Aprire le porte in basso e chiudere quelle in alto: la versione italiana dell'eguaglianza

L'intuizione di Romano Prodi all'inizio degli anni Novanta

La delegittimazione di qualsiasi percorso non omogeneo alla “via regia” della licealizzazione è stato l' ostacolo politico all'istituzione di un percorso prestigioso e forte di istruzione tecnica e professionale. Su questo tema l'unico intervento di rilievo è quello di Romano Prodi all'inizio degli anni '90: “… sui politecnici ci giochiamo la battaglia del nostro futuro. Li chiamiamo politecnici e non solamente università, sono le scuole tecniche applicate dopo il diploma di scuola media superiore. In Gran Bretagna oggi vengono frequentati da 550 mila studenti. C'è stato uno sviluppo impressionante: una generazione fa gli iscritti solo 120 mila; nel primo dopoguerra semplicemente none esistevano. Un processo analogo si è assistito in Francia. Come hanno fatto? Hanno deliberatamente copiato le scuole tecniche tedesche. Senza dichiararlo nei programmi di governo, naturalmente, tuttavia hanno capito effettivamente che lì c'era un modello adeguato alla società nuova. (…) occorre chiarire che le scuole tecniche non sono scuole di serie inferiore. Rappresentano scelte alternative che tuttavia coinvolgono, poiché presentano diversi livelli e diverse specializzazioni, l'intera società. Hanno una durata di alcuni semestri, di cui almeno due passati in stage nella realtà del lavoro sul campo. E, si noti bene, i docenti delle materie applicate non sono mai docenti di scuola ma operatori di imprese ” (Prodi, 1993).

La dannosa confusione fra “differenze” (ineliminabili) e “disuguaglianze” (inique)

L'esistenza di percorsi strutturalmente diversi (soprattutto rispetto all'Università), in Italia, è sempre stata denunciata come non democratica, classista e discriminatoria (vedi anche la polemica tra Gaetano Salvemini e Lamberto Borghi nel 1932).

Ma una moderna concezione dell'equità distingue le differenze , ineliminabili in una società pluralistica, dalle di suguaglianze , giudicate inique. In tale concezione vi è il pieno recupero della dimensione della diversità. È vero, gli indirizzi sono spesso segregativi: entrati in uno di questi significa interdirsi la via alternativa e altre possibilità. Ma il rimedio adottato è peggiore del male. La cultura dominante in Italia ha sempre pensato di accrescere le possibilità dei ragazzi meno favoriti di entrare al liceo ritardando la scelta dei percorsi dopo la scuola media. Da qui l'idea e poi la realizzazione – peraltro non solo italiana – di creare un biennio iniziale comune (unico, unitario, integrato), anche se è evidente – alla prova dei fatti – che, da sola, la soppressione dei percorsi diversificati non risolve un bel nulla: gli allievi restano differenti. Il nostro sistema è incapace di gestire le differenze (comprese quelle degli handicappati, degli extracomunitari, dei “geni”). In particolare la scuola media si è dimostrata incapace di far progredire in modo consistente e generalizzato una parte importante degli allievi (Figg. 2,3,4).

Questa incapacità è prima di tutto una incapacità pedagogica di comunicare con gli allievi recalcitranti o troppo deboli, che li porta a un doppio fallimento, infatti: a) la secondaria (a cominciare dalla 1° media) rifiuta questi allievi che non sa come “prendere” e li orienta verso percorsi segreganti; b) questi allievi rifiutano la scuola e la abbandonano nel modo peggiore, come dei falliti.

Fig. 2 - Alunni in ritardo nel percorso di scolarità per 100 iscritti ( valori percentuali ) -
a.s. - 2003/04 Scuola secondaria
Fig. 3. - Indagine campionaria sui risultati degli esami di licenza di scuola media statale -
A.S. 2004/05 (Valori percentuali)

Sembrerebbe una bestemmia, ma bisogna dire: ben venga una scuola, sia pure la formazione professionale, che rifiuta ogni forma di scolarizzazione tradizionalmente intesa. Solo questa “scuola” è in grado di farli “lavorare”, di farli progredire intellettualmente, professionalmente, socialmente e umanamente.

Ovviamente c'è qualcuno che ammette che questa diversificazione è opportuna e anche necessaria, ma nell'accezione di una “scuola ospedale”, cioè per allievi malati, ma anche in questo caso la vorrebbe mischiare con il liceo onnicomprensivo, in modo che questi allievi sentano almeno il “profumo” del pan degli angeli o del latinorum (di questo essenzialmente si tratta).

In realtà queste anime belle, piene buone intenzioni ma con una scarsa etica della responsabilità dei risultati (direbbe Max Weber), non vogliono ammettere che attualmente la secondaria “tradizionale”, quella della cultura generale, sempre più “generale” e meno cultura, non è in grado di essere utile agli allievi che chiedono un percorso più “interessato”, cioè che rifiutano la cultura della gratuità tipica del percorso liceale. L'integrazione provocherebbe (e già ci sono i primi segnali) immancabilmente l'allineamento della pedagogia del fare con quella dominante della parola e del testo, cioè quella del liceo, che ha profonde radice storiche e culturali nella nostra classe dirigente (De Mauro, 1997).

Quello che non si è fatto in questi anni, invece, è stato di salvaguardare gelosamente la sola pedagogia che sia in grado di riparare i danni dell'insuccesso scolastico, che non significa far guarire (licealizzare) i malati, ma restituire loro una stima sufficiente perché possano considerarsi sani.

Quando la secondaria “tradizionale” è impotente con quasi un terzo dei suoi allievi è venuta l'ora di affidarli ad altre pedagogie e ad altri pedagoghi.

Gestire le porte in uscita per evitare percorsi segreganti

L'obiezione è sempre quella: si costruisce un indirizzo segregante. In effetti i ragazzi dei tecnici e dei professionali molto raramente passano al liceo (Fig. 4).

La soluzione della permeabilità dei sistemi va cercata in altro modo, se non si riescono a cambiare i licei, nel percorso di studi. Per evitare che i percorsi diventino divergenti e chiudano gli allievi in ghetti, bisogna gestire bene le porte in uscita e non aprire quelle in entrata, come si è fatto e si continua a fare in Italia.

 

Fig. 4. Indicatori di segregazione nella secondaria
(licei cl. Sc. Istituti tecnici e professionali

Senza questa cambiamento è evidente che non esiste possibilità di un autentico sviluppo “in alto” della istruzione tecnica e professionale.
Inoltre l'apertura verso l'alto serve molto più efficacemente alla democrazia che non le mitologie sul biennio unitario o sul sistema integrato.
Bisogna abituarsi a gestire le diversità piuttosto che ridurre la varietà che, anche in pedagogia, è sinonimo di ricchezza e di libertà.

Non esiste una soluzione ottimale, ma percorsi diversificati, corretti con l'apertura verso l'alto, sono senza dubbio i meno dannosi.

Per uscire da questa impasse, bisognerebbe rendere le pedagogie della secondaria efficaci per tutti gli allievi. Ora, esse possono diventare tali solo al prezzo di una radicale diversificazione. Le distanze tra indirizzi sono tanto più forti quanto sono più deboli sono le pedagogie all'interno di ciascun un indirizzo . Aver tolto, o quasi, l'apprendimento esperienziale ed operativo nell'istruzione tecnica e professionale, ha accentuato la distanza con i licei non l'inverso.

La licealizzazione è un processo che separa non che unifica.

Se vogliamo evitare la costituzione di indirizzi divergenti e segreganti, bisogna diversificare largamente le metodologie, le sedi, gli strumenti dell'insegnamento, anzichè spingere perché siano uniformi o “comuni.

Il principale vizio del nostro sistema scolastico, infatti, è di sottomettere tendenzialmente tutti gli allievi, ad un unico filtro selettivo. Uniformità dei criteri d'età, uniformità delle materie discriminanti e “prestigiose”, che fanno del latino, della filosofia, della matematica o dell'italiano l'unico metro su cui misurare l'intelligenza, uniformità degli esercizi proposti, degli strumenti di valutazione (temi, interrogazioni, ecc.).

Questa uniformità è disastrosa e produce prima di tutto monotonia e noia.

Viviamo in una società dove l'interesse è continuamente sollecitato, ma la scuola ignora tale dimensione, come dimostra il sospetto per tutte le attività “non obbligatorie” e opzionali, che non siano chieste con forza dalle classi medie, come l'inglese e l'insegnamento dello strumento musicale alle medie, che fa parte del curricolo da “tinello” della nostra buona borghesia.

In secondo luogo, l'uniformità è uno dei principali fattori dell'insuccesso. Poiché tutti gli allievi non imparano alla stessa maniera, proporre loro un solo modo di apprendere significa predisporne una parte all'insuccesso inevitabile. Eppure sappiamo quanto sia uniforme la pedagogia praticata dai nostri insegnanti, dalla prima elementare in poi (Schizzerotto, Barone, 2006).

Non esiste un solo modo di insegnare, un one best way è assurdo nella scuola come in qualsiasi altra organizzazione. Non occorre essere faziosi e settari. Tutte le pedagogie sono legittime; ciascuna ha la sua logica, il suo significato, la sua efficacia. A condizione di utilizzarle in situazioni appropriate, nel rispetto della loro logica e conoscendone i limiti di validità: la scelta tra esse dipende dagli allievi, dalle classi, dalle discipline ed anche dai momenti.

La diversificazione delle pedagogie e dei percorso è dunque una fattore di democratizzazione.

L'alta formazione tecnica e professionale non può nascere (come dimostra il fallimento degli IFTS, dice la legge, “Non in continuità con la scuola secondaria superiore”) se non ha radici nella scuola secondaria superiore cioè in un percorso legittimo, diverso e con propria identità, rispetto a quello liceale, con la definizione della propria “eccellenza”.


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