Giovanni Pacchiano

Tordy (1996)
E arrivata la nuova preside, già dal primo di settembre, e la prof è categorica. «Non la voglio quella lì; la dovresti vedere! è la copia conforme della Tordella!». La Tordella del «Corriere dei piccoli», moglie di Capitan Cocorico; mamma di Bibì e Bibò. Ma io la Tordella la conosco a memoria: me la sono sorbita per anni nelle «conferenze di servizio», come ire nelle riunioni periodiche cui i provveditori invitano i presidi per parlare di faccende scolastiche. A cadenze variabili, peraltro, dato che ogni provveditore ha i suoi vezzi. C'è chi i presidi non li vuole vedere neanche dipinti; c'è chi invece li convoca a ogni piè sospinto, li conciona, li arringa, li dirige in queste adunanze oceaniche che si tengono in un auditorium scolastico troppo simile a un vecchio hangar svuotato degli aerei, dove tutti, veterani e pivelli, confluiscono in ordine, da città e provincia, per mettersi in mostra, e far bella figura col capo. C'era, tanti anni fa, un provveditore, cicciotto, quattrocchi; galantissimo con le poche presidone non orribili, cui faceva il baciamano. Lui amava da morire le riunioni, e parlava, parlava, e nel mentre si ascoltava parlare; era pazzo di gioia nel sentirsi parlare. Si voleva un bene dell'anima. Arrivava col suo piccolo seguito di funzionari - erano tutti compresi nella parte, di fronte alla plebe dei presidi - poi si piazzavano sul palco come un Politburo russo formato ridotto, e prendevano a parlare. Lui per primo sbrodolava per un'ora, due ore, tre ore infinite concioni; poi pigliava la parola la sua scotta, imbastendo, per fortuna, discorsi più tecnici; non perdevano di vista per un attimo il capo ; agitati, cercando un suo cenno d'assenso. Alla fine era il turno del popolo: ecco i presidi che facevano a botte per riuscire a palare: vai al microfono sul palco, dì il tuo nome e cognome, scuola di provenienza, poi spalanca la bocca. Si sfoggiavano tecniche fra le più differenti; a ognuno la sua: molti erano abbonati alla pura lusinga, sic et simpliciter, senza mezze misure: «Come ha ben detto il nostro signor provveditore, noi dobbiamo attivarci per far sì che in questo momento la contestazione degli studenti sia limitata...»Quanto alla contestazione - reliquia di un tempo trapassato - forse questi studenti chiedevano qualche aula in più o classi meno numerose; non ricordo, ma era tutto irrisorio rispetto al clima di letale piaggeria. Il provveditore dava segni di fastidio di fronte agli eccessi più sfacciati: le blandizie scoperte lo mettevano a disagio. Preferiva l'approccio problematico: di chi, montato, ad esempio, sul palco con aria compunta, e ce n'erano di bravissimi, attaccava: «Il malessere di questo momento, che ci vede tutti uniti a costruire una scuola futura, ci richiama alle nostre responsabilità di dirigenti periferici» eccetera. Quante storie, mi dicevo, meditando sul mio magro stipendio da reietto dello Stato: altro che dirigenza, che non arriverà mai! Il provveditore gongolava, guardava la platea compiaciuto, sentiva i consensi arrivargli come un vento di primavera. Per disgrazia c'era sempre un importuno a interromper l'idillio: «Lei, provveditore (il "signor" veniva ostentatamente tralasciato), ha poc'anzi sostenuto un'accusa gravissima: che da parte dei presidi si registri una disaffezione al lavoro, coincidente col poco o nessun rispetto dell'orario di servizio. Bene, ciò è infedele...» Quel linguaggio dissociato dalla vita, tronfio e meccanico, dei presidi, nelle circostanze ufficiali, e forse oltre; che gli si appiccica addosso a furia di legger circolari, compulsare ordinanze, e preparare, a loro volta, circolari per il corpo docente, in cui viene rimasticata e metabolizzata la retorica di cui la scuola e il paese si nutrono da tutta una vita. Il provveditore non era contento: non sopportava gli attacchi, soprattutto se in pubblico. Tralasciando l'oggettivo riscontro dei fatti: so di presidi che per anni hanno considerato la scuola come un luogo di ritrovo dove poter fare quattro chiacchiere quando capita. Una che andava puntualmente a casa alle dodici e mezzo, tutti i giorni, per buttare gli spaghetti al marito e tanti saluti a tutta la compagnia, salvo poi brutalizzare i suoi prof per un minimo ritardo; un altro che era sempre in Provveditorato (questo era il passaparola ufficiale cui doveva attenersi la segreteria); un altro che. se lo cercavano in sede era in succursale, e viceversa; un altro ancora che il sabato, crollasse anche la scuola, non si taceva mai vedere. Ce n'era, insomma, per tutti i gusti; ma, quanto al nostro amato capataz, mettersi in discussione non era il suo torte; così dava segni di fastidio, interrompeva il tapino, lo metteva in condizione di tornare al suo posto con la coda fra le gambette. La sua specialità, la minaccia velata: era il suo colpo da kappaò, il voler dire e non dire so qualcosa di lei. «A proposito, preside, non ho ancora visto la sua relazione sullo scorso anno scolastico» sibilava, mandando in tilt il poveraccio. Gli occhialoni da miope emettevano una luce sinistra. Sennonché ecco, mentre ancora il popolino mormorava, l'intervento di Tordella. Procedeva con passo di marcia verso il palco, risoluta e smagliante e dimentica del suo culone. Tutta da vedere, Tordella: bionda tinta, massiccia, aggrappata su due tacchi altissimi, puro stile Frau Marlene, una perenne generosa minigonna che le fascia i fianconi robusti, e questi capelli lunghi e sciolti e un pò tanto sporchetti (fanno il paio con la puzza di sudore che le sta attaccata come una nuvoletta di smog), che le arrivano più giù della schiena e che a volte raccoglie in un crocchione, Tordellona era sempre elettivamente vocata a parlare in coda all'intervento più trucido, quello che lasciava imbarazzo nella folla. Tutti allora a aspettarsi che Tordella proseguisse difendendo, attaccando, prendendo posizione comunque; ma Tordella, per chi come me la conosce benissimo, è la regina indiscussa dell'intervento casuale, dell'equivoco, del malinteso. No, Tordella non ha il senso del tempo, non coltiva la tattica del vocabolo giusto al posto giusto: lei, quando le frulla, si butta, prescindendo da un prima e da un dopo. Come se lavorasse un implicito discorso mentale nel suo cervelluzzo, una macchina col tasto dell'economizzatore perennemente schiacciato sulla luce verdognola: funzionare, funziona, ma piano.
Ecco allora Tordella prossimarsi al palcoscenico, abbrancare il microfono con la mano da capomastro, iniziare, lo sguardo rivolto verso il nulla: «Nel nostro Istituto, che, come lei sa, provveditore, è fra quelli che funzionano (risatine dal pubblico), abbiamo attivato quest'anno due nuove sperimentazioni.» E universalmente risaputo che Tordy, così affettuosamente chiamata - se non si può eliminare la sua massa è ragionevole almeno limare il suo nome -, Tordy, dunque, ha il chiodo fisso delle sperimentazioni. Dovunque la mandi, e lei sperimenta, innova, trasforma, o si illude di farlo, sacrificando tutto il resto. I conti non tornano? Poco male, tanto c'è la sperimentazione che cresce. Manca un giorno al termine ultimo per l'invio dei modelli INPS, altrimenti giù multe? Bene, non saranno quattro moduli a crearci dei problemi. I tre preventivi necessari per organizzare le gite? Ma sì, in qualche modo faremo. Il bilancio da preparare? In questo momento non ho tempo, ho il comitato (di quale comitato si tratti, Dio solo lo sa). Con queste sue esperienze sperimentali, che convergono attorno a comitati, commissioni, gruppi ristretti e gruppi allargati, con o senza genitori e studenti, Tordy ha sempre ammorbato gli astanti con dovizia di particolari. Ma, nel grande bazar dell'auditorio, uno solo doveva essere il protagonista. «Qual è il punto, cara preside? Venga al sodo» si affrettava a interromperla bruscamente il cicciotto, dopo pochi minuti dall'inizio dello sproloquio. «Mah» proferiva Tordella, «gradirei informare i colleghi sul funzionamento del mio Istituto, prima di analizzare in dettaglio (nooh!, da più parti) i problemi che danneggiano la didattica, e che cerchiamo di risolvere nonostante la scarsa collaborazione degli uffici del Provveditorato.» Tordy non ha mai coltivato - ho già detto - il senso dell'opportunità; nulla aveva sicuramente ascoltato dell'intervento di prima: a una critica, che nemmeno pensava potesse essere una critica, lei, nel suo iperuranio di confuse riflessioni didattiche, arrivava troppo tardi solo per una sua economia interiore manichea di discorso: prima occorre enunciare e descrivere, poi ne consegue che, se siamo noi a esser buoni, gli altri debbano essere in qualche modo cattivi, e questo va dichiarato coram populo. Tortuosamente ineccepibile, stabile come le sue gambotte paffute ma leggermente divergenti. Per questo Tordy replicava, piuttosto freddina: «Mi lasci finire, signor provveditore» (con lei, ce n'è davvero per tutti; potenti o umili che siano, Tordella non fa distinzione), con la sua vocetta puntuta; e cercava di continuare l'elenco di bellezze e virtù prima di passare al catalogo dei vizi degli altri. Ma il cicciotto occhialuto non aveva una mezza misura: «Cara preside, non abbiamo il minimo tempo per queste cosucce; si accomodi» (dietro il perenne sorriso coatto si intravedeva la grinta e il disprezzo); e la obbligava a levare il disturbo. Tordy allora scrollava impercettibilmente la testa, come se un altrettanto impercettibile fastidio l'avesse sfiorata, un tafano, una zanzara può darsi, e ondeggiando sull'ingombrante sederone ripercorreva la sala. «Anche oggi ha fatto il suo numero» mi alitava all'orecchio Vincenzo Bufalino, seduto vicino al mio posto, in pura cadenza siciliana. Tutti e due tenevamo il giornale sulle ginocchia, lui il «Corriere», io la «Repubblica», poi ce li scambiavamo. Ogni tanto alzavamo la testa. Io sedevo di preferenza verso metà della sala (quelli in fondo sono sempre troppo scrutati dal palco), di lato, e cercavo di mettermi dietro qualche obeso o qualche spalluto. Bufalino continuava a parlottare. Rimanevo impassibile: era troppa la paura che il mio capo mi puntasse coi suoi fari da miope. Proprio come al Liceo; maledetta scuola che tenta di entrare a ogni costo, da ogni fessura, come le formiche che ostinate, senza farsi notare, s'intrufolano dal terrazzo della cucina di Irma la dolce, per farsi distruggere a colpi di borotalco e di tacchi di scarpa. Tutto per un poco di cibo.
Anche Tordy, la formicona, oggi si mette d'impegno per rientrare nella mia vita, coi resoconti della prof che ne fa una malattia. Passa infatti qualche mese, e so tutto di Tordella; più di quanto sapessi e capissi alle tristi conferenze di servizio. Tordy che convoca il collegio docenti e, sbadatamente ma implacabilmente, come chi riesce a spennare un oca senza farla strillare, fa a pezzi l'operato del suo predecessore: «Un meticoloso burocrate, che pensava solo ai conti, e alle norme, diligente, intendiamoci, ma, signori miei, è un'altra cosa la scuola!» E fa una smorfietta. Tordy che compie un balzo sulla sedia, stralunata come un affamato davanti a una mensa riccamente imbandita, davanti alla grande disponibilità di cassa dell'istituto («ll nostro preside di prima risparmiava su tutto» mi spiega la prof, «la carta, le fotocopie. Adesso questa scialacqua come fossero soldi suoi e non dello Stato»). Tordy che tratta la segretaria a calcioni sui denti. «La circolare? preparatela voi. Non tocca a me farvi trovare la pappa fatta!» «il cartellino, il cartellino, ricordatevi il cartellino e cercate di non fare i furbetti!»; ma lei un cartellino, o uno straccio di foglio firma, non si sogna nemmeno di Bella forza: Tordy ha risolto il problema della puntualità sul posto di lavoro e dell'esempio dall'alto: ignora entrambe le cose e ritarda alla grande. «Sapete, abito così lontano e alla mattina c'è tanto traffico.» O, ogni volta, si procura una giustificazione diversa, come i bambini che si sentono in torto: «Ero in Sovrintendenza... Ero in Comune per motivi di servizio...» «Ero alla Ragioneria Provinciale.» Un giorno, per distrazione, finirà col dichiarare: «Ero a casa per motivi di servizio» e tutti a dire sì con la testa. C'è ancora, nelle scuole, un certo timore reverenziale nei confronti del preside, soprattutto se è una donna e se risulta un pò isterica. «No, non posso chiederglielo: non sopporto le urlate» mi dice la prof quando le suggerisco, se ha un problema, di parlarne con Tordy. «Quella strilla sempre; anzi, pigola a squarciagola, con quella vocetta che mi spacca in due i timpani. E a me vengono le palpitazioni.» La prof non ha un cuor di leone, ma registra implacabile tutto, come Kali la dea della vendetta. Poi le passa, ma ogni tanto ripiglia: «La sai l'ultima? da qualche tempo ha aumentato i ritardi, come se si fosse detta: perché affannarsi sui cinque minuti quando posso far le cose alla grande? Aveva cominciato con le dieci e mezza, poi con le undici; adesso arriva a mezzogiorno, mezzogiorno e mezzo. Mica male per una che regge una scuola.» Ma la prof è decisa a non mollare: «Pensa che dalle Otto alle dodici siamo abbandonati a noi stessi: scuola, alunni, insegnanti. Potrebbe succedere di tutto. Magari telefonano che hanno messo una bomba.» Quando la prof è catastrofica, non la ferma nessuno. «Se telefonano occhio alla bomba, ve ne andate tutti a casa ; vuoi vedere che bello?» «Sai, non è mica facile» obietta la prof, «noi, da soli, non possiamo decidere, se non c'è il benestare di Tordy. Chi si prende la responsabilità di sgombrare la scuola?» «Ti va bene se me la prendo io? Non ti sembro un tipino affidabile?» Ma la prof oggi non è disposta allo scherzo. «Spiritoso. Molto spiritoso. Perché è comodo sfottere quando si è ormai fuori causa. Sai che l'altro, alle Otto, era lì impalato sul portone a controllare chi entrava. Un'angoscia, ma lui almeno c'era. Questa, non solo arriva quando arriva, ma si chiude in ufficio a organizzare comitati, incontri, riunioni. Tutto di pomeriggio, naturalmente. Le lezioni didattiche non sa neanche che esistano.» La mia prof è fantastica: una fanciullina doc verace del Collegio, lei che pensa alla scuola come usava una volta: una grande famiglia dove tutti facciano il loro dovere, si scambino inchini e sorrisi, studiosi e amabili i ragazzi, disponibili e preparati i colleghi. C'è posto anche per il preside, premuroso e paterno, in questa specie di presepio ambulante, dove la buona ora di lezione cattedratica occupa il posto centrale, senza farsi soffocare da tutto ciò che è contorno. Lei a queste cose ci tiene. Un anno, persino, c'è rimasta malissimo perché, l'ultimo giorno, la quinta se n'è andata senza nemmeno salutare i suoi prof. «Nessuno mi ha mai trattata così; davvero nessuno» sospirava. Salvo poi sciogliersi quando, il giorno dopo, agli scrutini, le han fatto trovare in sala professori una rosa. I ragazzi.