una rete di scuole, di un istituto scolastico o di un singolo insegnante. Per esempio, il documento appena citato sull'apprendimento linguistico è una stucchevole lista di buone pratiche.

Il viaggio pedagogico, la trasferta in loco, la visita sul posto per visionare le buone pratiche o per scoprirle è stata una costante della storia dell'educazione comparata dai primi decenni del XIX secolo, quando i sistemi scolastici statali non erano ancora nati. I comparativisti dei paesi tra loro in competizione sul piano economico, industriale, commerciale, come l'Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti, ossia le potenze dell'epoca, giravano l'Europa ed il mondo per osservare esperienze, innovazioni, scuole, amministrazioni con la speranza di scovare soluzioni ideali per impiantare un buon sistema scolastico ed avere buone scuole. A quell'epoca i modelli erano la Prussia e la Confederazione elvetica. Adesso, alla luce dei risultati di PISA, sono la Finlandia o la Corea.

In piena crisi sulla qualità della scuola, nel bel mezzo degli anni 80, le autorità federali americane, hanno prodotto un opuscolo stampato a grande tiratura e distribuito ovunque negli Stati Uniti, dal titolo significativo "What works" (Ciò che funziona). L'opuscolo era una specie di ricettario destinato ai docenti, ai presidi, agli assessori locali dell'istruzione, agli ispettori. Vi erano descritte soluzioni efficaci, comprovate, per migliorare la scuola e gli apprendimenti.

Invece di promuovere una strategia di "Ricerca e Sviluppo" che privilegia la produzione di conoscenza prima di passare alla pratica, ci si affida ormai a "Buone Pratiche e Generalizzazione". L'attivismo prende il sopravvento sulla teoria e sulla conoscenza. Il principio delle "pratiche migliori" nel settore dell'istruzione e della formazione deriva dal mondo della gestione amministrativa e degli affari che fa a meno di qualsiasi riferimento storico perché se un'esperienza fallisce i costi si recuperano, mentre invece l'astoricità delle "buone pratiche" nel campo scolastico non è raccomandabile perché le conseguenze sono non solo finanziarie (e lo sono pesantemente) ma anche educative, umane, istituzionali, sociali. Una volta commesso un errore è difficile ripararlo, fare marcia indietro, come lo dimostra a iosa la storia della scuola in Italia dal dopoguerra in poi.

Sarebbe importante identificare le fonti che sono all'origine di quelle che si pretendono essere le buone o le migliori pratiche. Tali fonti sono connesse alla ricerca scientifica? Le prove della bontà di una pratica, della sua efficacia, sono il frutto di valutazioni rigorose e controllate? In caso affermativo, di che genere di ricerca si tratta? Chi rilascia il certificato di "buona pratica"? Come lo si rilascia? Un'agenzia indipendente o neutra, un istituto di ricerca, oppure l'esperienza nazionale in un dato paese? Non mi sembra che per ora ci sia chiarezza su questi criteri a livello della Commissione europea e ancor meno della Direzione dell'istruzione e della cultura.


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