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INTERVISTA
A NORBERTO BOTTANI
SULLA CONDIZIONE DEGLI INSEGNANTI
a cura di Alessandra Cenerini
24 Aprile 2003
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A.C.
Norberto, io ti ho conosciuto come ricercatore circa dieci
anni fa attraverso il tuo "Professoressa addio", un
libro che ho a lungo studiato, perché per la prima volta
mi si squarciava davanti uno scenario internazionale della condizione
degli insegnanti, ma soprattutto perché mi si smontavano
drammaticamente ad uno ad uno i miti di cui tanti di noi si erano
fino ad allora nutriti. Questa premessa per dire che ho accolto
con grande interesse il tuo ritorno su questo specifico tema,
con la relazione "La condizione di lavoro degli insegnanti
in Europa" da te tenuta alla "Casa delle cultura"
di Milano il 23 marzo scorso, e che qui riproduciamo sintetizzata
in lucidi.
Ed è proprio a partire da quella relazione che vorrei farti
alcune domande sulla situazione degli insegnanti in Italia.
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La
prima è la seguente:
- Siamo in piena fase contrattuale. Le rivendicazioni
sindacali fanno leva da un po' di tempo su una parola d'ordine
diventata molto popolare : "retribuzioni europee"
fatta propria persino da un precedente ministro e ora anche dall'ARAN.
Pensi che questo sia un obiettivo giusto da perseguire e soprattutto
raggiungibile?
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N.
B.
Il concetto di "retribuzioni europee" è
una favola che circola solo in Italia. Non ci sono retribuzioni
europee, non c'è una scala di stipendi europei, nemmeno
a cercarla con il lumicino. Ne è la prova il fatto
che in nessun altro paese i sindacati dei docenti o i gruppi
politici che cercano di accaparrarsi il voto degli insegnanti
alludono a livelli retributivi europei. Ognuno fa i conti
in casa propria perché tutti sanno che è difficilissimo
comparare gli stipendi della funzione pubblica pagati da amministrazioni
scolastiche diverse tra loro. Nonostante gli sforzi compiuti
per raccogliere informazioni comparabili sugli stipendi dei
docenti (i progressi sono stati sensibili in questi ultimi
anni) si è ancora ben lontani dal conoscere in maniera
dettagliata quella giungla retributiva che è il terreno
di caccia privilegiato delle organizzazioni sindacali dei
docenti in tutti i paesi del mondo. Il sottobosco delle retribuzioni
è un groviglio di norme ed eccezioni nelle quali è
bravo chi riesce a districarsi. Per esempio, è parecchio
complicato giungere a stimare il valore dei compensi in natura
che i docenti ricevono in certi paesi o in certe regioni.
Non si tratta di bazzecole, quando si ha a che fare con contributi
per l'affitto, con deduzioni fiscali oppure con sostanziali
riduzioni nelle quote da versare per il servizio sanitario.
Non parliamo poi di quel che succede con le trattenute per
le pensioni. Dunque, quando si parla di retribuzioni dei docenti
comparate a livello europeo bisogna essere molto prudenti
e modesti. Questa è una premessa da non scordare.
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A.
C.
Si potrebbe però obiettare che quando si parla di livelli
europei si intende l'ordine di grandezza e non lo stipendio preciso
in euro, tu stesso nella relazione proponi comparazioni.
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N.B.
Quest'obiezione può essere data per buona ma non aiuta
affatto a risolvere il problema, perché non c'è
un ordine di grandezza medio europeo che serva da metro per
comparare lo stipendio annuo dei docenti dei vari ordini di
scuola. Chi lo stabilisce? Come definirlo? A quale livello collocarlo?
Chi parla di retribuzioni europee lo fa inventandosi un proprio
personale termine di paragone che varia ad libitum. Questo concetto
è del tutto arbitrario e sarebbe bene smettere di servirsene
perché non serve a gran che se non a seminare confusione
o a coltivare illusioni. Mi sembra quindi che sia necessario
ribadire che non ci sono livelli europei di retribuzione degli
insegnanti e che la media degli stipendi europei non può
affatto essere presa come un termine di paragone accettabile
per definire un livello europeo. Il livello di retribuzione
dei docenti dipende da moltissimi fattori e da svariati elementi
non monetari che concorrono a stabilirne la reale consistenza,
come per esempio la considerazione che una società riserva
alla scuola, il rispetto per la professione, il valore attribuito
all'istruzione in una società, il livello di cultura
di un paese, oppure la capacità di mobilitazione e d'influenza
delle associazioni dei docenti. Certi fattori materiali, come
per esempio l'onere di ore d'insegnamento frontale oppure il
numero di ore obbligatorie per le attività d'istituto
si possono misurare facilmente, ma altri fattori materiali come
per esempio le ore da dedicare alla preparazione delle lezioni
o alla correzione delle esercitazioni sono già di per
sé molto aleatori; il problema diventa poi molto più
complicato se si passa ai fattori immateriali da prendere in
considerazione come per esempio le esigenze spesso implicite
espresse da determinati comuni o quartieri che si aspettano
dai docenti un impegno sociale elevato ( persino dirigere il
coro della chiesa, insegnare il catechismo, allenare la squadra
di calcio, dirigere la sezione scout) in cambio di tutta una
serie di riconoscimenti simbolici che permettono ai docenti
di occupare un posto più o meno prestigioso nella società.
Questo significa che il livello di retribuzione di un docente
in Lapponia o nella Carinzia non può essere comparato
a quello di un docente nelle Madonie oppure in Andalusia. I
termini di paragone non possono essere che locali o regionali.
Invece di fare il confronto con un fantomatico livello di retribuzione
europeo sarebbe auspicabile che in una comunità si confrontasse
il livello retributivo dei docenti con quello di un garagista,
di un carabiniere, di un'assistente sociale, di un avvocato,
di un medico, di un ragioniere, di una commessa di supermercato
o di un'infermiera. Si può o magari si deve anche
prevedere una soglia minima negoziata a livello nazionale al
di sotto della quale non è concesso andare ma nulla
vieta che si stabilisca localmente la retribuzione dei docenti
in funzione non degli stipendi medi ma dell'apprezzamento che
una comunità intende conferire all'istruzione scolastica.
Questo significa che in un regime di autonomia serio anche
le rimunerazioni dei docenti possono e debbono variare da una
regione all'altra. Non parlerei a questo riguardo né
di mercato né di concorrenza, ma piuttosto di valorizzazione
contrattuale in loco delle competenze e della professionalità
degli insegnanti. Non intendo negare il rischio che si possano
provocare squilibri retributivi all'interno della professione
e che, senza opportuni interventi, si possano accentuare ingiustizie
educative tra istituti, con quelli situati in zone privilegiate
che attirano i migliori docenti perché possono pagarli
di più o offrire loro condizioni di lavoro meno pesanti
e quelli collocati in zone depresse che perdono i docenti migliori
perché non riescono a compensare le difficili condizioni
di lavoro con incentivi adeguati, ma questa è una
situazione che il sistema centralistico vigente di gestione
del personale della scuola imperniato sul criterio dell'uniformità
non ha saputo né evitare né correggere.
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A.C.
Credo che tu sappia bene che questa ipotesi trova la più
completa avversione delle organizzazioni sindacali. E allora,
considerato che non hai nessuna preoccupazione di andare contro
corrente, ti chiedo di intervenire su un altro tema incandescente,
quello degli organici. Da diversi anni le leggi finanziare
si pongono l'obiettivo di un ridimensionamento degli organici
dei docenti, ritenendo questa, peraltro, una delle operazioni
indispensabili per migliorare le retribuzioni. Cosa pensi di questa
correlazione insistentemente posta all'ordine del giorno in Italia?
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N.
B.
Non vi è dubbio che vi sia una connessione importante
fra i livelli retributivi e la proporzione di allievi di cui
gli insegnanti devono occuparsi oppure la media di studenti
per classe. Questo elemento è un parametro importante
delle condizioni di lavoro degli insegnanti, anche se non è
il solo. Orbene, se teniamo conto solo di questo parametro,
la situazione dei docenti italiani non è affatto pesante.
In altri paesi gli insegnanti fruiscono di condizioni di lavoro
molto più dure. Per questa ragione, lo stipendio lordo
va corretto e ponderato con i parametri forniti dalle condizioni
di lavoro, in primis il numero di studenti a carico.
Va da sé che la situazione non è uguale per le
varie discipline e che una stessa disciplina insegnata in una
scuola di 1200 studenti posta nel centro di una grande città
ha un profilo, dal punto di vista dell'onere di lavoro, diverso
da quella insegnata in una scuola di 300 studenti posta in una
zona residenziale. Il docente di matematica, tanto per fare
un esempio, non fa lo stesso mestiere in una scuola o nell'altra
anche se insegna la stessa disciplina e svolge, almeno nominalmente
lo stesso programma. In conclusione non butterei al rogo
un atteggiamento in materia di rimunerazione dei docenti che
fin qui è stato considerato per molteplici ragioni eretico
e che consiste nell'accettare ed anzi rivendicare livelli salariali
diversificati, negoziati caso per caso dai docenti e dai loro
sindacati in loco, con le scuole, (perché no, se
queste hanno un'autonomia finanziaria) oppure con le autorità
comunali. E' su questi terreni di periferia che si vince
la partita e non allo stadio Olimpico a Roma. |
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A.
C.
Quanto
affermi si scontra in Italia con un'amministrazione degli insegnanti
che ha incredibili rigidità accentuate da una gestione
centralistica rimasta tale anche in regime di autonomia. Le rigidità
vanno dal reclutamento alla gestione degli organici, calcolati
su una sclerotizzata divisione oraria delle discipline e su una
altrettanto sclerotizzata divisione delle classi. Tutto questo
non fa che accentuare da un lato gli sprechi e dall'altro le difficoltà
a trovare soluzioni compatibili con la qualità dell'insegnamento.
Ti chiedo: potranno decentramento e autonomia favorire una
correzione di rotta?
Quali indicazioni ci vengono dal panorama europeo?
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N.B.
Sono molto scettico sulle possibilità di cambiare
il mercato del lavoro dei docenti in Italia. Ci sono troppi
interessi tra loro coalizzati per difendere lo status quo .
Le organizzazioni sindacali che gestiscono le trattative con
il governo per la gestione del personale della scuola, da Marsala
fino a Biella, dalle scuole elementari fino agli IPSIA, non
hanno nessun interesse a cambiare la situazione che concede
loro una forza contrattuale considerevole e quindi un potere
politico rilevante. Per ora non spunta all'orizzonte a mio
avviso nessuna prospettiva di cambiamento, perché nell'intreccio
di interessi coagulati nella gestione di un milione circa di
docenti non c'è nessuna forza che abbia la capacità
di modificare le regole del gioco e non ci sono ragioni per
suscitare una coalizione di alleati sufficientemente forte per
imporre un ribaltamento delle modalità di governo del
personale della scuola. Bisogna avere bene chiaro che queste
regole non derivano da considerazioni ispirate da valutazioni
sulla qualità dell'istruzione o sull'equità dell'offerta
formativa. Le ragioni che le legittimano sono di un altro genere
e derivano dalla necessità di controllare la violenza
dei conflitti simbolici tra i detentori del sapere, quelli che
lo distribuiscono e le modalità che regolano le formulazioni
dei discorsi. Tutto ciò non ha nulla a che vedere
con la qualità degli apprendimenti o la liberazione delle
menti. Da questo punto di vista i docenti non sono che pedine
mosse a loro insaputa sulla scacchiera dei giuochi di potere
che governano le popolazioni. E' triste dirlo ma è bene
non illudersi anche se è senz'altro duro privarsi di
giustificazioni nobili che concorrono a costruire l'identità
professionale, un modo di vita o i principi etici alla base
di una scelta esistenziale. Basta qui pensare che circa il 90
per cento delle spese correnti per l'istruzione è assorbito
dagli stipendi. La gestione di questa somma colossale giustifica
e legittima tutti gli appetiti. Il caso italiano da questo punto
di vista non è isolato. Una situazione molto simile
a quella italiana esiste in Francia, dove la gestione di
tutto il personale della scuola è centralizzata a Parigi.
Il tentativo recentissimo di ripartire tra le regioni all'incirca
centomila funzionari della scuola ha scatenato reazioni fortissime
dei sindacati che sono subito scesi in piazza per impedirlo.
Va detto anche che questo meccanismo di gestione del personale
coesiste con una politica di decentramento delle competenze
che non è per nulla insignificante. Il sistema scolastico
francese in questi ultimi due decenni si è progressivamente
trasformato e non può più essere considerato un
modello di puro centralismo come lo si considerava un tempo.
Eppure, nonostante le numerose competenze che sono state
trasferite alla periferia, il settore del personale è
rimasto saldamente in mano al potere centrale. E' quanto succederà
in Italia. Da questo punto di vista è esemplare anche
il caso della Nuova Zelanda, il paese dove si è attuata
una delle riforme scolastiche all'avanguardia per quanto riguarda
l'autonomia delle scuole. Qui, le retribuzioni dei docenti sono
fissate nazionalmente ed è il ministero che paga i docenti
delle scuole autonome, ma nella primigenia proposta di riforma
era stato invece previsto che fossero le scuole a pagare i docenti
e a determinare il loro livello di rimunerazione. In generale
si può dire che l'autonomia delle scuole in materia di
rimunerazione dei docenti è ridotta al lumicino. Solo
in pochissimi paesi le scuole hanno qualcosa da dire in materia
di stipendi del personale. In un solo paese, la Nuova Zelanda,
la determinazione delle retribuzioni del personale scolastico
non docente ( il personale ATA in Italia) è lasciata
alle scuole. Questo sarebbe il primo passo da compiere per dare
alle scuole un po' di ossigeno in modo da concentrare le proprie
risorse sul miglioramento del funzionamento dell'istituto, ma
poiché in Italia, se non erro, la proporzione più
cospicua dei membri dei sindacati della scuola è costituita
da questo personale non penso che nemmeno questa misura di buon
senso potrà essere presa in considerazione. Qui è
in ballo la rappresentazione sociale della scuola che in
Italia è parecchio affine, almeno da quello che ho potuto
constatare, a quella di un servizio di collocamento più
che a quella di un servizio d'istruzione e d'educazione. |
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A.
C.
A volte mi chiedo come tu possa con questa visione drammaticamente
pessimistica del futuro dell'istruzione, continuare a batterti
con tanta tenacia per modificare le cose, continuare a proporre,
a studiare, a ricercare.
Ma passiamo ad un altro argomento. Della tua relazione una delle
parti più coinvolgenti è parsa a me quella relativa
al disagio degli insegnanti. Un disagio palpabile ovunque
che prescinde dalle condizioni retributive, come hai ben evidenziato,
citando l'esempio dei docenti svizzeri, fra i meglio pagati al
mondo. Vuoi parlarcene?
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N.
B.
Il disagio, l'insoddisfazione, il malessere e la sofferenza
dei docenti sono un fatto incontrovertibile che si constata
in tutti i paesi. Per fortuna questo fenomeno non colpisce
tutta la popolazione degli insegnanti. Occorre riconoscere che
una proporzione consistente dei docenti è soddisfatta
del proprio mestiere e non lo cambierebbe affatto, ma le opinioni
dei docenti sul proprio mestiere e sulle condizioni di lavoro
vanno prese con molta cautela perché una parte di loro
non ammetterà mai di avere fallito la scelta della professione
e non dichiarerà mai apertamente di rinunciare agli ideali
che li hanno spinti ad abbracciare il mestiere d'insegnante.
Lo scontro tra la rappresentazione umanistica della professione
e la realtà è spesso brutale ma un certo numero
di docenti, non si sa quanti, non si rassegna ad ammettere questa
discordanza. Dunque, le dichiarazione dei docenti sul grado
di soddisfazione nella professione valgono fino ad un certo
punto. A questo riguardo sono molto più eloquenti i fatti
che non le parole, come per esempio la fedeltà alla professione
e al posto di lavoro. Orbene, ovunque si constata un calo impressionante
del grado di fedeltà degi insegnanti alla loro professione.
Sono ormai mosche bianche i docenti che insegnano per quarant'anni,
che vanno in pensione a 65 anni, che restano nella stessa scuola
per venti o trent'anni. Mi permetto un accenno biografico: a
Pasqua di quest'anno mio padre, che è stato un docente
delle scuole elementari per 45 anni e che ora a novant'anni
e più si gode quel che si dice una meritata pensione,
mi ha regalato l'orologio d'oro, un Longines, che ha ricevuto
nel 1970 in omaggio e come ringraziamento dal Comune in cui
insegnava per il quarantesimo d'insegnamento. Un comune che
fa un regalo di quel genere a un suo docente compie un gesto
significativo di rispetto verso la professione ma questo riconoscimento
è stato possibile perché a quell'epoca erano ancora
in servizio docenti che avevano cominciato ad insegnare prima
della guerra e che sono rimasti fedeli fino all'ultimo al loro
posto di lavoro. Queste situazioni veramente encomiabili probabilmente
sono del tutto sparite. |
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A.C.
In tema di "sofferenza" connessa alla professione, so
che tu hai apprezzato la recente indagine italiana condotta dallo
studio Getsemani sul burn out dei docenti. Vuoi dirci qualcosa
di più?
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N.B.
La sofferenza connessa alla pratica della professione è
un tabù ma è anche un fatto ormai noto ed arcinoto,
come lo comprova la fuga dalla scuola dei docenti. Sono
pochi quelli che resistono per 45 anni nell'insegnamento come
ha fatto mio padre e quelli che si meritano come premio, alla
fine, un orologio d'oro. Il piacere dell'insegnamento è
diminuito. Non direi che è sparito ma è indubbiamente
diventato un ingrediente raro. Quasi nessuno ne parla però
e i docenti sopportano quasi sempre il loro disagio in segreto.
Il grado di accettazione della sofferenza tra i docenti sembra
sia molto elevato: gli alunni sono cambiati, le famiglie reagiscono
con comportamenti imprevedibili, il rapporto con le autorità
è mutato, il ruolo dell'istituzione scolastica nella
società è diventato ambiguo e opaco. Di questi
problemi se ne parla poco o se ne parla quando le tensioni diventano
talmente forti da essere insormontabili e da causare reazioni
psicosomatiche violente che non si possono né negare
né rimuovere. Questi fenomeni sono poco quantificabili,
ma esistono dappertutto. Si manifestano talora nella prosa sotterranea
che circola tra i docenti, nei forum di discussione, oppure
nelle relazioni dei medici del lavoro.
Il problema del disagio dei docenti è relativamente
ben noto in Francia dove se ne parla in maniera abbastanza
aperta sia nei documenti ufficiali del ministero sia nelle riviste
pedagogiche. La questione della salute degli insegnanti è
stata affrontata in Italia, a mia conoscenza, solo recentemente
da parte di un gruppo di medici, ma molte informazioni eloquenti
sul deterioramento della situazione professionale dei docenti
si trovano nell'inchiesta IARD sui docenti in Italia.
In ogni modo, lo studio "Getsemani" che tu
citi, svolto a Milano sulle patologie nel corso di un decennio
, tra il 1992 e il 2001 di un gruppo di circa 3000 dipendenti
pubblici (tra questi i docenti) che hanno chiesto un pensionamento
anticipato per motivi di salute, ha rilevato che la categoria
degli insegnanti è soggetta a una frequenza di patologie
psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli
impiegati. Questi dati sono sconcertanti ma non mi sorprendono.
Essi si ritrovano anche altrove per cui è il caso di
dire che la situazione è allarmante. |
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A.
C.
E'
un problema complesso che, a mio avviso, andrebbe affrontato fin
dal reclutamento con una valutazione delle attitudini a svolgere
questa professione. Cosa ne pensi?
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N.B.
Rispondo subito che si può fare ben poco al momento del
reclutamento. I test attitudinali elaborati per selezionare
buoni candidati all'insegnamento si sono rivelati del tutto
inadeguati. E' quindi utopico ritenere che basti uno screening
iniziale ben fatto per essere al riparo di questi inconvenienti.
Non c'è selezione iniziale per quanto rigorosa possa
essere che permetta di identificare a colpo sicuro i docenti
con la vocazione sacra che terranno duro di fronte a tutti gli
inconvenienti del mestiere e che non molleranno quando avranno
di fronte pessime sorprese. Con ciò non voglio dire che
non si debbano selezionare i candidati all'insegnamento, ma
quest'operazione non basta. |
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A.C.
Consideriamo
allora i docenti già immessi nell'insegnamento. Ti chiedo
esistono negli altri Paesi modalità e strumenti di sostegno
e di aiuto nei confronti di queste forme di stress e di logoramento?
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N.B.
Il logoramento psico-somatico dei docenti si combatte in
primo luogo sul fronte, ossia nelle scuole, dove i docenti devono
beneficiare di un sostegno professionale costante che in pratica
per ora non esiste da nessuna parte perché i docenti
sono lasciati soli con i loro problemi, quelli con gli studenti,
con le direzioni, con i colleghi, con le famiglie. Siamo ben
lungi per ora d'avere creato un contesto professionalmente valido
attorno ai docenti che operano in un istituto perché
è ancora dominante il modello ottocentesco del docente
artigianale che se la sbroglia da solo. L'eccezione italiana
del modulo nella scuola elementare non fa "scuola",
è il caso di dirlo, perché questa esperienza non
è stata né impostata né analizzata in modo
scientifico con il risultato che non si dispone di nessuna prova
per validarla o confutarla. Il sostegno e l'accompagnamento
professionale dei docenti esigono un'organizzazione della scuola
e dell'insegnamento diversa da quella attuale, magari con classi
più numerose in certi contesti e classi più ridotte
in altre. Ragionando su questo tipi di problemi ci si rende
conto che non è più possibile ipotizzare il
mantenimento del modello attuale d'organizzazione dell'insegnamento
che sfocia nella ripartizione stereotipata delle ore di lavoro
in base alla quale si determina l'organico di un istituto.
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A.C.
Quindi una delle questioni da considerare e modificare è
l'organizzazione scolastica, ma probabilmente non basta. Citavi
l'esempio della lunghissima fedeltà alla professione di
tuo padre per contrasto con la situazione attuale. Ma oggi l'insofferenza
a fare lo stesso lavoro per tutta la vita è presente ovunque,
non solo nella scuola, anche se fra gli insegnanti è più
pronunciata, tanto che l'OCSE ha avviato una ricerca dal titolo
emblematico "Attirare,
formare e trattenere insegnanti di qualità". Quali
soluzioni a tuo avviso si possono ipotizzare per modificare questo
stato delle cose?
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N.B.
Un aspetto sicuramente importante da curare riguarda l'uscita
dalla professione, o per meglio dire i rientri e gli abbandoni.
Sono pochi i paesi nei quali si sono elaborati modelli adeguati
del flusso di docenti che tengano conto delle entrate e delle
uscite dalla professione. Oggi sappiamo che il mestiere non
è una vocazione e che non si entra più nella professione
di insegnante come se si entrasse in un ordine monastico nel
quale si resta per tutta l'esistenza. Entrate e uscite, crisi,
abbandoni, ritorni e uscite definitive sono il corollario di
molte cosiddette carriere di docenti. Questi fenomeni sono sufficientemente
importanti per essere analizzati e descritti in modo statistico.
Nel contesto attuale è apparentemente più facile
di un tempo lasciare la professione di docente e trovare un
posto di lavoro, in altri settori del mercato del lavoro. Ma
oggi come un tempo è ovunque molto difficile aiutare
i docenti incompetenti e i docenti che hanno perso qualsiasi
motivazione per l'insegnamento ma che continuano ad insegnare
perché pensano di non sapere fare un altro mestiere oppure
perché non hanno nessuna idea su quel che potrebbero
fare dopo avere lasciato l'insegnamento. I dati statistici di
molti paesi confermano che la fuga dalla professione è
particolarmente elevata tra i giovani, i quali in genere riescono
a trovare soluzioni alternative all'insegnamento, ma il peggio
si verifica per i docenti che hanno più di dieci anni
di scuola e che sono logorati dal mestiere. Non mi consta
che siano stati elaborati molti programmi per aiutare i docenti
ad uscire dalla scuola, mentre invece questa potrebbe essere
una pista da seguire sia per migliorare la qualità dell'insegnamento,
sia per rinnovare il personale scolastico.
Una politica di gestione del personale della scuola che miri
a tenere nella scuola i buoni docenti, a non perderli e che
non tema di adottare una strategia dinamica di rinnovo costante
del corpo insegnante dovrebbe essere molto più innovativa
delle politiche attuali che sono in gran parte conservative
perché si preoccupano soprattutto di difendere i diritti
acquisiti senza preoccuparsi di gestire le competenze e le motivazioni,
ossia la qualità del personale della scuola.
L'OCSE, come tu hai citato, sta studiando in questo momento
modelli alternativi di politiche del personale della scuola
per identificare i provvedimenti e le soluzioni che promuovono
la qualità dei docenti . L'Italia partecipa a questo
progetto e sarà pertanto possibile tra circa un anno
comparare il quadro italiano a quello di altri paesi nonché
ipotizzare, sulla base delle osservazioni svolte in diversi
contesti, gli interventi che potrebbero migliorarlo. |
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A.
C.
Grazie
infinite, Norberto, per questo insieme di analisi e considerazioni
che hai svolto, con l'acume e la spregiudicatezza di sempre.
Auguriamoci
che possano contribuire a smuovere almeno un po' la palude della
condizione docente.
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