L'uomo nuovo
   Giuseppe Pontiggia (1934)

Giuseppe Pontiggia rivive in un romanzo, parzialmente autobiografico ("Io certamente ho raccontato il mondo della scuola quale l'avevo vissuto trent'anni fa. Penso che i pericoli che ho denunciato siano da un lato il rispetto formale delle regole seguendo una sorta di osservanza burocratica ottusa, dall'altro l'ideologismo velleitario e volontaristico" - da una intervista, 2001), la vicenda dell'integrazione di due handicap: essere insegnante e padre di un figlio disabile.

Per suo figlio, l'insegnante si scontra con la burocrazia scolastica, impersonata dall'ipocrisia, dall'opportunismo e dal formalismo del direttore didattico e della preside della scuola media, dove intende iscrivere il ragazzo (tutte e due figure "da antologia"). Ma le sue peripezie, anche le sofferenze e i drammi interiori di padre non gli impediscono di guardarsi attorno e di fare i conti con il terremoto del Sessantotto, che tra i suoi colleghi ha prodotto strane e sconcertanti trasformazioni.

L'incarnazione di una di queste, la più insidiosa e distruttiva del ruolo docente, è rappresentata dal collega Cornali, l'insegnante "democratico", figura non insolita nei ricordi dei colleghi (vedi Albinati, 1999, p.53), ma qui il ritratto assume anche i toni di una requisitoria e del disprezzo per chi usa il proprio ruolo per manipolare gli studenti e per occultare il proprio abisso di ignoranza e di incompetenza (continuamente sperimentale); egoismo e superficialità allo stato puro.



Nati due volte *

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Cornali si considerava l'araldo di una pedagogia nuova. […] Aveva proposto e ottenuto non senza l'opposizione tacita dei più sensibili di farsi contraccambiare il tu. Molti del resto pensano che l'uguaglianza riguardi anche la grammatica dei pronomi. E non hanno tutti i torti. Ma spesso vorrebbero liberarsi anche della grammatica.

Chiedendo agli studenti di considerarlo un coetaneo, Cornali li metteva in imbarazzo, dati i trent'anni di differenza. Assomigliava a quei genitori che si professano amici dei loro figli, illudendosi di condividere con loro non solo i giochi, ma l'età.

Un passo successivo era stato di sostituire il voto dell'insegnante con quello dello studente. Un esperimento che io stesso avevo abbandonato, il secondo anno di insegnamento, dopo averne constatato i pericoli: gli studenti più consapevoli e orgogliosi, tentati da fiere autolesioni, si assegnavano il voto più basso. Quelli più furbi e ilari, il più alto. E tutti eravamo insoddisfatti, la classe e io. Cornali invece, saltando la verifica dell'esperimento - fase di cui gli ideologi non hanno alcun bisogno - era addirittura passato alla sua correzione. Correggeva infatti, migliorandoli, tutti i voti, gratificando tutti: sia i più preparati che passavano dal loro sei, quaresimale e punitivo, a un otto entusiasta, sia i meno meritevoli, che arrivavano a una qualificazione generosa. La sua classe, popolata di geni in atto e di talenti in ombra, era stata sollevata e quasi travolta da una ondata di euforia. Lo apprendevo da lui stesso, che faceva confronti con la mia classe.

"Vedi" mi diceva con l'aria pacata, e meditativa degli aggressori occulti. "Tu dai del lei agli studenti e lo capisco, perché sei molto più giovane di me e hai bisogno di distanza, che scambi per autorità. Ma io alla mia età posso permettermi il tu, perché non devo simulare l'autorità. lo ce l'ho e ci rinuncio."

Era una di quelle menti in perenne effervescenza, in cui le idee ribollono e si rimescolano, gestite da una cucina irresponsabile. I singoli ingredienti sono apprezzabili, il sapore è gradevole, ma l'insieme è incommestibile.

"So che tu tieni alla disciplina" aggiungeva. "E anche questo è un segno della tua vecchiaia precoce. La disciplina è un'eredità autoritaria."

"No" gli dicevo. "E' il contrario. E' autoritario il caos della tua classe, dove chi ha la voce più alta domina gli altri. Io pretendo che, quando spiego o qualcuno domanda, gli altri possano sentire. Altrimenti vadano altrove."

"Lo vedi che sei un insegnante all'antica?" replicava lui, come se scoprisse un criminale. "Tu pretendi il silenzio."

"Certo" rispondevo. "Come un pianista. Io per suonare e gli altri per sentire."

"Quello che mi meraviglia" aveva concluso lui, pensieroso, "è che gli studenti ti rispettino. Eppure tu sei troppo esigente."

 

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Mi guardava, nella confusione radiosa delle sue idee, con uno stupore autentico. Non immaginava infatti che gli studenti mi seguissero anche per questo. Né lo faceva riflettere il crollo delle classi dove la disciplina era crollata e il preside non ne colpiva più le violazioni.

"Anzi!" esclamava. "Una conferma di più! L'autorità, la superiorità riconosciuta di cui parla Horkheimer, non ha bisogno di coperture!"

(E chi non ha autorità, pensavo, che cosa deve fare?)

La sua logica perversa, la sua ragione parziale che pretendeva di essere totale, generava nuovi equivoci. Che io ottenessi ascolto senza minacce né sanzioni, lo confortava a negarle in nome di un criterio falsamente paritario a tutti gli insegnanti. Finiva così per giustificare l'indisciplina, infierendo contro i colleghi che non erano capaci di reprimerla. "Una ragione ulteriore per garantirli" gli obiettavo. "Se non sanno imporsi dobbiamo lasciarli in balia della classe?"

"Peggio per loro" mi diceva, con una ferocia lampeggiante negli occhi.

"E la loro materia" gli chiedevo, "chi la impara ?"

"Nessuno" mi rispondeva impavido. Così infatti avveniva. Non si trattava del suo futuro. È questa la verità cinica che mi si è fatta chiara nel corso degli anni. Anche se cinico è un aggettivo che viene spesso riservato non a chi incarna un comportamento, ma a chi lo denuncia.

Classi intere disertavano, materialmente o idealmente, interi corsi. Si udivano, passando in corridoio, professoresse che gridavano non per impetrare silenzio, ma per sovrastare le urla. A volte riuscivano improvvisamente a ottenerlo, perché gli alunni si lasciavano scuotere da quelle invocazioni, tra esasperate e stridule.

Cornali, più che parteggiare per gli studenti, si accaniva contro le colleghe. La sua captazione rabdomantica delle cause sbagliate gli faceva infatti trascurare le ragioni più importanti e condivisibili di quella generazione in rivolta: benché nella nostra scuola ne arrivassero solo echi fiochi e attutiti. La mia posizione, ora di adesione ora di dissenso, gli appariva, anziché una scelta problematica, una strategia prudente. Una volta mi aveva accusato perfino di intelligenza. Un'altra mi aveva rimproverato la capacità analitica, ritorsione tipica di chi è sprovvisto anche di quella sintetica. Il suo contributo più consistente al rinnovamento della scuola era stato lo sgretolamento della disciplina. Non so come sia la situazione oggi, ho lasciato l'insegnamento da troppo tempo. Temo sia, sotto questo aspetto, peggiorata, perché allora l'indisciplina era rivoluzionaria, oggi è istituzionale. Gli insegnanti più capaci la neutralizzano prodigando la propria passione didattica. Non sono la maggioranza. Gli altri, abbandonati da terra in alto mare, si comportano come è inevitabile in caso di naufragio: alleggeriscono il carico. Pretendono sempre di meno e così almeno nei documenti burocratici, diventati il sacrario della nuova scuola ottengono sempre di più. Non c'è come abbassare il metro di valutazione per innalzare il profitto di una classe: compromesso spesso taciuto dalla umiliazione dei docenti quanto ignorato dalla inesperienza degli alunni. Questo almeno mi confessa qualche insegnante sincero, a meno che io frequenti cattive compagnie.

 

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Cornali, che caldeggiava l'abolizione del voto di condotta (una istanza che il futuro avrebbe reso superflua), aveva introdotto nel suo corso una innovazione: lo studio regressivo della storia dell'arte, dal Novecento fino alla età della pietra. Che sarebbe come suggerire a qualcuno, per rendere più spedito il percorso, di camminare all'indietro. Gli alunni avevano dapprima aderito con curiosità, attirati dalla novità della proposta. Poi si erano accorti che l'andatura era più lenta, esigeva soste continue e ricognizioni nei due sensi per non incespicare. Ma ormai era troppo tardi per ritornare all'antico.

"Io non voglio fare confronti" mi diceva, come premette chi si accinge a farli. "Ma la tua classe ti obbedisce, la mia mi segue. Tu incuti soggezione negli studenti, io simpatia. Io li faccio sentire geni, tu lavoratori."

Lo ascoltavo divertito, c'era un calore genuino nel geyser delle sue idee, che appariva il tratto più simpatico del suo carattere. Si considerava, e amava ripeterlo, un creativo, dote che lo autorizzava a proporre le ipotesi più improbabili e a cancellarle lui stesso con un gesto della mano, come follie di un genio mondano in libera uscita. Una citazione dei Veda, una frase di Lao-tzu, una massima di Confucio davano alle sue parole, almeno nelle sue intenzioni, il passo fluttuante di una danza orientale. E l'impressione in effetti era di leggerezza, purché non si indugiasse su quello che diceva. Come molti cosiddetti creativi aveva più interesse per la creazione che per il suo oggetto. Solo che alla fine voleva l'applauso per quest'ultimo (e non gli mancava). Nella sua singolarità era un prodotto in serie, tipico della nostra società, ma non lo sapeva. Probabilmente avrebbe avuto orrore a rispecchiarsi in un suo simile, prova che la vita gli aveva risparmiato.

"Nove mesi per fare un bambino" gli rispondevo con deludente monotonia. "E la scuola dura nove mesi. Vedremo alla fine chi avrà ragione."

"E come farai a stabilirlo?"

"La reazione della classe. È il test migliore."

 

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Alla fine il maestro aveva avuto, prima degli scrutini, un coup de théâtre. Aveva comunicato a ogni studente il voto che avrebbe ricevuto e svelato contemporaneamente i rapporti di scala: ai più bravi aveva riservato i voti più bassi (per non avere impiegato al meglio i talenti posseduti), ai più deboli i voti più alti (per premiare i loro sforzi).

La classe reagì nel modo che chiunque, tranne il profeta, poteva prevedere: con un silenzio attonito, una catastrofe emotiva. Sgomenti, costernati, a testa bassa, conoscendo i miei conflitti con Cornali, gli studenti erano venuti da me a chiedere conforto. I migliori non sapevano riaversi dall'ingiustizia di una classificazione inferiore a quella dei peggiori. Cornali se li era figurati con la depravazione immaginativa ricorrente negli ideologi del tutto insensibili al voto. Ora trovare un giovane insensibile al voto è altrettanto raro che trovarne uno insensibile al denaro. Quanto agli insufficienti, Cornali li aveva previsti raggianti per l'agognato salto di qualità. E in effetti un sei li avrebbe appagati, ma l'otto li aveva avviliti, equiparandoli a inetti da gratificare senza misura e senza speranza. Il più deluso era comunque Cornali, stupefatto che la nuova generazione non generasse un uomo geneticamente diverso dalla sua.

La sua visione della Storia lo induceva a immaginare l'uomo nuovo come uno di quei mostri extraterrestri che hanno il cranio enorme e le gambe filiformi. La testa doveva infatti accumulare l'esperienza dei millenni, mentre il corpo replicava la fragilità del bambino. Scoprire invece che ricominciavano daccapo gli aveva fatto vedere nella luce del tramonto quel mondo che gli altri vedevano nella luce dell'alba.

 

Da: Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Milano, Mondadori, 2000, pp.51-57. Giuseppe Pontiggia è uno dei noti e importanti romanzieri italiani. Oltre che giornalista (collabora al "Corriere della sera") e saggista (Il giardino delle Esperidi, 1984), è stato insegnante di lettere negli istituti superiori fino agli anni Settanta, prima di dedicarsi interamente al lavoro letterario. Nati due volte ha avuto un grande successo di critica e di pubblico ed ha ottenuto il premio Campiello, 2001.

 

*Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Milano, Mondadori, 2000, pp.51-57. Giuseppe Pontiggia, narratore e critico, è nato a Como nel 1934. Attualmente vive a Milano, città dove si è laureato nel 1959 con una tesi sulla tecnica narrativa di Svevo. Accanto all'attività di scrittore si segnala il costante impegno critico con una serie di saggi su temi della narrativa classica e moderna (Pindaro, Lucano, Sallustio, Borges, Gadda, Sinisgalli), raccolti nel 1984 (Adelphi, mentre successivamente pubblicherà con Mondadori) in un unico volume (Il giardino degli Esperidi). Il suo esordio come narratore avviene nel 1959, con il lungo racconto autobiografico La morte in banca, pubblicato sui Quaderni del "Verri". A questo fanno seguito L'arte della fuga (1968), e dieci anni più tardi Il giocatore invisibile (Premio selezione Campiello 1978). Nel 1983 (frutto di una lunga elaborazione) esce Il raggio d'ombra, un romanzo che conferma la forza narrativa di Pontiggia nella fedeltà ai canoni tradizionali, uniti in questo caso ad una indagine sullo statuto del personaggio all'interno del testo narrativo. Più recentemente sono state pubblicate due opere interessanti soprattutto per la loro organizzazione a struttura 'in serie': La grande sera (1989, Premio Strega) e Vite di uomini non illustri (1993), serie di racconti. L'opera è organizzata come una serie di biografie di gente comune, redatte nello stile del referto poliziesco e proposte con la stessa tipologia con cui si scrivono le biografie illustri. Assai originale la soluzione stilistica, che riprende in forme allusive i vari linguaggi con i quali i personaggi hanno vissuto le loro vicende, unendoli a una felice riproduzione dei linguaggi d'epoca, con le loro diverse inflessioni.

Giuseppe Pontiggia
 

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