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Quando si studia e si ama
 Luigi Settembrini (1813-76)

Insieme al grande De Sanctis, di poco più giovane di lui, Luigi Settembrini è il nostro secondo vero insegnante patriota (altri, come Cesare Abba, lo diventarono e "di ruolo", con meriti non sempre limpidi, dopo l'Unità). Un vero intellettuale insegnante che fece del suo mestiere, anche quando divenne pesante e ingrato ("era una vita amara quella di andare correndo per le case dei signori, era il mestiere affannoso dello zampognaro, che viene, fa la sonata, e va via", p.153), la sola forza capace di trasformare la società. Nella primavera del '48, in piena guerra, indicava ai suoi scolari come vero impegno lo studio: "pensate che il vostro bisogno più grande è quello di istruirci, perché un popolo ignorante è sempre servo o di uno o di pochi o di molti". Egli poneva alle origini della servitù l'ignoranza ed il conformismo: "Noi siamo diventati servi non per mollezza di clima, o per razza tralignata, ma perché siamo donnescamente e fiaccamente ducati" (Scritti vari, p.120). Dopo la condanna a morte, nell'ultimo socratico discorso al secondino, pone al centro del suo programma politico l'istruzione popolare: "Facendosi buone leggi tutti i figlioli del popolo dovrebbero avere un'educazione, tutti dovrebbero imparare gratuitamente a leggere e scrivere nelle scuole della era o della domenica" (p.272). Da questa riconosciuta preminenza dell'istruzione su tutti gli altri problemi politici il Settembrini deriva la sua concezione dell'opera dell'intellettuale come opera di insegnamento, il suo ideale polemico e civile dei compiti della letteratura, la sua aspirazione ad un linguaggio semplice e comprensibile a tutti.

Anche dopo l'Unità, ormai liberato dal carcere, Settembrini intervenne nel dibattito sulla scuola e scrisse pagine vivacissime. E' nota la sua polemica contro il burocratismo, effetto della legge Casati e contro la scuola di Stato, che gli faceva rimpiangere il vecchio insegnamento privato (la scuola del Puoti) ove il pensiero libero si era rifugiato abbandonando le scuole ufficiali borboniche. Insorgeva in nome di una scuola libera e liberatrice, capace di formare uomini interi. Ribadendo il concetto della sua giovinezza riaffermava il compito primario della scuola nella formazione della società nazionale. Il pallottoliere nelle scuole elementari, i programmi e le tesi nelle scuole medie ed universitarie gli sembravano i simboli della nuova tirannide pedantesca. Nelle tesi e nei programmi "tutta la dottrina che i giovani debbono sapere ed esporre agli esami è tagliuzzata in cinquanta o sessanta pezzetti. Ogni libricciatto è come una scatolina in pillole… e, se non è veleno, son pillole di midolla di pane,". "I frutti di questi programmi già si vedono, la cultura diviene frivola e superficiale, continuando così le future generazioni diventeranno tutti bambini, sapranno tutti leggere scrivere e far di conti e nulla più. A me i programmi sembrano la peste dell'istruzione, un trovato gesuitico per spegnere le scienze le lettere e ridurre gli uomini a bietole (Scritti vari, p.62).



Ricordanze della mia vita *

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"Sì," mi direte, "ma come campavi tu allora, povero giovanotto?" Oh, non vi ho detto che io fidava in Dio? Tra i giovani studenti c'erano di quelli che avevano bisogno del latino; c'eran di quelli che non sapevano scrivere correttamente in italiano, ed io li faceva scrivere: insegnavo in una scuola femminile, e in alcune case particolari. Erano quattrinelli che guadagnavo, ma mi bastavano, e ci campavo col mio fratello Giovanni, il quale studiava le matematiche e il disegno per divenire architetto, ed era sempre allegro, e per la casa andava canterellando le arie de la Sonnambula, e mi faceva trovar pronto quando tornavo a casa il rosto di pecoro che era il nostro cibo consueto. Con che gusto, con che gioia, con che risate quel mio fratello ed io facevamo il nostro pranzo! Un giorno che io rilessi d'un fiato le Georgiche di Virgilio, e poi mangiammo due piccioni che ci furono regalati, lo ricorderò sempre quel giorno felice, io mi sentii più grande di un imperatore, e cenai proprio in Apollo. Con le Georgiche in capo, e un piccione in corpo chi stava meglio di me? E poi io aveva veduto una fanciulla che aveva due occhi come due stelle, e sebbene non l'avessi più riveduta, io n'ero innamorato e avevo sempre innanzi alla mente quegli occhi e quella persona gentile. Oh chi era? dov'era? lo non lo sapevo, ma io l'amava.

A vent'anni quando si studia e si ama e si ama con tanto ardore è pur bella la vita! Con la mente ed il cuore così pieni io avevo pochissimi bisogni e mi credevo più ricco e maggiore di tutti i maggiori del mondo.

A Napoli, oltre all'Università , il Settembrini (come il De Sanctis) frequenta assiduamente la scuola del marchese Puoti, di cui traccia un vivissimo ruitrattio nelle pagiuen che seguono tratte dalle Ricordanze. Attraverso i modelli dell'antico linguaggio del Trecento, il purista Basilio Puoti, voleva che i giovani appassionati e volonterosi della tempra del Settembrini parlassero come Dante per operare secondo l'onorata "virtù" di Francesco Ferrucci. Il mondo della sapienza civile e della fortezza morale cui il marchese Puoti iniziava i giovani delle province borboniche non si limitava agli aurei secoli del Due e Trecento, ma abbracciava tutta intera la lezione della classicità; qui, per il giovane Settembrini, la lezione dello studio napoletano concordava con l'insegnamento paterno. Fece profondamente sua la lezione liberatrice dei classici, la fede stoica nella libertà interiore, quella invincibile serenità che conservò intatta sull'orlo del patibolo e che lo confortò nella lunghissima prigionia.

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Mentre nell'università il Bianchi leggeva agli scanni e a quattro studenti, il marchese Basilio Puoti aveva in sua casa una fiorita scuola di lettere ltaliane, dove convenivano oltre dugento giovani. Prima del 1820 quando s'ebbe a fare il professore di letteratura italiana nell'università, si presentarono al concorso parecchi, fra i quali il Puoti, e il poeta Gabriele Rossetti. Il tema fu: scrivere un commento italiano ad un sonetto del Petrarca, ed una dissertazione latina sopra non so qual secolo della nostra letteratura. La benedetta dissertazione latina decise del merito. Il Bianchi professore in un collegio, avendo abito e facilità di scrivere in latino, poté dire agevolmente tutto quello che sapeva, dove che gli altri più o meno impacciati dalla lingua dissero meno di quello che sapevano: onde giudicati imparzialmente su gli scritti, il Bianchi ebbe il primo luogo, e l'ultimo toccò al povero Rossetti, che fece qualche errore di grammatica, tutto che avesse quell'ingegno e quella beata vena di poesia. Tutto questo me lo narrava il Bianchi, e dimostra come nel concorso non apparisce il migliore.Il Puoti escluso dall'uffizio pubblico, si messe privatamente a fare quel bene che si era proposto, a ristorare la lingua già guasta e imbarbarita. Voi sapete che quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto; e che quando gli ritorna il pensiero e il sentimento della sua passata grandezza, la lingua ritorna appunto all'antico. Sapete che così avvenne in Italia, e che la prima cosa che volemmo quando ci risentimmo italiani dopo tre secoli di servitù, fu la nostra lingua comune, che Dante creava, il Machiavelli scriveva, il Ferruccio parlava. Sapete infine che parecchi valenti uomini si diedero a ristorare lo studio della lingua, e fecero opera altamente civile, perché la lingua per noi fu ricordanza di grandezza di sapienza di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancor credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale. Ora tra questi valenti uomini fu il marchese Basilio Puoti, il quale lasciato il titolo, la primogenitura, e il governo della famiglia al suo fratello minore, si messe ad insegnare gratuitamente le lettere e la lingua d'Italia. Egli non era uno scrittore, non aveva concetti nuovi e grandi, e arte di tirare a sé i leggitori; ma era un solenne maestro, aveva giudizio retto, gusto squisito, amore grande agli studi ed ai giovani: era cote non rasoio. Eppure se avesse scritto come ei parlava, con quei motti, con quei frizzi, quelle ire subite, e poi quell'abbandono e quella bonarietà tutta sua, sarebbe stato piacevolissimo: ma la troppa arte lo impacciava, lo rendeva un altro uomo quand'ei scriveva, e non ti pareva più napoletano. Lo deridevano come purista e cruscante, ed egli sprezzò anche la beffa che pochi uomini sogliono sprezzare, si circondò di giovani che lo amarono assai, e fondò una scuola che ebbe gran nome e fece gran bene. Quelli stessi che prima lo sfatavano, cominciarono a vergognarsi del sozzo ed infranciosato scrivere, riconobbero la necessità di correggersi, accettarono una parte delle sue dottrine: ed egli profittando della costoro opposizione andò temperando il suo rigore. Così avviene di ogni dottrina che prima nasce direi quasi angolosa ed immaneggiabile; e poi a poco a poco va accomodandosi a la necessità dei tempi. Ci è ancora chi lo chiama pedante: eppure la pedanteria è un santo rigorismo in mezzo alla licenza, ed ha un profondo significato nella storia del pensiero. Per me io credo ed affermo che la sua scuola in fatto di lingua ne seppe più che ogni altra in Italia, e che tra noi se vi fu e vi è gusto di buona lingua, tutti direttamente o indirettamente ne sono obbligati a lui. Rarissimo uomo, chi lo conobbe da vicino ne amerà sempre la memoria.

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Mi ricorda la prima volta che lo vidi. Senza raccomandazioni me gli presentai così a la buona, tirato da la fama della sua bontà e del suo Sapere.
Lo trovai fra una dozzina di giovani in una stanza dove non era altro arnese che libri negli scaffali, su le tavole, su le seggiole; ed in un canto v'era il suo letto dietro un paravento. "So che amate i giovani, io gli dissi, ed io desidero farmi amare da voi." "Bravo, giovanotto; se vuoi studiare saremo amici. Vediamo quello che sai: spiegami un po' degli Uffici di Cicerone." Spiegai, risposi a varie dimande: "Bene, batti sul latino ogni giorno: ogni giorno una traduzione dal latino, e una lettura d'un trecentista. Nulla dies sine linea." E mi accettò tra i suoi scolari. Ei non viveva che di studi, in mezzo ai giovani ai quali era compagno ed amico: con essi studiava, con essi passeggiava, con essi lavorava ai comenti dei molti classici che fece ristampare per diffondere la buona lingua; ad essi dava consigli, libri, avviamento; molti ritrasse da pericoli, a molti diede anche del suo. Sapeva bene il latino, bene il greco antico, parlava il moderno, benissimo il francese: pieno di motti e di lepori,31 facile all'ira, facilmente placabile, ebbe animo sempre giovanile, e seppe mettersi a capo di dugento giovani senza dare sospetto a chi reggeva. Una volta mi disse: "Pare piccola cosa quella che io fo, ma quando sarò morto la intenderete. Se io vi dico di scrivere la vera lingua d'Italia, io voglio avvezzarvi a sentire italianamente, e avere in cuore la patria nostra. Tu vedrai altri tempi, e spero farai intendere ciò che io ho tentato di fare, e non dimenticherai l'amico della tua giovanezza. Degli scolari del Puoti alcuni sono rimasti fedeli alle sue dottrine ed hanno coltivati studi grammaticali, come il Rodinò, il Melga, il Fabbricatore; altri di maggiore ingegno, e di piu larghi studi, le hanno interamente abbandonate, come Francesco de Sanctis ed Angelo Camillo de Meis, in quella guisa medesima che si abbandona i primi elementi in ogni disciplina e si procede innanzi nel vasto campo della scienza. Questi che io chiamerò i maggiori scolari del Puoti ne hanno svolte e dilargate le dottrine, le quali anche nella loro primitiva strettezza sono vere e necessarie a tutti. L'opera del Puoti rimane e rimarrà sebbene trasformata dai suoi discepoli che vivono una vita novella, e non sono più napoletani ma italiani.

Dopo una scuola di tale qualità, Settembrini, nel 1835 si presenta all'esame di concorso (uno scritto e un colloquio orale come oggi!) e lo supera brillantemente. Vuole diventare insegnante.

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Io volevo ottenere la cattedra di rettorica e lingua greca vacante nel liceo di Catanzaro, perché in quella città era mio fratello Peppino, e ci era andato anche Giovanni, e con me erano rimasti gli altri due fratelli minori e la sorella, essendo già morti i nostri nonni e l'ottimo zio Filippo Giuliani nostro tutore: e cosi io volevo riunire colà la sparsa famigliuola. Però mi preparavo al concorso, e studiavo chi vi può dire come e quanto? Avevo dinanzi a me due premi bellissimi, una cattedra, e la mia Gigia. Talvolta mi veniva uno sgomento, e dicevo a lei: "Ma sarò io professore?" "E di che temi? tu studii tanto!" "E se mi faranno un torto? e se nell'esame io mi confondo?" "Non te lo faranno, ne ti confonderai se tu mi ami davvero." "Se ti amo?" "Ebbene, raccomandati ad Amore: esso è un santo che sa fare di grandi miracoli." Così ella mi rianimava e mi accendeva. Io non perdevo briciola di tempo, ed anche camminando per le vie leggevo Omero, e ne andavo ripetendo i versi: e poi a un tratto correvo col pensiero a lei, e mi scordavo d'Omero. Oh, chi mi ridona quegli anni, quegli studi, quei giorni d'amore e di speranza? Una sola volta in vita si studia bene, come una volta sola veramente si ama.

Venne il 18 agosto 1835, ed io mi presentai nell'università innanzi otto professori componenti la facoltà di letteratura e filosofia. Dei molti scritti al concorso non ci venne che un solo, il quale ne aveva fatto un altro e ottenuto il secondo luogo, e veniva a questo con una certa confidenza di ottenere la cattedra. lo temevo perché mi sentivo a un gran punto. Si aprirono i libri, e ci diedero le tesi: si apri Omero, e avemmo a voltare in latino i primi dieci versi della seconda Iliade, e farvi su un comento filologico: si apri Cicerone de Oratore, e avemmo a scrivere una dissertazione latina su l'azione oratoria; si apri Orazio e avemmo a scrivere le lodi di Augusto in esametri latini ed in un'ode saffica italiana.

Come udii le tesi respirai, e non tremai più, anzi con una certa baldanza mi apparecchiai al duello col mio avversario. E l'arena di quel duello fu la sala del museo mineralogico, dove tredici anni dopo, nel 1848, fu la Camera dei deputati. Scrissi di forza, e scrissi il comento filologico tutto in greco, e questo fece un gran colpo: i professori mi credettero un ellenista valente, poco meno che un Errico Stefano, ed io non era altro che un pappagalletto ardito che ricordavo sino i punti e le virgole: ora tutto quel greco se n'è ito. Otto giorni dopo recitammo un discorso italiano per dar pruova come s'ha a parlare da la cattedra. La facoltà diede il suo giudizio, e lodato il mio avversario nominò me professore. E così per quattro scarabocchi latini e quattro greci mi diedero una cattedra di eloquenza, mentre avevo ventidue anni, sapevo tanto poco, e avevo bisogno di andare a scuola. Ci voleva la laurea, e senz'altro esame me la diedero, ma dovetti pagare, perché quando si tratta di quattrini non c'è greco ne latino che tenga, la facoltà di letteratura non intende di finanze, e bisogna pagare.

Dopo il concorso, Settembrini iniziò la sua carriera di insegnante del regno di Napoli. I quattro anni trascorsi al Liceo di Catanzaro vedono alternata la pratica operosa dell'insegnamento con appassionati propositi di rinnovamento e di giustizia politica ("mantenere vivi, diffondere con le parole, con gli scritti e con i libri il sentimento di libertà, far vedere e sentire l'ingiustizia e le stoltezze del governo, mostrare i beni che si godono nei paesi liberi, onorare la memoria dei nostri patrioti caduti nel 1799 e nel 1821"). Tanto ardente la fede di Settembrini, propagandista incauto della Giovane Italia del Musolino, da ignorare la mala genia dei profittatori, degli intriganti e delle spie (a proposito dell'altra setta da lui fondata nel 1848, il De Sanctis dovrà scrivere: "Quando Settembrini ci presentava uno nuovo e diceva: Questi è dei nostri, mi venivano i brividi"). Il tradimento di un certo Barbuto, informatore segreto della polizia, gli procurava il primo arresto, la notte dell'8 maggio 1839 e la fine della sua carriera di insegnante di Liceo.

Un mese dopo, nel novembre del 1835, mi messi in viaggio con la mia Gigia, coi miei fratelli e la sorella. Avendo già pronta la prolusione da recitare; e dopo nove giorni che ci vollero a percorrere in un carrozzone dugento cinquanta miglia, finalmente giungemmo a Catanzaro.

[…]

Il liceo di Catanzaro era uno dei quattro del regno, nei quali oltre l'insegnamento letterario si dava il primo grado d'insegnamento professionale, c'erano cattedre di diritto, di medicina, di chimica, d'agricoltura, e di matematiche sublimi, e ci si aveva la licenza: per la laurea poi si doveva venire all'Università.

Dopo il 1848 il Governo per non far raccogliere in Napoli molti giovani provinciali, messe in tutti i collegi l'insegnamento professionale, e li trasformò in licei, e li diede a governare ai padri gesuiti o agli scolopi, che mirabilmente impecorirono i giovani. Io mi messi ad insegnare con ardore e con amore a quei cari giovanetti, che essendo poco minori di me per l'età m'intendevano e mi amavano tanto. Poveri giovani! Ne ho riveduti parecchi nelle carceri e nelle galere con la catena al piede; e sono venuti a visitarmi nell'ergastolo. I frati non li fanno questi allievi.

Il rettore mi disse che gli alunni del liceo due' volte l'anno solevano far un'accademia nel giorno del nome e nel giorno della nascita del Re, cioè recitare versi italiani, latini, e greci in lode di Sua maestà; e che tutti quei versi doveva farli io professore di retorica, perché gli alunni non sapevano, e gli altri professori non avevano questo debito. Mi sentii rovesciato addosso una pentola d'acqua bollente; non sapevo di aver quel dovere, e da adempierlo subito, che tra pochi giorni sarebbe venuto il 12 gennaio 1836, in cui re Ferdinando compiva il suo ventesimo sesto anno. Mi dibattei come un cavallo selvaggio preso al laccio, e mi sentiva avvilito innanzi la mia coscienza. Non c'era che fare. Si pensò che la regina era per partorire, e che sarebbe stato meglio fare l'accademia in occasione del parto. Ella partorì il 16 gennaio, ed io mi messi a cantare; ma dopo quindici giorni venne la nuova che ella era morta, ed io dovetti cangiar tuono!

*Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, Milano, Feltrinelli, 1961, pp.63-67; 86-88.
Il primo volume delle Ricordanze, a cui si riferisce il brano citato, apparve a Napoli nel 1879, tre anni dopo la morte del Settembrini, per i tipi dell'editore Morano.
Un anno dopo uscì un secondo volume - sempre sotto il titolo di Ricordanze - che comprendeva insieme scritti autobiografici, lettere famigliari, pagine di diario, versi, bozzetti e brani documentari.

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