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Amico tra amici
   (Francesco De Sanctis, 1813-1876)

Patriota, politico, ministro dell'istruzione dell'Italia unita, Francesco De Sanctis (1817-1883) fu anche eccellete insegnante ("maestro nato", dice di se stesso). Fece il suo apprendistato alla scuola di Basilio Puoti, appartenente a una nobile famiglia napoletana, che teneva lezioni di letteratura italiana in un'ampia sala del suo palazzo, a Napoli. Scolaro prediletto del Marchese, che spesso si rivolgeva a lui con un: "Che ne dici Francesco?", divenne il suo più prezioso collaboratore: a lui affidò nel 1837 i più ignoranti dei suoi allievi "a fine di scozzonarli" (a questo periodo si riferisce il brano che riportiamo). Nel settembre del 1839, per intercessione del Puoti, fu nominato professore nel Real Collegio Militare di Napoli, alla Nunziatella.

E' merito originale del De Sanctis l'aver elaborato coraggiose proposte formative, originate soprattutto dall'esperienza vissuta nel periodo napoletano in cui, molto probabilmente senza conoscere Pestalozzi, né padre Girard e nemmeno Herbart, applicava più o meno consapevolmente le proposte innovatrici, adattandole però alle esigenze dell'istruzione per ragazzi di "famiglie bennate" chiamati a cimentarsi con la grammatica e poi con la retorica. Non solo quindi sostituzione del latino con l'italiano eletto nuova materia guida, ma insieme sostituzione del metodo cattedratico o retorico con quello colloquiale: tutti intorno a un tavolo, compreso il professore divenuto primus inter pares che ha rinunciato agli scranni alti e pomposi come troni, per non parlare della janua magistri che nei vecchi istituti gesuitici adduceva direttamente al piano sopraelevato su cui era istallata la cattedra, quasi come un pulpito o una tribuna, senza mai intersecare il percorso degli studenti. Il docente, nella pedagogia gesuitica, come un vero e proprio deus ex machina della scena antica, doveva arrivare dall'alto.

Pertanto la scuola del De Sanctis, pur avendo alle sue radici quella del Puoti, veniva sempre più delineando una sua fisionomia, determinata soprattutto dalla presenza in essa di una maestro giovane, colto, aperto ai problemi nuovi della vita e dell'arte, in perfetta confidenza con gli allievi (vedi la straordinaria figura di De Meis, "anima della scuola"). Questo amore della cultura generato dalla passione e dall'intelligenza del maestro faceva sì che tutta la scuola del De Sanctis si fondasse sull'interesse, cioè sulla partecipazione viva e attiva degli allievi: "Il vero maestro è quello che aiuta a cercare a scoprire". E la partecipazione non si fermava alle pagine dei classici, si alimentava di un principio etico quale quello di onestà, di sincerità e di coerenza tra il dire e il fare, che non poteva sfuggire agli avvenimenti politici che incalzavano. Il De Sanctis nella scuola non trattava questioni politiche, ma nel suo insegnamento era implicito un atto di vita: "Io non parlai loro (agli allievi, n.d.c.) mai di libertà, non parlai mai d'Italia, parlavo della dignità personale e dicevo: guardate in tutto la dignità della vostra persona: quello che voi dite è parte di voi, è la vostra personalità e mentire alla vostra parola é una mutilazione della vostra persona, è fare una cattiva azione, è uno sporcare la vostra persona. E in queste parole c'era tutto: c'era la patria, c'era la libertà, c'era l'Italia…".



La Giovinezza *

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In quell'anno la scuola s'era molto popolata. V'erano intervenuti giovani d'ingegno, che spiccavano in quella grande moltitudine. […] Questa eletta schiera diede il tono alla scuola. Io li chiamavo il mio Stato maggiore. Era visibile il progresso, soprattutto nei componimenti e nella critica. Non era più quistione solo di lingua e di stile: i giovani si addestravano a cercare nelle viscere dell'argomento, a trovarvi la situazione e da quella derivavano la bontà o il difetto del lavoro. Questo li tirava all'unità del disegno, all'ossatura e al congegno delle parti. Lo stile veniva in ultimo, ed era esaminato non solo in sé, ma più in relazione all'argomento. Quando la conclusione della critica era questa formula: "la situazione è sbagliata", l'autore si faceva pallido, il lavoro era giudicato essenzialmente cattivo. Nei giudizi il più indulgente ero io, che trovavo sempre nei lavori più mediocri qualche pregio, il quale mi apriva l'adito a parole di conforto e d'incoraggiamento. Questa maniera di critica riusciva barocca presso gl'ingegni comuni, inetti a orientarsi e a guardare il lavoro nella sua sostanza, pedanti nel loro rigore e facili a dire: " La situazione è sbagliata". " Ciò che vi è di sbagliato, dicevo io allora, è la vostra critica". Un giudizio buono era un avvenimento, come un buon lavoro. Si dice che i giovani sono i migliori giudici dei professori, ed è vero, ed io ci credevo molto. Il livello infatti s'era tanto alzato ch'io mi misi in pensiero, e misuravo le cose e le parole, perché, essi, sincerissimi e attentissimi, talora mi guardavano con un'aria impersuasa, alzando il muso con un atto che voleva dire: "Questa volta non ha dato nel segno". Io mi ripetevo, rincalzavo, mi spiegavo meglio; ma la mia coscienza si avviliva in quel mio armeggiare, e la mia sincerità mi dipingeva sul volto la mia condanna. Questo mi rendeva più preziosa la loro approvazione, ugualmente sincera, e mi stimolava a raccogliermi e a studiar bene. Non era in verità cosa facile imbroccare la situazione, guardando, nel fare la critica, la cosa da quei lati che l'argomento richiedeva. Talora si rimaneva troppo sul generale e s'ingrandiva il quadro, e questo avveniva per lo più con frequenti richiami da parte mia. Qualche volta ci capitavo io, ed il loro volto diceva: "Ecco, anche lui ha incespicato ". I due che avevano acquistato più autorità erano Magliani e De Meis. Magliani era un po' secco, ma preciso e serrato. Però il suo dire non andava al cuore e non destava entusiasmo. De Meis era insinuante, incisivo, facile all'emozione, e guadagnava gli animi e suscitava le approvazioni.

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Una sera la scuola era molto animata. Io ero di buonissimo umore, e lessi la Griselda del Boccaccio. Feci parecchie osservazioni piccanti, e scelsi tre giovani perché studiassero la novella e ne facessero la critica. Tra questi era De Meis, che si scusò allegando le sue occupazioni, ma insieme ci annunziò un suo lavoro. Era il primo suo lavoro in iscuola. Successe uno di quei movimenti di attenzione che segnalano qualcosa di straordinario. Egli cominciò adagino, con quella sua voce che anche oggi tocca il cuore, senza ombra di ostentazione o pretensione, semplice nello scrivere com'era nella vita. Si trattava di uno studente venuto in Napoli e divenuto un giocatore. Il giovane era studioso, ma, capitato in mala compagnia, fu tratto al vizio. Sul principio il racconto procedeva liscio, ma sempre filato e nutrito, non stagnava mai e non divagava, l'attenzione era sostenuta. Poi, nella storia di quella depravazione progressiva si notarono certe finezze di gradazione, che rivelavano un ingegno superiore. Cominciò nell'uditorio uno di quei movimenti di soddisfazione che si sentono e non si descrivono. Era un senso indefinito di ammirazione, che scoppiò in voci di applauso quando il giovane autore, con uno stile colorito e pittoresco, ci mostrò il giovane, sprofondato nel gioco, che "metteva la sua anima su quattro carte dipinte". Quel motto fece così viva impressione, che non l'ho dimenticato più. Quando finì, gli fummo tutti attorno, e io mi levai egli andai incontro, e dissi: "Ecco un'altra rivelazione". Ebbe un'ovazione, in mezzo alla quale egli si faceva piccino, quasi per sfuggire a quel trionfo.

De Meis divenne l'anima della scuola. Lo stimavano per il suo impegno e per la sua coltura straordinaria, e lo amavano per la bontà della sua natura. Anima pura e ideale, accompagnava la rettitudine e severità dei principii con un'amabile indulgenza che gli amicava anche i più rozzi. Partecipe a tutti i sollazzi giovanili, più per compiacenza che per desiderio, aperto all'amicizia, salì in tale fiducia e in tale dimestichezza che divenne il confidente intimo di quella gioventù. Pure serbò tanta modestia che sembrava lui solo ignorasse quello ch'egli valeva.

La scuola s'era arricchita di altri valorosi. C'era venuto Francesco Saverio Arabia, Cirillo di Trani, Paolo Kangian; e tutti si strinsero intorno a De Meis. Questo nucleo di giovani, mantenutosi saldo in sino a che durò la scuola, divenne il punto fermo, intorno al quale girava tutto il resto. La scuola prese un'aria di famiglia, penetrata da un solo spirito. Non ricordo mai che un giovane si fosse incollerito della critica fatta al suo lavoro, anche severissima; anzi nacque il costume che si andava a ringraziare l'autore della critica, e seguiva uno scambio di cortesie. Questo ingentiliva gli animi più zotici, e li disponeva a sentimenti nobili. C'eravamo tutti alzati in un'atmosfera elevata, alla quale non pervenivano i rumori della vita comune. […]

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In mezzo a loro io non prendevo aria professorale. Stavo come amico tra amici, alla buona e in tutta dimestichezza. Ma la mia natura concentrata mi teneva lontano da soverchia familiarità; c'era non so che cosa nell'aria del volto, che non consentiva altrui un soverchio abbandono, e mi manteneva il rispetto. Quando poi si usciva dalle conversazioni e cominciava la lezione, io mi trasformavo addirittura. Avevo un concetto così alto della mia missione che il mio magistero mi pareva un sacerdozio. Avevo gli occhi bassi, la mente in travaglio, insino a che, preso l'aire, gli occhi s'illuminavano e la voce s'intonava. Tutto questo avveniva con tanta serietà e con tanta sincerità che produceva una certa comunione delle anime, e non si sentiva. un "zitto!". Questa era un'aureola che manteneva il mio prestigio, sì che bastava una voltata d'occhio per farmi ubbidire. Non mi ricordo mai che nessuno mi abbia risposto.

Ciascun uomo ha il suo ritornello. E il mio ritornello era il disprezzo del luogo comune e il disprezzo del plebeo. Il maggior dispiacere che potesse avere un giovane era il sentirsi a dire di qualche suo lavoro: "L'è un luogo comune". Ed era una trafittura quando si sentiva a dire: "I sentimenti sono pleblei". Questo dava una impronta singolare alla scuola. Si abborriva dal mediocre; si mirava alla eccellenza. Io ero incontentabile; solevo dire: "Mi contento per ora", mostrando loro un più alto segno. Dicevo che il vero ingegno non s'acqueta mai, e poggia sempre più alto. Questo teneva in moto continuo l'intelletto, e lo sforzava a cose nuove. Qualcuno mi osservò che ponevo la mira troppo alta, ove non arrivavano che i pochi; ma non c'era verso, l'impulso era dato. Dotato di molta pazienza, mosso da un gran desiderio del bene, tentai un corso speciale per i meno provetti, ritornando alle cose grammaticali, e dettandone un sunto. Ma se ne cavò poco frutto. Ciascuno mirava là dove splendevano gli astri maggiori, e avveniva che talora in lavori a grandi pretensioni si notavano scorrezioni grossolane, anche sgrammaticature. Se però il profitto non era uguale, il buono indirizzo giovava a tutti, stimolando le forze dello spirito.

Quello che volevo nello scrivere, volevo anche nella vita. Dicevo che lo scrittore dee concordare con l'uomo, e perciò anche nell'uomo volevo il disprezzo del comune e del plebeo. Ciò io chiamavo dignità personale. In questa parola compendiavo tutta la moralità, e dicevo che la dignità era la chiave della vita.

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Contravveniva alla dignità la menzogna, ch'io perseguitavo così nello scrivere come nell'azione. "La menzogna nello scrivere, dicevo, è roba da retori e da pedanti". Ero così inflessibile, che dannavo non solo gli ornamenti e i ricami, che chiamavo il belletto e il rossetto dello scrivere; ma anche le frasi convenzionali e usuali di una ostentata benevolenza. Parimenti inflessibile ero nella vita, e dicevo che la menzogna era la negazione della propria personalità, un atto di vigliaccheria. Con lo stesso zelo flagellavo ogni atto basso e volgare, come la cortigianeria, la ciarlataneria, l'intrigo, la violenza, la superbia. Dicevo che l'orgoglio è il sentimento della dignità, ed è nell'uomo e nella donna la guardia della virtù; e chiamavo la superbia una maschera della dignità, una menzogna. "La vita, dicevo, è una missione determinata dalle forze che ciascun uomo ha sortito da natura, e che ha il dovere di svolgere secondo i grandi fini dell'umanità: la scienza, la giustizia, l'arte, che con parole del tempo si chiamavano il vero, il buono, il bello. La dignità non è cosa passiva, e non è cosa esteriore; il decoro è la sua apparenza, non è lei. La dignità è uno sforzo verso il meglio, che nobilita la persona". Queste idee mi venivano fuori non in forma di lezione, ma secondo l'occasione, e trovavano il loro luogo specialmente nella critica degli autori e nelle mie prolusioni. Ho trovato nelle mie vecchie carte vari brani d'un discorso che pronunziai in quell'anno. Voglio riferirne alcuni, che daranno un concetto della scuola: "Ed ecco, noi siamo qui insieme un'altra volta: amico, rivedo gli amici miei. Con questa cara parola ci separammo l'ultima volta, e questa cara parola mi ritorna ora sul labbro. Voi, giovani, che qui la prima volta venite, specchiatevi in coloro ch'io ho chiamati col nome di amici miei; e il loro esempio vi mostri che delle lettere il primo frutto è la gentilezza; e ricordatevi che spesso la bontà genera la sapienza e il cuore ispira la mente. Questo è il fondamento della nostra scuola; e quando vi sarete avvezzi ascrivere quello che avete prima sentito, voi non descriverete più battaglie, assedi, tempeste, tombe e cimiteri, e non scriverete più lettere di complimenti, di congratulazioni, di lode, voi, giovani sdegnosi dell'adulare e schivi di quelle civili menzogne che chiamano cerimonia e convenevoli. No: preparatevi a scrivere con verità e naturalezza, serbando inviolata in voi l'umana dignità. Sia questo il principio e l'insegna della nostra scuola".

Queste idee non erano rettorica, anzi talora mi venivano di rimbalzo dalla stessa scuola. Alitava sopra tutti uno spirito "pieno d'amore", come direbbe Dante, il quale ci teneva stretti intorno alla bandiera, alti sulla vita comune.

* Francesco De Sanctis, La Giovinezza, in Scritti pedagogici, Roma, Armando Editore, 1959 (pp.82-87).

Francesco De Sanctis
 

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