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INTERVISTA
A NORBERTO BOTTANI
SULLA CONDIZIONE DEGLI INSEGNANTI
a cura di Alessandra Cenerini
24 Aprile 2003


A.C.
Norberto, io ti ho conosciuto come ricercatore circa dieci anni fa attraverso il tuo "Professoressa addio", un libro che ho a lungo studiato, perché per la prima volta mi si squarciava davanti uno scenario internazionale della condizione degli insegnanti, ma soprattutto perché mi si smontavano drammaticamente ad uno ad uno i miti di cui tanti di noi si erano fino ad allora nutriti. Questa premessa per dire che ho accolto con grande interesse il tuo ritorno su questo specifico tema, con la relazione "La condizione di lavoro degli insegnanti in Europa" da te tenuta alla "Casa delle cultura" di Milano il 23 marzo scorso, e che qui riproduciamo sintetizzata in lucidi.
Ed è proprio a partire da quella relazione che vorrei farti alcune domande sulla situazione degli insegnanti in Italia.

La prima è la seguente:
- Siamo in piena fase contrattuale. Le rivendicazioni sindacali fanno leva da un po' di tempo su una parola d'ordine diventata molto popolare : "retribuzioni europee" fatta propria persino da un precedente ministro e ora anche dall'ARAN. Pensi che questo sia un obiettivo giusto da perseguire e soprattutto raggiungibile?


 

N. B.
Il concetto di "retribuzioni europee" è una favola che circola solo in Italia. Non ci sono retribuzioni europee, non c'è una scala di stipendi europei, nemmeno a cercarla con il lumicino. Ne è la prova il fatto che in nessun altro paese i sindacati dei docenti o i gruppi politici che cercano di accaparrarsi il voto degli insegnanti alludono a livelli retributivi europei. Ognuno fa i conti in casa propria perché tutti sanno che è difficilissimo comparare gli stipendi della funzione pubblica pagati da amministrazioni scolastiche diverse tra loro. Nonostante gli sforzi compiuti per raccogliere informazioni comparabili sugli stipendi dei docenti (i progressi sono stati sensibili in questi ultimi anni) si è ancora ben lontani dal conoscere in maniera dettagliata quella giungla retributiva che è il terreno di caccia privilegiato delle organizzazioni sindacali dei docenti in tutti i paesi del mondo. Il sottobosco delle retribuzioni è un groviglio di norme ed eccezioni nelle quali è bravo chi riesce a districarsi. Per esempio, è parecchio complicato giungere a stimare il valore dei compensi in natura che i docenti ricevono in certi paesi o in certe regioni. Non si tratta di bazzecole, quando si ha a che fare con contributi per l'affitto, con deduzioni fiscali oppure con sostanziali riduzioni nelle quote da versare per il servizio sanitario. Non parliamo poi di quel che succede con le trattenute per le pensioni. Dunque, quando si parla di retribuzioni dei docenti comparate a livello europeo bisogna essere molto prudenti e modesti. Questa è una premessa da non scordare.

A. C.
Si potrebbe però obiettare che quando si parla di livelli europei si intende l'ordine di grandezza e non lo stipendio preciso in euro, tu stesso nella relazione proponi comparazioni.

 
N.B.
Quest'obiezione può essere data per buona ma non aiuta affatto a risolvere il problema, perché non c'è un ordine di grandezza medio europeo che serva da metro per comparare lo stipendio annuo dei docenti dei vari ordini di scuola. Chi lo stabilisce? Come definirlo? A quale livello collocarlo? Chi parla di retribuzioni europee lo fa inventandosi un proprio personale termine di paragone che varia ad libitum. Questo concetto è del tutto arbitrario e sarebbe bene smettere di servirsene perché non serve a gran che se non a seminare confusione o a coltivare illusioni. Mi sembra quindi che sia necessario ribadire che non ci sono livelli europei di retribuzione degli insegnanti e che la media degli stipendi europei non può affatto essere presa come un termine di paragone accettabile per definire un livello europeo. Il livello di retribuzione dei docenti dipende da moltissimi fattori e da svariati elementi non monetari che concorrono a stabilirne la reale consistenza, come per esempio la considerazione che una società riserva alla scuola, il rispetto per la professione, il valore attribuito all'istruzione in una società, il livello di cultura di un paese, oppure la capacità di mobilitazione e d'influenza delle associazioni dei docenti. Certi fattori materiali, come per esempio l'onere di ore d'insegnamento frontale oppure il numero di ore obbligatorie per le attività d'istituto si possono misurare facilmente, ma altri fattori materiali come per esempio le ore da dedicare alla preparazione delle lezioni o alla correzione delle esercitazioni sono già di per sé molto aleatori; il problema diventa poi molto più complicato se si passa ai fattori immateriali da prendere in considerazione come per esempio le esigenze spesso implicite espresse da determinati comuni o quartieri che si aspettano dai docenti un impegno sociale elevato ( persino dirigere il coro della chiesa, insegnare il catechismo, allenare la squadra di calcio, dirigere la sezione scout) in cambio di tutta una serie di riconoscimenti simbolici che permettono ai docenti di occupare un posto più o meno prestigioso nella società. Questo significa che il livello di retribuzione di un docente in Lapponia o nella Carinzia non può essere comparato a quello di un docente nelle Madonie oppure in Andalusia. I termini di paragone non possono essere che locali o regionali. Invece di fare il confronto con un fantomatico livello di retribuzione europeo sarebbe auspicabile che in una comunità si confrontasse il livello retributivo dei docenti con quello di un garagista, di un carabiniere, di un'assistente sociale, di un avvocato, di un medico, di un ragioniere, di una commessa di supermercato o di un'infermiera. Si può o magari si deve anche prevedere una soglia minima negoziata a livello nazionale al di sotto della quale non è concesso andare ma nulla vieta che si stabilisca localmente la retribuzione dei docenti in funzione non degli stipendi medi ma dell'apprezzamento che una comunità intende conferire all'istruzione scolastica. Questo significa che in un regime di autonomia serio anche le rimunerazioni dei docenti possono e debbono variare da una regione all'altra. Non parlerei a questo riguardo né di mercato né di concorrenza, ma piuttosto di valorizzazione contrattuale in loco delle competenze e della professionalità degli insegnanti. Non intendo negare il rischio che si possano provocare squilibri retributivi all'interno della professione e che, senza opportuni interventi, si possano accentuare ingiustizie educative tra istituti, con quelli situati in zone privilegiate che attirano i migliori docenti perché possono pagarli di più o offrire loro condizioni di lavoro meno pesanti e quelli collocati in zone depresse che perdono i docenti migliori perché non riescono a compensare le difficili condizioni di lavoro con incentivi adeguati, ma questa è una situazione che il sistema centralistico vigente di gestione del personale della scuola imperniato sul criterio dell'uniformità non ha saputo né evitare né correggere.

A.C.
Credo che tu sappia bene che questa ipotesi trova la più completa avversione delle organizzazioni sindacali. E allora, considerato che non hai nessuna preoccupazione di andare contro corrente, ti chiedo di intervenire su un altro tema incandescente, quello degli organici. Da diversi anni le leggi finanziare si pongono l'obiettivo di un ridimensionamento degli organici dei docenti, ritenendo questa, peraltro, una delle operazioni indispensabili per migliorare le retribuzioni. Cosa pensi di questa correlazione insistentemente posta all'ordine del giorno in Italia?

 
N. B.
Non vi è dubbio che vi sia una connessione importante fra i livelli retributivi e la proporzione di allievi di cui gli insegnanti devono occuparsi oppure la media di studenti per classe. Questo elemento è un parametro importante delle condizioni di lavoro degli insegnanti, anche se non è il solo. Orbene, se teniamo conto solo di questo parametro, la situazione dei docenti italiani non è affatto pesante. In altri paesi gli insegnanti fruiscono di condizioni di lavoro molto più dure. Per questa ragione, lo stipendio lordo va corretto e ponderato con i parametri forniti dalle condizioni di lavoro, in primis il numero di studenti a carico. Va da sé che la situazione non è uguale per le varie discipline e che una stessa disciplina insegnata in una scuola di 1200 studenti posta nel centro di una grande città ha un profilo, dal punto di vista dell'onere di lavoro, diverso da quella insegnata in una scuola di 300 studenti posta in una zona residenziale. Il docente di matematica, tanto per fare un esempio, non fa lo stesso mestiere in una scuola o nell'altra anche se insegna la stessa disciplina e svolge, almeno nominalmente lo stesso programma. In conclusione non butterei al rogo un atteggiamento in materia di rimunerazione dei docenti che fin qui è stato considerato per molteplici ragioni eretico e che consiste nell'accettare ed anzi rivendicare livelli salariali diversificati, negoziati caso per caso dai docenti e dai loro sindacati in loco, con le scuole, (perché no, se queste hanno un'autonomia finanziaria) oppure con le autorità comunali. E' su questi terreni di periferia che si vince la partita e non allo stadio Olimpico a Roma.

A. C.
Quanto affermi si scontra in Italia con un'amministrazione degli insegnanti che ha incredibili rigidità accentuate da una gestione centralistica rimasta tale anche in regime di autonomia. Le rigidità vanno dal reclutamento alla gestione degli organici, calcolati su una sclerotizzata divisione oraria delle discipline e su una altrettanto sclerotizzata divisione delle classi. Tutto questo non fa che accentuare da un lato gli sprechi e dall'altro le difficoltà a trovare soluzioni compatibili con la qualità dell'insegnamento. Ti chiedo: potranno decentramento e autonomia favorire una correzione di rotta?
Quali indicazioni ci vengono dal panorama europeo?

 
N.B.
Sono molto scettico sulle possibilità di cambiare il mercato del lavoro dei docenti in Italia. Ci sono troppi interessi tra loro coalizzati per difendere lo status quo . Le organizzazioni sindacali che gestiscono le trattative con il governo per la gestione del personale della scuola, da Marsala fino a Biella, dalle scuole elementari fino agli IPSIA, non hanno nessun interesse a cambiare la situazione che concede loro una forza contrattuale considerevole e quindi un potere politico rilevante. Per ora non spunta all'orizzonte a mio avviso nessuna prospettiva di cambiamento, perché nell'intreccio di interessi coagulati nella gestione di un milione circa di docenti non c'è nessuna forza che abbia la capacità di modificare le regole del gioco e non ci sono ragioni per suscitare una coalizione di alleati sufficientemente forte per imporre un ribaltamento delle modalità di governo del personale della scuola. Bisogna avere bene chiaro che queste regole non derivano da considerazioni ispirate da valutazioni sulla qualità dell'istruzione o sull'equità dell'offerta formativa. Le ragioni che le legittimano sono di un altro genere e derivano dalla necessità di controllare la violenza dei conflitti simbolici tra i detentori del sapere, quelli che lo distribuiscono e le modalità che regolano le formulazioni dei discorsi. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la qualità degli apprendimenti o la liberazione delle menti. Da questo punto di vista i docenti non sono che pedine mosse a loro insaputa sulla scacchiera dei giuochi di potere che governano le popolazioni. E' triste dirlo ma è bene non illudersi anche se è senz'altro duro privarsi di giustificazioni nobili che concorrono a costruire l'identità professionale, un modo di vita o i principi etici alla base di una scelta esistenziale. Basta qui pensare che circa il 90 per cento delle spese correnti per l'istruzione è assorbito dagli stipendi. La gestione di questa somma colossale giustifica e legittima tutti gli appetiti. Il caso italiano da questo punto di vista non è isolato. Una situazione molto simile a quella italiana esiste in Francia, dove la gestione di tutto il personale della scuola è centralizzata a Parigi. Il tentativo recentissimo di ripartire tra le regioni all'incirca centomila funzionari della scuola ha scatenato reazioni fortissime dei sindacati che sono subito scesi in piazza per impedirlo. Va detto anche che questo meccanismo di gestione del personale coesiste con una politica di decentramento delle competenze che non è per nulla insignificante. Il sistema scolastico francese in questi ultimi due decenni si è progressivamente trasformato e non può più essere considerato un modello di puro centralismo come lo si considerava un tempo. Eppure, nonostante le numerose competenze che sono state trasferite alla periferia, il settore del personale è rimasto saldamente in mano al potere centrale. E' quanto succederà in Italia. Da questo punto di vista è esemplare anche il caso della Nuova Zelanda, il paese dove si è attuata una delle riforme scolastiche all'avanguardia per quanto riguarda l'autonomia delle scuole. Qui, le retribuzioni dei docenti sono fissate nazionalmente ed è il ministero che paga i docenti delle scuole autonome, ma nella primigenia proposta di riforma era stato invece previsto che fossero le scuole a pagare i docenti e a determinare il loro livello di rimunerazione. In generale si può dire che l'autonomia delle scuole in materia di rimunerazione dei docenti è ridotta al lumicino. Solo in pochissimi paesi le scuole hanno qualcosa da dire in materia di stipendi del personale. In un solo paese, la Nuova Zelanda, la determinazione delle retribuzioni del personale scolastico non docente ( il personale ATA in Italia) è lasciata alle scuole. Questo sarebbe il primo passo da compiere per dare alle scuole un po' di ossigeno in modo da concentrare le proprie risorse sul miglioramento del funzionamento dell'istituto, ma poiché in Italia, se non erro, la proporzione più cospicua dei membri dei sindacati della scuola è costituita da questo personale non penso che nemmeno questa misura di buon senso potrà essere presa in considerazione. Qui è in ballo la rappresentazione sociale della scuola che in Italia è parecchio affine, almeno da quello che ho potuto constatare, a quella di un servizio di collocamento più che a quella di un servizio d'istruzione e d'educazione.

A. C.
A volte mi chiedo come tu possa con questa visione drammaticamente pessimistica del futuro dell'istruzione, continuare a batterti con tanta tenacia per modificare le cose, continuare a proporre, a studiare, a ricercare.
Ma passiamo ad un altro argomento. Della tua relazione una delle parti più coinvolgenti è parsa a me quella relativa al disagio degli insegnanti. Un disagio palpabile ovunque che prescinde dalle condizioni retributive, come hai ben evidenziato, citando l'esempio dei docenti svizzeri, fra i meglio pagati al mondo. Vuoi parlarcene?

 
N. B.
Il disagio, l'insoddisfazione, il malessere e la sofferenza dei docenti sono un fatto incontrovertibile che si constata in tutti i paesi. Per fortuna questo fenomeno non colpisce tutta la popolazione degli insegnanti. Occorre riconoscere che una proporzione consistente dei docenti è soddisfatta del proprio mestiere e non lo cambierebbe affatto, ma le opinioni dei docenti sul proprio mestiere e sulle condizioni di lavoro vanno prese con molta cautela perché una parte di loro non ammetterà mai di avere fallito la scelta della professione e non dichiarerà mai apertamente di rinunciare agli ideali che li hanno spinti ad abbracciare il mestiere d'insegnante. Lo scontro tra la rappresentazione umanistica della professione e la realtà è spesso brutale ma un certo numero di docenti, non si sa quanti, non si rassegna ad ammettere questa discordanza. Dunque, le dichiarazione dei docenti sul grado di soddisfazione nella professione valgono fino ad un certo punto. A questo riguardo sono molto più eloquenti i fatti che non le parole, come per esempio la fedeltà alla professione e al posto di lavoro. Orbene, ovunque si constata un calo impressionante del grado di fedeltà degi insegnanti alla loro professione. Sono ormai mosche bianche i docenti che insegnano per quarant'anni, che vanno in pensione a 65 anni, che restano nella stessa scuola per venti o trent'anni. Mi permetto un accenno biografico: a Pasqua di quest'anno mio padre, che è stato un docente delle scuole elementari per 45 anni e che ora a novant'anni e più si gode quel che si dice una meritata pensione, mi ha regalato l'orologio d'oro, un Longines, che ha ricevuto nel 1970 in omaggio e come ringraziamento dal Comune in cui insegnava per il quarantesimo d'insegnamento. Un comune che fa un regalo di quel genere a un suo docente compie un gesto significativo di rispetto verso la professione ma questo riconoscimento è stato possibile perché a quell'epoca erano ancora in servizio docenti che avevano cominciato ad insegnare prima della guerra e che sono rimasti fedeli fino all'ultimo al loro posto di lavoro. Queste situazioni veramente encomiabili probabilmente sono del tutto sparite.

A.C.
In tema di "sofferenza" connessa alla professione, so che tu hai apprezzato la recente indagine italiana condotta dallo studio Getsemani sul burn out dei docenti. Vuoi dirci qualcosa di più?

 
N.B.
La sofferenza connessa alla pratica della professione è un tabù ma è anche un fatto ormai noto ed arcinoto, come lo comprova la fuga dalla scuola dei docenti. Sono pochi quelli che resistono per 45 anni nell'insegnamento come ha fatto mio padre e quelli che si meritano come premio, alla fine, un orologio d'oro. Il piacere dell'insegnamento è diminuito. Non direi che è sparito ma è indubbiamente diventato un ingrediente raro. Quasi nessuno ne parla però e i docenti sopportano quasi sempre il loro disagio in segreto. Il grado di accettazione della sofferenza tra i docenti sembra sia molto elevato: gli alunni sono cambiati, le famiglie reagiscono con comportamenti imprevedibili, il rapporto con le autorità è mutato, il ruolo dell'istituzione scolastica nella società è diventato ambiguo e opaco. Di questi problemi se ne parla poco o se ne parla quando le tensioni diventano talmente forti da essere insormontabili e da causare reazioni psicosomatiche violente che non si possono né negare né rimuovere. Questi fenomeni sono poco quantificabili, ma esistono dappertutto. Si manifestano talora nella prosa sotterranea che circola tra i docenti, nei forum di discussione, oppure nelle relazioni dei medici del lavoro.
Il problema del disagio dei docenti è relativamente ben noto in Francia dove se ne parla in maniera abbastanza aperta sia nei documenti ufficiali del ministero sia nelle riviste pedagogiche. La questione della salute degli insegnanti è stata affrontata in Italia, a mia conoscenza, solo recentemente da parte di un gruppo di medici, ma molte informazioni eloquenti sul deterioramento della situazione professionale dei docenti si trovano nell'inchiesta IARD sui docenti in Italia. In ogni modo, lo studio "Getsemani" che tu citi, svolto a Milano sulle patologie nel corso di un decennio , tra il 1992 e il 2001 di un gruppo di circa 3000 dipendenti pubblici (tra questi i docenti) che hanno chiesto un pensionamento anticipato per motivi di salute, ha rilevato che la categoria degli insegnanti è soggetta a una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati. Questi dati sono sconcertanti ma non mi sorprendono. Essi si ritrovano anche altrove per cui è il caso di dire che la situazione è allarmante.

A. C.
E' un problema complesso che, a mio avviso, andrebbe affrontato fin dal reclutamento con una valutazione delle attitudini a svolgere questa professione. Cosa ne pensi?

 
N.B.
Rispondo subito che si può fare ben poco al momento del reclutamento. I test attitudinali elaborati per selezionare buoni candidati all'insegnamento si sono rivelati del tutto inadeguati. E' quindi utopico ritenere che basti uno screening iniziale ben fatto per essere al riparo di questi inconvenienti. Non c'è selezione iniziale per quanto rigorosa possa essere che permetta di identificare a colpo sicuro i docenti con la vocazione sacra che terranno duro di fronte a tutti gli inconvenienti del mestiere e che non molleranno quando avranno di fronte pessime sorprese. Con ciò non voglio dire che non si debbano selezionare i candidati all'insegnamento, ma quest'operazione non basta.

A.C.
Consideriamo allora i docenti già immessi nell'insegnamento. Ti chiedo esistono negli altri Paesi modalità e strumenti di sostegno e di aiuto nei confronti di queste forme di stress e di logoramento?

 
N.B.
Il logoramento psico-somatico dei docenti si combatte in primo luogo sul fronte, ossia nelle scuole, dove i docenti devono beneficiare di un sostegno professionale costante che in pratica per ora non esiste da nessuna parte perché i docenti sono lasciati soli con i loro problemi, quelli con gli studenti, con le direzioni, con i colleghi, con le famiglie. Siamo ben lungi per ora d'avere creato un contesto professionalmente valido attorno ai docenti che operano in un istituto perché è ancora dominante il modello ottocentesco del docente artigianale che se la sbroglia da solo. L'eccezione italiana del modulo nella scuola elementare non fa "scuola", è il caso di dirlo, perché questa esperienza non è stata né impostata né analizzata in modo scientifico con il risultato che non si dispone di nessuna prova per validarla o confutarla. Il sostegno e l'accompagnamento professionale dei docenti esigono un'organizzazione della scuola e dell'insegnamento diversa da quella attuale, magari con classi più numerose in certi contesti e classi più ridotte in altre. Ragionando su questo tipi di problemi ci si rende conto che non è più possibile ipotizzare il mantenimento del modello attuale d'organizzazione dell'insegnamento che sfocia nella ripartizione stereotipata delle ore di lavoro in base alla quale si determina l'organico di un istituto.

A.C.
Quindi una delle questioni da considerare e modificare è l'organizzazione scolastica, ma probabilmente non basta. Citavi l'esempio della lunghissima fedeltà alla professione di tuo padre per contrasto con la situazione attuale. Ma oggi l'insofferenza a fare lo stesso lavoro per tutta la vita è presente ovunque, non solo nella scuola, anche se fra gli insegnanti è più pronunciata, tanto che l'OCSE ha avviato una ricerca dal titolo emblematico "Attirare, formare e trattenere insegnanti di qualità". Quali soluzioni a tuo avviso si possono ipotizzare per modificare questo stato delle cose?

 
N.B.
Un aspetto sicuramente importante da curare riguarda l'uscita dalla professione, o per meglio dire i rientri e gli abbandoni. Sono pochi i paesi nei quali si sono elaborati modelli adeguati del flusso di docenti che tengano conto delle entrate e delle uscite dalla professione. Oggi sappiamo che il mestiere non è una vocazione e che non si entra più nella professione di insegnante come se si entrasse in un ordine monastico nel quale si resta per tutta l'esistenza. Entrate e uscite, crisi, abbandoni, ritorni e uscite definitive sono il corollario di molte cosiddette carriere di docenti. Questi fenomeni sono sufficientemente importanti per essere analizzati e descritti in modo statistico. Nel contesto attuale è apparentemente più facile di un tempo lasciare la professione di docente e trovare un posto di lavoro, in altri settori del mercato del lavoro. Ma oggi come un tempo è ovunque molto difficile aiutare i docenti incompetenti e i docenti che hanno perso qualsiasi motivazione per l'insegnamento ma che continuano ad insegnare perché pensano di non sapere fare un altro mestiere oppure perché non hanno nessuna idea su quel che potrebbero fare dopo avere lasciato l'insegnamento. I dati statistici di molti paesi confermano che la fuga dalla professione è particolarmente elevata tra i giovani, i quali in genere riescono a trovare soluzioni alternative all'insegnamento, ma il peggio si verifica per i docenti che hanno più di dieci anni di scuola e che sono logorati dal mestiere. Non mi consta che siano stati elaborati molti programmi per aiutare i docenti ad uscire dalla scuola, mentre invece questa potrebbe essere una pista da seguire sia per migliorare la qualità dell'insegnamento, sia per rinnovare il personale scolastico.
Una politica di gestione del personale della scuola che miri a tenere nella scuola i buoni docenti, a non perderli e che non tema di adottare una strategia dinamica di rinnovo costante del corpo insegnante dovrebbe essere molto più innovativa delle politiche attuali che sono in gran parte conservative perché si preoccupano soprattutto di difendere i diritti acquisiti senza preoccuparsi di gestire le competenze e le motivazioni, ossia la qualità del personale della scuola.
L'OCSE, come tu hai citato, sta studiando in questo momento modelli alternativi di politiche del personale della scuola per identificare i provvedimenti e le soluzioni che promuovono la qualità dei docenti . L'Italia partecipa a questo progetto e sarà pertanto possibile tra circa un anno comparare il quadro italiano a quello di altri paesi nonché ipotizzare, sulla base delle osservazioni svolte in diversi contesti, gli interventi che potrebbero migliorarlo.

A. C.
Grazie infinite, Norberto, per questo insieme di analisi e considerazioni che hai svolto, con l'acume e la spregiudicatezza di sempre.

Auguriamoci che possano contribuire a smuovere almeno un po' la palude della condizione docente.