Infine una riflessione problematica


“… Le competenze più facili da insegnare e testare sono quelle che sono le più facili da digitalizzare, automatizzare a dare in appalto per il trattamento dati ed analisi ad enti esterni alla scuola …” da una intervista ad A. Schleicher riportata nel sito di Norberto Bottani

La cultura, e pertanto la formazione italiana, sono sempre state caratterizzate da una centratura umanistico- letteraria

Ciò è avvenuto da sempre in consonanza con la ipotesi europea che la formazione ottimale di una classe dirigente non dovesse essere tecnica, ma concernente gli sviluppi delle società umane in termini storici e culturali (humanities).

Ad Oxford e Cambridge i giovani destinati a divenire la classe dirigente del paese non studiavano solo o principalmente economia e diritto, ma anche storia se non letteratura o teologia.


Due sviluppi in direzioni opposte


Nella seconda parte del 20° secolo si è t enuta ferma a livello europeo l'ipotesi di una forte centratura, per la formazione, sull'asse umanistico, con sfumature qualitativamente e quantitativamente diverse. I pesi latino-mediterranei, ed in primo luogo l'Italia, in quanto sedi storiche originarie della cultura umanistica, sono state le sedi privilegiate di tale impostazione, anche se non sembra che il livello di acculturazione reale delle loro popolazioni ne sia stato fortemente influenzato.

Rispetto al periodo precedente in cui tutto ciò era destinato in via esclusiva alle classi privilegiate, che da questa formazione traevano asseverazione del loro privilegio, l'apporto democratico della seconda parte del Novecento è stato quello di offrire questo tipo di formazione, umanistica e nelle intenzione umanizzante, a tutta la popolazione.

Le ragioni erano plurime e sono state ben messe in evidenza in Italia al tempo del dibattito sulla scuola media unica: da una parte la sinistra ed i settori del cattolicesimo popolare sottolineavano le motivazioni relative ai diritti democratici ed alla equità sociale, dall'altra il mondo produttivo più avanzato convergeva, in forza della necessità di dotare i lavoratori di competenze più avanzate, all'altezza dei tempi.

Ma l' ipotesi di ampliare a tutti la fruizione della cultura “umanistica”, patrimonio un tempo esclusivo dei ceti privilegiati, sembra oggi fallita,anche se nessuno lo dice.

Di questo fallimento sono oggi indicatori il persistente analfabetismo funzionale e la perdita di prestigio della “cultura”.

La conclusione ne è la marginalizzazione dell'asse “umanistico” e la centralizzazione delle valutazioni e pertanto necessariamente dei sistemi formativi a livello internazionale, sulle competenze strumentali (1° e 2° lingua, matematica, TIC, abilità trasversali)


Perché la perdita di prestigio della cultura umanistica?


Dall'Illuminismo in poi l'idea di progresso dell'umanità era strettamente legata all'idea di cambiamento delle “ tecnologie” della società e a questo fine la conoscenza dei suoi sviluppi storici e delle sue modalità espressive ed artistiche era indispensabile.

Il futuro positivo delle evoluzioni delle società umane era pensato come possibile sulla base di una loro ristrutturazione, sic rebus stantibus, o con il trionfo dei migliori, o con il libero sviluppo di tutte le individualità o con il raggiungimento dell'uguaglianza. Il fallimento ad oggi di queste visioni del mondo sembra avere cambiato i paradigmi anche formativi.

Oggi il futuro progressivo dell'umanità – sia pure sentito come meno sicuro- sembra essere legato alle tecnologie della natura fra le quali ultimamente giganteggiano le tecnologie della comunicazione e della informazione e soprattutto le biotecnologie applicate alla specie umana.

Per la gestione e lo sviluppo di queste super–sofisticate tecnologie è necessario a livello di massa il possesso di alti livelli di strumentazioni funzionali nel campo delle conoscenze linguistiche e matematiche. Le conoscenze umanistiche tradizionali diventano superflue o riservate come un tempo a livelli elitari responsabili della gestione dei sistemi.



Esiste un problema?


La crescente centralità di prove concentrate su un asse di competenze “strumentali” sembra necessaria, per incrementare in modo effettivo il livello di alfabetizzazione della stragrande maggioranza dei cittadini.

A partire dagli anni 70 infatti la formazione ha assunto compiti sempre più impegnativi ed onnicomprensivi: trasmettere un sapere culturale non più banalizzato e semplificato, prendersi cura degli aspetti espressivi ed “emotivi“ della persona, etc. Ma ciò sembra avere ridotto il possesso delle competenze strumentali di base e perciò, in ultima analisi, anche della reale padronanza critica di quegli stessi aspetti che si volevano aggiuntivamente perseguire.

A ciò si aggiunge il problema che, non solo a livello italiano, strati significativi di popolazione recentemente scolarizzati hanno dimostrato di essere significativamente irriducibili alla formazione tradizionalmente “culturale ” che pure viene loro “somministrata” con le migliori intenzioni.

Esiste pertanto il rischio di una crescente marginalizzazione della trasmissione del retaggio culturale italiano ed europeo. In questo ricopre un ruolo decisivo la funzione dei licei italiani che non incidono nel dibattito pedagogico nazionale poiché tendono o alla edulcorazione e banalizzazione o alla ghettizzazione come nel caso dei licei classici.


Quali sono le possibilità di sviluppo in questo panorama?


In questo panorama sarebbe opportuno scegliere in modo esplicito il percorso da seguire, in particolare per quanto concerne il secondo biennio e l'ultimo anno del secondo ciclo.

Oggi abbiamo di fronte tre possibilità di sviluppo:

1. Abbandonare l'impostazione “culturale” con un investimento forte sulle competenze strumentali

2. Insistere sull'impostazione “culturale” cercando di migliorare le metodologie di presentazione

3. Riservare l'impostazione “culturale” a filoni formativi realmente specializzati.

Queste impostazioni non sono così drasticamente delineate e ci sono ovvie contaminazioni fra le tre possibilità. In linea di massima, comunque, l'ADi ha abbracciato la terza ipotesi, basti pensare, per fare un esempio, al persistere del latino nei licei scientifici tradizionali.

A questo riguardo, nel primo documento di analisi dei Nuovi Licei (2009) l'ADi osservava:

Eppure la situazione dell'insegnamento del latino denunciata dal Ministro Valitutti trent'anni fa è ulteriormente peggiorata. Scriveva Valitutti:

Risulta a questo Ministero da visite ispettive, da relazioni di presidi e presidenti di commissioni che in molti licei scientifici, pur, si intende, con eccezioni lodevolissime, l'insegnamento del latino è, specie nelle ultime classi, via via più trascurato. (….) Inoltre in molte scuole non si leggono più i classici negli originali o si leggono in misura minima, del tutto inutile per la comprensione di un autore, di un pensiero, di una cultura. Ci si limita in qualche caso a poche, non organizzate, notizie di storia letteraria, a letture di testi in traduzione” (dalla CM.25 ottobre 1979, n. 264)

Ci si dovrebbe convincere che il latino si salva non facendolo studiare male a molti, ma bene a pochi. In altre parole facendo del latino una “specialità”, nel senso più dignitoso del termine. E' questo, peraltro, il messaggio che ci viene dai nostri migliori latinisti:

“Il latino si salva (se veramente vuole essere salvato, e non le sue cattedre) non facendolo studiare male a molti, ma bene a pochi. In altre parole riservando lo studio del latino a professionisti della cultura umanistico-letteraria”

(A.Traina, B.Perrini, Propedeutica al latino universitario, Bologna, Patron. 1995).

 


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