Preambolo

D. esamina il suo passato, rivede la galleria dei suoi colleghi attraverso le sue appassionate letture e dove D. scopre di avere alcune qualità peculiari. 

Il giorno della faticata e temuta quiescenza

Gli sembrava di stare con un piede su una buccia di banana e l'altro sulla tomba.

Stava chiuso nel suo bunker di venti metri quadrati. I muri foderati di libri, i “suoi” libri. Quel territorio era stato difeso impavidamente contro gli attacchi della famiglia (“lì ci starebbe un bel tinello… ”), delle figlie e del nipote (“Che ne fai di tanta carta? …”). Chiuso in quel bunker meditava sulla sorte dei suoi colleghi appena pensionati. Il giorno della faticata e temuta quiescenza, dopo aver assaporato fin l'ultimo minuto di lavoro, taluni erano stati ghermiti da innominabili e impietosi morbi… Di scuola erano vissuti con la scuola erano trapassati. Presidi erano nati e come presidi erano rimpianti.

Il signor D. non faceva parte di questa specie, anche se gli mancavano pochi giorni al distacco. Avvertiva, proprio mentre firmava la domanda di dimissioni, un opaco malessere al ventre, come un improvviso decadimento (ricordava “… alle volte Ivan Il'ic diceva di avere uno strano sapore in bocca, e qualcosa di fastidioso nella parte sinistra del ventre ”. Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic, 1860). No, si consolava, quello stato era sicuramente frutto di suggestione. Erano anni che non faceva quel mestiere. Ugualmente tutti continuavano a chiamarlo preside perfino nell'era vanitosa dei “Dirigenti”.

Aveva smesso nel 1999, per andarsene al Ministero, ignaro della sapienza poolare: “Se ti piacciono tanto le salsicce, evita di visitarne la fabbrica”.

Ma ora si trovava lì, nel suo fortino a pochi giorni da una scandenza a qualche amico tanto fatale. Pochi, si rincuorava.

Ripassava mentalmente la vita e soprattutto i miracoli dei suoi più famosi colleghi di ogni parte del mondo.

Erano le sue letture preferite. Rivedeva l'autobiografia intellettuale e morale della sua amica Fiorentini (“Si rimane soli…”) e i lamenti del collega De Magistris. Rammentava le pagine di Georgiacodis, “umile servitore dello Stato” in epoche di confusione sessantottarda, la disperazione di Pacchiano, il pessimismo di Scialfa, i buoni consigli di Bueb, successore del grande Han preside del collegio di Salem. La triste solitudine di Dino Porvenzal, la severa diligenza di Hegel. Memorabili i suoi discorsi ai genitori quando dirigeva il Liceo di Norimberga. E le sue lettere – a lui così famigliari - al Provveditore “… due gabinetti mi servirebbero di più. Ogni volta che iscrivo nuovi allievi, devo domandare pure ai genitori se i loro figli possano fare a meno dei loro bisogni. Questa è una nuova parte dell'insegnamento pubblico, la cui importanza adesso ho imparato a conoscere, cioè la sua parte posteriore”(1809).

E ancora la prediletta Gentzbittel (aveva fatto tradurre da un amico la sua biografia professionale) che assomigliava alla figura della preside “risorgimentale” descritta da Lalla Romano: … la nostra Preside è stata ai nostri occhi un personaggio non solo in certi momenti, in certi atteggiamenti, ma ha dato un accento personale alla esplicazione quotidiana dei suoi doveri, al suo zelo che non ha mai conosciuto riposo, e non è stato mai abitudinario, conformistico, ma sempre appassionato, estroso, imprevisto”.

Scorreva con gli occhi la costa dei libri multicolori ben allineati sugli scaffali o ammucchiati sul pavimento, e incespicava su altri pensieri e altri propositi.

Rifletteva sul fatto che più delle autobiografie dei colleghi (o i manuali di management) l'aveva formato la lettura di tanti autori grandi e gradissimi o appena in grado di scrivere, che avevano fatto l'esperienza di studenti o di insegnanti. Tutti avevano lasciato qualche riga, poche pagine, brevi o lunghi racconti, interi romanzi per rivelare i segreti del loro mondo scolastico. In questo universo infantile, adolescenziale e adulto campeggiava sempre il Capo con relativo soprannome, Sancho Panza.

Questa galleria di ritratti, di circostanze e di sensazioni l'avevano formato profondamente.

Amava questo mondo immaginario, eppure così vicino alla sua esperienza quotidiana. Questa galleria di ritratti, di circostanze e di sensazioni l'avevano formato profondamente. Ricordava Gadda (“Il suo vocione tuonava, si studiava di riuscire temibile”), o Memmi (“I suoi ordini erano comandamenti astratti, impersonali, trasmessi mediante un segno, come quelli della divinità”), o De Luca (“Salì il preside figura funesta che si mostrava solo in casi rarissimi, nell'apnea totale dei presenti dichiarò che esigeva i colpevoli altrimenti avrebbe sospeso l'intera classe compresi gli assenti di quel giorno”), o Linsday (“Se la direttrice avesse qualche precedente esperienza in campo pedagogico, non si seppe mai. Non era necessario”), o Sherfig (“Il preside raramente è a scuola. Ha importantissimi impegni pubblici di cui occuparsi, ma la sua bottiglia di porto è sempre nell'armadio”), o Churchill (sì, Winston): ”Churchill, ho dei gravi motivi per essere scontento di lei. Winston ribattè all'istante: ‘E io, Signore, ho dei gravi motivi per essere scontento di lei'.

Tutti gli erano serviti per il suo lavoro, soprattutto i grandi: Checov, Dickens, Kafka, O'Connor, Sklovskij, Toller, i due Mann, Joyce, Hesse, Kipling, Walser (Robert) e il suo Istituto Banjamenta dove non si imparava nulla (in “Jacob von Gunten”), de Amicis, Dhal, Dossi, Bronte, Butler con la sua implorazione ai presidi, Sthendal, Mastronardi, Maugham, Orwell, Stuparich, … e infine la Ratio atque institutio studiorum Societatis Jesu (1599) e i Monumenta paedagogica, che da quattro secoli governano con le loro regole tra il buon senso e il dispotismo la scuola secondaria dell'Occidente. Ma c'erano anche i film di scuola, che D. teneva in soggiorno per stupire colleghi ed amici (“Ma li hai visti tutti…?), e che completavano – gli pareva - splendidamente il suo curricolo.

Con quelle letture aveva scoperto le sue qualità vitali di uomo e di preside.

L'insaziabile curiosità per quello che succedeva nel suo mondo fatto di adulti che passavano la vita coi ragazzi (e spesso non si distinguevano gli uni dagli altri). Era una qualità che lo chiamava a cercare continuamente com'era fatto quel piccolo universo così eccentrico e complicato. Era un invito a “giocare” con una realtà avvincente e multiforme. Talora gli appariva impenetrabile. Altre volte lo invitava a trastullarsi in quel gioco piacevole.

Una sua peculiarità: la “distanza”

L'altra peculiarità, quella che D. chiamava la “distanza”, consisteva nella sua innata capacità di vedere la scuola da punti di vista insoliti, talvolta strani. Non era mai entrato in una scuola come un “indigeno”. Niente gli risultava famigliare. Vedeva le cose, gli spazi, il tempo, i comportamenti e i personaggi di quell'arena (ma non solo) come un osservatore esterno, un “forestiero”. L'effetto era di mobilitare le sue possibilità di indagine e la sua volontà di prendere una decisione, ma anche di paralizzarle. I problemi visti da quell'osservatorio gli apparivano spesso irti di difficoltà insormontabili. In quei momenti cadeva senza alcun preavviso in uno stato contemplativo. Un sogno ad occhi aperti. Poteva durare settimane.

L'interesse per l'organizzazione

L'ultima qualità di D. era l'interesse per l'organizzazione. Per lui non c'erano problemi che non avessero una soluzione organizzativa. Non era l'unica, lo sapeva, ma lui capiva internamente e sapeva maneggiare con una certa competenza solo quella. Tanto che dissimulava questa attitudine per non apparire come la caricatura del collega Pembroke in uno dei romazi di Forster: “Ma la sua opera si svolgeva altrove. Lui organizzava. Se non esisteva organizzazione, la creava. Se esisteva, la modificava”.

Il sostanza, il preside D. si districava giornalmente tra il “Che cosa?”, il “Perché?” e il “Che fare?”, attento a non cadere nel miraggio, nella sterile speculazione e nelle facili soluzioni. Sapeva che quel mondo era in gran parte un mistero.

Ma era fatto così, così era nato… o quasi.

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