La riforma Berlinguer-Moratti
di Paolo Ferratini
Nel suo programma elettorale Berlusconi l’aveva detto: non appena arrivati al governo del Paese, cancelleremo con un colpo di penna la riforma della scuola varata dal centrosinistra. E così è stato. Sentita (ma poco ascoltata) la commissione Bertagna, il governo ha portato in
Parlamento la nuova riforma. Ma è davvero così radicalmente diversa da quella precedente?
Lungo il quinquennio che va dalla presentazione del progetto berlingueriano di riordino dei cicli (gennaio 1997) all’approvazione in Consiglio dei ministri della legge di delega al governo sullo stesso argomento presentata a gennaio dal ministro Moratti, centrodestra e centrosinistra hanno combattuto sulla scuola una
battaglia senza tregua, tanto da far ritenere che su un tema così cruciale qual è la formazione e l’educazione delle nuove generazioni – ma anche, con estensione decisiva per le politiche del lavoro, il lifelong learning – vi siano «visioni del mondo» irriducibili, pedagogie incompatibili, concezioni e strategie dello sviluppo specularmente opposte. Dalla disfida sulla scuola privata alla polemica sui libri di testo, dallo scontro fra seguaci della scuola-azienda e difensori del sapere
disinteressato alla diatriba fra sostenitori della professionalizzazione dei licei e propugnatori della licealizzazione degli istituti tecnici, giù fino alle accuse reciproche e simmetriche di laicismo e confessionalismo, localismo e nazionalismo, conservatorismo e (post)modernismo, misoneismo e nuovismo, sembra davvero impossibile comporre non dico un’agenda condivisa, ma una cornice unitaria di valori entro cui confrontarsi – e magari anche scontrarsi – a partire da un linguaggio comune.
La polémique d’abord
Qualche ragione di perplessità dinanzi a tanto sferragliare d’armi si affaccia non appena l’osservatore getti lo sguardo su altri Paesi europei investiti, negli ultimi vent’anni, da analoghi processi riformatori. Come è già stato autorevolmente messo in rilievo sulle pagine di questa stessa rivista (1)
, ciò che ha caratterizzato il passaggio di maggioranza rispetto alle politiche scolastiche in Svezia, in Inghilterra, in Spagna è stata infatti assai meno la diversità che la continuità di indirizzi. Terreno di confronto sottratto alla disputa sui principi, le politiche educative sono state affrontate in quei Paesi agganciando le scelte di strategia a quadri interpretativi delineati da fatti concreti e dati duri (percentuale di alfabetizzati, confronti internazionali sulle performance di apprendimento, qualità
dell’edilizia scolastica, diffusione delle nuove tecnologie, ecc.) – dunque poco agibili alla polemica politica e meno ancora allo scontro ideologico.
Il dibattito italiano sembra invece condannato ad alimentarsi di contese che spesso vertono sul quasi-nulla. Si pensi alla sproporzione fra l’accanimento e l’impegno profusi sulla questione della parità scolastica e la sostanziale irrilevanza statistica del tema, anche e proprio per quanto riguarda la scuola superiore, segmento nel quale e
rispetto al quale maggiormente si alimenta il conflitto (gli istituti non statali coprono appena il 6,5% dell’offerta); o a quanto sia stato agitato da dieci anni in qua lo spettro della privatizzazione, parola totem di tante occupazioni e cortei studenteschi, fatta propria spesso anche dalle proteste dei sindacati di base, come se fossimo in presenza di un mercato pronto ad investire nel settore della formazione per fare business in ciò impedito solo da una
legislazione che glielo vieta – cosa che palesemente non è; o ancora si prenda la discussione sull’estensione dell’obbligo fra guelfi bianchi, sostenitori della scuola, e guelfi neri, sostenitori della formazione professionale. È come se i problemi veri, che pure si intravedono dietro le questioni malposte, invece di essere formulati correttamente venissero accantonati per far luogo alle loro controfigure. E allora i temi da affrontare non saranno la difesa della scuola pubblica (o la promozione della scuola «libera»), la tutela
contro le intromissioni del mercato (o la rincorsa di modelli consumeristici), l’epicedio per la cultura disinteressata (o il peana per quella applicata), ma rispettivamente come si costruisce un sistema scolastico efficace e plurale, come si incrementa la razionalità, l’efficienza e l’autonomia nell’impiego delle risorse, come si articola un’offerta che permetta di scegliere percorsi scolastici e di formazione professionale di pari valore educativo, dignità culturale, prestigio sociale. Questioni complesse e di soluzione
difficilissima, ma reali e imposte dai fatti all’agenda della politica, se si vuole davvero parlare di scuola e non d’altro.
D’altronde non bisogna lasciarsi impressionare troppo dalle schermaglie di facciata che la politica del giorno per giorno mette in scena, a patto che queste non finiscano, come ultimamente sembra, per condizionare realmente lo spazio della decisione, inchiodandolo alla fatuità della propaganda anziché alla serietà di una proposta coerente. È il
rischio che, come vedremo, stanno correndo tanto la maggioranza quanto l’opposizione: entrambe, infatti, pur di esaltare ciò che le divide e in tal modo rafforzare il convincimento del proprio elettorato, tendono a radicalizzare le loro opzioni e non si fanno scrupolo di rinfacciare all’avversario quanto sostenuto da loro stesse anche di recente, in fasi meno tese. Di là dalle ragioni polemiche, non si può non notare invece che vi sono molti più segnali di continuità tra il progetto di Berlinguer e l’approccio della Moratti di quanto
a prima vista non possa sembrare e, senza dubbio, di quanto i due interessati mai sarebbero disposti ad ammettere; al punto che, spostandoci idealmente verso un punto di osservazione più distanziato nel tempo, si potrebbe forse parlare del quinquennio 1997-2002 – e presumibilmente degli anni a venire – come di un’unica stagione riformatrice, analogamente a quanto è avvenuto in buona parte d’Europa negli ultimi due decenni. Non sarà che, gratta gratta, siamo anche noi un Paese normale?
Tracce di continuità
Se si leggono senza preconcetti gli interventi, le interviste e soprattutto le dichiarazioni programmatiche rese dalla Moratti nelle commissioni parlamentari competenti, è possibile riscontrare un grado di compatibilità e in qualche caso anche di affinità notevole con l’impostazione che a suo tempo Berlinguer aveva dato della
questione scuola, sia sul piano dell’individuazione dei problemi, sia su quello, almeno in parte, delle soluzioni prospettate.
L’indice puntato sul numero alto dei dropouts e sulle prestazioni comparativamente poco incoraggianti dei nostri giovani negli ultimi confronti internazionali, alla Moratti che parla in Senato a metà luglio è chiarissimo che il sistema formativo deve superare un doppio handicap, quantitativo e qualitativo,
e che la strada da percorrere è quella di differenziare l’offerta, potenziando il canale della formazione professionale. Così come è chiaro che l’autonomia scolastica, introdotta da Bassanini-Berlinguer, è un bene da sviluppare e su cui puntare e che l’avvio di un sistema di valutazione nazionale è una condizione decisiva per fare crescere la qualità del sistema. E ancora. Colpisce nel documento di programma la totale mancanza delle più note parole d’ordine elettorali del centrodestra sulla scuola. Non solo non vi è traccia
della «maturità» regionale e di altre amenità di matrice leghista, ma invano si cercherebbero accenni espliciti al buono scuola, toni liquidatori nei confronti della riforma dei cicli, affermazioni tranchants sull’espletamento dell’obbligo nella formazione professionale. Non che manchino i temi della parità, della modifica della riforma degli ordinamenti e del rapporto tra istruzione e formazione: ma la cornice politica all’interno della quale essi sono declinati è piuttosto quella di un
sostanziale continuismo riformatore, caratterizzato naturalmente da propositi correttivi anche di rilievo, che non quella di un ribaltamento a centottanta gradi.
Del resto, allargando il discorso ai riferimenti concettuali generali cui le due intenzioni riformatrici si ispirano, sia Berlinguer che la Moratti – e con loro le opzioni politico-culturali che rappresentano – muovono dalla stessa analisi del modello di sviluppo, in base alla quale le prospettive di crescita sono proporzionali al valore aggiunto
di un capitale umano dotato di competenze sofisticate e soprattutto duttile nell’apprendere. Mi pare insomma si possa dire che la «società della conoscenza», intesa come risposta non regressiva alla sfida di un’economia sempre più globale e sempre più fondata sull’innovazione e sull’informazione, costituisca alla fine un orizzonte largamente condiviso. Ne discendono scelte di fondo in qualche modo obbligate, dalla valorizzazione della cultura tecnica alla diffusione dei nuovi media, dalla centralità dell’inglese come lingua passe-partout, al riconoscimento del valore strategico della formazione permanente, alla necessità di ripensare il rapporto tra apprendimento ed esperienza professionale. Ad occuparsi seriamente dell’insegnamento delle lingue, a stanziare risorse considerevoli su progetti pluriennali di educazione informatica, a porre con forza il tema dell’integrazione scuola-formazione professionale-mondo delle imprese furono per primi i governi
dell’Ulivo; e, viene da osservare, le famigerate «tre I» di Berlusconi (inglese, internet, impresa), oggetto recente di irrisione da parte del centrosinistra, avrebbero bene potuto essere uno slogan di quella stagione.
Se a dispetto di una base di condivisione così ampia, gli schieramenti politici seguitano a fare della scuola un luogo deputato allo scontro, un motivo ci sarà. Anzi due. Da una parte si avverte come ancora politicamente redditizia l’impostazione ideologica del confronto. Il riscatto della scuola privata dai cinquant’anni di penalizzazione cui
l’ha costretta il terzo comma dell’art. 33 della Costituzione è una vera e propria bandiera, alla cui ombra viene combattuta niente meno che «una battaglia di libertà»; così come, nel campo di Agramante, sventola invece il vessillo della scuola statale, arra di pluralismo e pegno di laicità. Va da sé che, quando entrano in campo i Valori, c’è poco da scherzare; e pochissimo su cui mediare e trovare intese. Basta che il clima generale non sia eccellente – ed è pessimo – e fra i due poli le posizioni si radicalizzano e
buonanotte al dialogo. L’altro motivo è ancora più immediatamente politico, nel senso che origina dalla ricerca del consenso – o dovrei forse meglio dire: dalla paura di perderlo.
Tutti ricorderanno come e perché è caduto Berlinguer. Fu la sua maggioranza, il suo stesso partito, nelle ore di sbandamento a ridosso della sconfitta elettorale delle regionali del 2000, a decretarne la decapitazione, imputandogli di avere, con il «concorsone», alienato al centrosinistra i consensi degli insegnanti. A parte il fatto che più
accurate analisi del voto mostrarono di lì a poco l’inconsistenza della motivazione, è significativo osservare che, dinanzi al tentativo di articolare concretamente il ruolo della docenza in un percorso di carriera, differenziando funzioni e stipendi, e alle resistenze che esso inevitabilmente incontrò, la maggioranza non sia stata in grado di tenere il punto. Per parte sua l’opposizione cavalcava il dissenso, senza curarsi di avanzare proposte attuative diverse e migliori.
Un dibattito regressivo
Situazione analoga, a ruoli rovesciati, si sta producendo adesso sia riguardo ad alcuni provvedimenti legati alla spesa contenuti in Finanziaria, sia sul fronte della riforma dei cicli.
La questione delle risorse. Per capire bene la partita in gioco con l’articolo 22 della finanziaria (Disposizioni in materia di
organizzazione scolastica), occorre fare una premessa storica. Quando nel 1996 si insediò il governo Prodi, benché già dal 1993 ogni legge finanziaria avesse tentato misure di razionalizzazione della spesa, giocando soprattutto sulla riduzione del numero delle classi (i famigerati decreti «tagliaclassi»!), la situazione del bilancio per l’istruzione presentava aspetti paradossali. Nonostante negli ultimi anni le classi fossero effettivamente diminuite, nonostante il calo demografico ingente, nell’ultimo quindicennio gli organici
erano rimasti quasi invariati: a fronte di una perdita di quasi due milioni di studenti (9.764.319 nel 1980-81, 7.798.742 nel 1995-96, con una variazione percentuale del 20%) gli organici dei docenti erano calati appena del 3% (da 792.929 a 769.316). Il surplus di docenti, che realizzava un rapporto insegnante/alunni decisamente più alto della media europea, finiva per produrre due effetti nefasti: da un lato bloccava la spesa corrente su percentuali altissime rispetto alla spesa totale (oltre il 96% (2)
), lasciando le briciole per gli investimenti; dall’altro, comportando uno standard di 200.000 insegnanti in più rispetto alla media Ocse, impediva politiche di miglioramento e di incentivazione stipendiale serie, per ovvia penuria di risorse. Dinanzi a questo quadro, la finanziaria varata dal governo Prodi nel 1997 fissava un obiettivo triennale di riduzione del 3% del personale della scuola. Al termine del periodo stabilito, il decremento si fermava tuttavia ad un disperante 0,3%. Il Tesoro a quel punto incaricava una
commissione di esperti di studiare ragioni del flop e possibili, praticabili rimedi. Nel suo referto, la commissione, fatti salvi tutti i motivi collaterali e di congiuntura, indicava la causa vera dell’insuccesso nel modo in cui gli insegnanti sono utilizzati nella scuola. Si può star certi, diceva in sostanza il rapporto, che non si raggiungerà duratura efficienza di spesa, sin quando non si spezzerà la rigidità dei parametri organizzativi cui sono vincolate le scuole nell’impiego delle
risorse umane. La commissione, insediata da Bassanini, consegnava il suo rapporto nel marzo 2001, due mesi prima del cambio di maggioranza. Non è illecito supporre che, se a vincere le elezioni fosse stato il centrosinistra, il ministro dell’Economia avrebbe proposto nella finanziaria dell’anno dopo misure capaci di correggere la stortura individuata dagli esperti, generatrice di tanto spreco.
A prendere sul serio quell’analisi, commissionata dal governo precedente, deve essere stato il governo ora in carica, se è vero che le disposizioni inserite in finanziaria sembrano andare in gran parte in quella direzione. Proprio per questo si stenta a capire, se non in termini tutti politici e che poco hanno che fare con il contenuto delle
proposte, il fuoco di sbarramento dell’opposizione. Ciò detto, i provvedimenti assunti in finanziaria sono poi tutt’altro che inattaccabili e prestano il fianco a non poche controdeduzioni e critiche di merito.
L’art. 22 della legge introduce correttivi ad alcune ingessature nella formazione e gestione degli organici di istituto, a partire dall’idea stessa di «cattedra», concetto che sembra scomparire, sostituito dal più anodino «posto di lavoro». Non è solo nominale il cambiamento; con esso viene infatti meno anche la fissità quasi totemica delle
«18 ore». In altre parole, «nel rispetto dell’orario di lavoro definito dai contratti di lavoro vigenti» (ma in verità si discute se davvero non si intacchi la materia contrattuale), i dirigenti potranno, con il consenso degli insegnanti, estendere l’orario fino a 24 ore per esigenze di servizio, legate o all’arricchimento dell’offerta formativa o alle sostituzioni in caso di assenza di colleghi; queste ultime, fino a 15 giorni consecutivi, potranno essere effettuate con personale interno alla scuola, senza ricorrere quindi a
supplenze esterne. Le economie di risorse realizzate in tal modo arricchiranno il fondo di istituto. La soluzione per la prima volta premia le scuole capaci di dare risposte organizzative efficienti e ha quindi il merito di incentivare comportamenti virtuosi. Manca tuttavia – ed è ciò a destare preoccupazione – un meccanismo in grado di valutare che le soluzioni adottate siano non solo economiche, ma anche didatticamente plausibili. In concreto, non è gravoso per un istituto garantire la copertura di un’assenza di due settimane con una
girandola di sostituzioni interne; ma si tratterà, per gli alunni, di ore gettate al vento, a meno che il loro contenuto formativo non sia stato programmato prima e che la scuola non si sia attrezzata con un progetto ad hoc. Sbagliano quindi i «nonsipuotisti» a oltranza, quando sostengono che la misura prevista per ridurre il ricorso alle supplenze esterne – per cui lo Stato spende ogni anno un miliardo e ottocento milioni di euro – va necessariamente a detrimento della qualità
dell’insegnamento; ma sbaglierebbe anche un’amministrazione che, una volta lasciata alle scuole facoltà di organizzarsi, non si preoccupasse di incentivare e valutare le soluzioni che realmente rendono compatibili efficienza di spesa e efficacia didattica. Nessuna indicazione è venuta in tal senso dal ministro, a controbattere le riserve avanzate sulla scarsa attenzione alla qualità che, secondo l’opposizione, si scorgerebbe dietro questa disposizione: e il silenzio, in questo caso almeno, ravviva la preoccupazione.
Mentre sacrosanta appare infine la disposizione per cui gli insegnanti elementari abilitati all’insegnamento dell’inglese presenti in organico debbano essere utilizzati a tale scopo, senza che la scuola, pur avendo questa risorsa al proprio interno, sia costretta ad approvvigionarsi al di fuori, lascia invece più che perplessi la nuova
commissione di maturità, interamente composta di insegnanti interni. Una mossa che, con un ristoro relativo di spesa (meno di mezzo miliardo di euro), compromette gravemente la credibilità dell’esame conclusivo del percorso scolastico, appena riformato e riportato, pur con molti difetti, alla soglia della decenza. La commissione esterna era infatti l’unico momento vero di eterovalutazione di tutta la scuola, che comportava, pur nei limiti di un giudizio formulato sempre all’interno dell’istituzione – una specie di autovalutazione
incrociata – una «resa dei conti» non solo per i ragazzi, ma anche per i loro professori. In un sistema privo di verifiche sulla qualità del lavoro docente come è il nostro, averla depennata rischia di dimostrarsi, alla lunga, un gesto insipiente.
Materia per fare un’opposizione severa sui contenuti, pur muovendo dalla condivisione degli obiettivi – contenimento della spesa corrente e incentivazione dell’autonomia organizzativa delle singole scuole – non mancava davvero.
La questione degli ordinamenti. Ma è sui cicli che si misura appieno la contraddizione tra dialettica politica e autonomia di proposta. Su questo oggetto è molto
istruttivo esaminare il percorso che ha condotto al provvedimento di legge infine approvato dal governo. Colpisce, innanzi tutto, la parabola involutiva che caratterizza, sotto il profilo dell’elaborazione progettuale e del respiro riformatore, il passaggio dalle proposte della commissione Bertagna – il gruppo di saggi cui la Moratti aveva affidato il compito di produrre un’ipotesi complessiva di revisione della legge 30/2001 (riforma Berlinguer-De Mauro) – al primo disegno di legge, respinto dal Consiglio dei ministri a metà gennaio e
da questo al disegno di legge di delega definitivamente avallato dal governo. Il documento finale del gruppo di lavoro, pur senza entrare ora nel dettaglio delle proposte specifiche di articolazione dei vari segmenti di scuola, ha il merito di centrare con grande forza e rigore argomentativo il punto nevralgico della debolezza del nostro sistema e di indicare al decisore politico la strada per porvi rimedio: ciò che manca in Italia è un percorso di formazione professionale efficace e solido, di pari prestigio rispetto alla filiera scolastica
e confrontabile con le migliori tradizioni tecnico-professionali europee per capacità di elaborare didattiche fondate sull’esperienza concreta del fare, ma non per questo subalterne o banalmente adattive; un percorso che costituisca un’alternativa vera e attraente rispetto alla scuola; non scelta residuale quindi o ultima spiaggia prima della strada, come in molti casi è ora, ma vera opzione educativa, che dopo la licenza media dia vita ad una pluralità di esperienze le quali, anche attraverso l’alternanza con il lavoro e
l’apprendistato, si aprano verso l’alto alla formazione superiore «politecnica», tanto sviluppata oltralpe quanto estranea alla nostra tradizione.
La convinzione che la «seconda via» fosse da costruire ex novo portava gli estensori della proposta ad immaginare più percorsi alternativi alla scuola dopo la licenza media, la cui pari dignità rispetto al canale liceale fosse garantita, innanzi tutto, dalla pari durata. Di qui l’idea di configurare
itinerari professionalizzanti differenziati ma tutti potenzialmente estensibili ai quattro anni e di ridurre di un anno l’opzione scolastica, portando il liceo da quinquennale a quadriennale e immaginando contestualmente una riorganizzazione del monte ore tale da recuperare, anche se non del tutto, l’annualità perduta. Ancora nel senso di una sostanziale equiparazione dei due canali andava l’ipotesi di rendere accessibili, al termine dei due percorsi di istruzione e formazione secondaria, sia l’università sia la filiera politecnica,
spostando su queste istituzioni l’onere di valutare i requisiti di conoscenze, abilità, competenze per poterle frequentare. La verifica in entrata da parte del sistema della formazione superiore – universitaria o professionale che fosse – avrebbe ottenuto tra l’altro di depotenziare l’effetto omologante del valore legale del titolo di studio e probabilmente prodotto reazioni positive in termini di perseguimento della qualità e dell’efficacia dei processi di apprendimento anche nelle scuole e nelle sedi di formazione secondaria.
Coerentemente con la scelta di fondo, la vexata quaestio del luogo di assolvimento dell’obbligo scolastico perdeva di significato: l’obiettivo del sistema sarebbe stato infatti quello di garantire a tutti i ragazzi il diritto-dovere di frequentare per dodici anni un’attività «di istruzione e/o
formazione». In uno scenario nel quale la formazione professionale avesse acquisito un prestigio comparabile a quello del canale scolastico, continuare a porsi il problema di tenere il più possibile i ragazzi nella scuola, a qualunque costo, pur di evitare di vederli troppo presto agganciati ad un’opzione di serie B non avrebbe più avuto senso, come già oggi non ha senso nella maggior parte dei paesi europei.
Sotto questo profilo, la proposta della commissione Bertagna, se guardata con attenzione, non si discostava poi tanto dalla prima bozza Berlinguer, là dove anch’essa poneva (ma dopo i quindici anni e non dopo i quattordici) la scelta fra il liceo e una formazione professionale triennale. Entrambe le ipotesi prevedevano inoltre l’alternativa o il mix
tra formazione vera e propria, formazione in alternanza e apprendistato. La differenza sostanziale fra le due proposte stava nell’approccio. Mentre Berlinguer faceva i conti, ancora a Costituzione invariata, con un sistema asimmetrico, che vedeva sempre ben salda l’attribuzione allo Stato dell’istruzione professionale e le Regioni programmatrici solo dell’offerta corsuale della formazione professionale (4% dei giovani fra i 14 e i 18 anni), Bertagna può
operare dopo la riforma del titolo V della Carta costituzionale che, pure fra mille contraddizioni, unifica i due tronconi dell’istruzione e della formazione professionale sotto la competenza esclusiva delle Regioni. I risultati deludenti del nuovo apprendistato, introdotto dalla «legge Treu», e il mancato decollo dell’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (Ifts), varata da Berlinguer nel 1999 come via italiana al Polytéchnique, inducevano la commissione insediata dalla Moratti ad osare di più
e ad immaginare non una sistemazione e razionalizzazione dell’esistente, come in fondo, con pragmatismo, aveva tentato di fare Berlinguer, ma un sistema radicalmente nuovo, tutto da impiantare e su cui concentrare grandi energie culturali e ingenti risorse materiali.
Il documento Bertagna doveva in teoria essere presentato agli Stati generali della scuola alla fine di dicembre del 2001. Come accade in questi casi, il suo contenuto trapela qualche settimana prima e suscita subito reazioni vivaci, benché ancora in assenza del testo integrale. Finalmente, agli Stati generali del 19 dicembre, circola l’edizione
definitiva, con l’imprimatur dell’intera commissione. Ma, attenzione, non del ministro. Appare subito chiaro, fin dalla presentazione, che la Moratti intende usare il documento come un ballon d’essai, senza compromettersi su nulla prima di avere ponderato reazioni e conseguenze. La cautela sembrerebbe politicamente accorta, ma ben presto si rivela per quello che è: una dimostrazione di debolezza. Proprio nel momento in cui ci si aspetta che la proposta
Bertagna diventi la proposta Moratti, non solo ciò non accade, ma quel testo diventa semplicemente «un» contributo, seppure autorevole, su cui discutere, una base per trattare. Ma trattare con chi?
Per paradosso, la presa di distanza non protegge il ministro né dal dissenso del mondo della scuola, né dagli strali dell’opposizione, che ha tutto l’interesse ad attaccare il responsabile politico e nessuno a prendersela con Bertagna; ma nello stesso tempo non essere titolare di una proposta forte lo espone a qualunque veto interno della
maggioranza e dei colleghi di governo. Il ragionamento è il seguente: «se sei tu la prima a non sottoscrivere le proposte avanzate dal tuo gruppo di lavoro, ne deduco che esse saranno passibili in ogni loro parte di essere corrette, emendate, anche profondamente cambiate».
Ai primi di gennaio la Moratti porta in Consiglio dei ministri un progetto di legge, già molto più conservativo rispetto alle indicazioni della proposta Bertagna. Nonostante l’articolato, perso per strada il tratto più innovatore della elaborazione compiuta dalla commissione, spacci per riforma la fotografia degli ordinamenti attuali (cinque anni
di elementari più tre di medie; poi licei o istruzione e formazione professionale), appena ritoccata riguardo all’obbligo – anzi: al diritto-dovere – e alla regionalizzazione dell’istruzione professionale, il disegno di legge incontra il fuoco di sbarramento dei centristi cattolici, preoccupati da un lato per le scuole private, che, con l’anticipo di iscrizione di un anno alle scuole dell’infanzia e alle elementari, perderebbero l’esclusiva delle «primine», dall’altro per le scuole medie inferiori, la cui lobby
ha subito drizzato le orecchie e storto il naso dinanzi alla prevista suddivisione della scuola di base in bienni, quasi fosse preparatoria di una non lontana fusione dei due segmenti, elementari e secondaria di I grado, secondo la linea tracciata a suo tempo da Berlinguer. Di traverso si mettono poi anche Tremonti, per questioni di copertura finanziaria, e la Lega, rilevando lo scarso tasso devolutivo del provvedimento. Dal progetto di legge respinto l’11 gennaio al disegno di legge di delega approvato, sempre dal Consiglio dei ministri, il
1o
febbraio il peggioramento qualitativo è netto. Sparisce la scansione in bienni della scuola di base, che viene così restituita, come nel gioco dell’oca, alla sua esatta configurazione di partenza, ossia quella vigente; si attenua l’anticipo dell’età scolare; scompare il contributo delle imprese per la realizzazione di percorsi di alternanza; ma ciò che fa la vera differenza in peius è lo strumento normativo scelto, su esplicita pressione del ministro Tremonti: la delega al Governo. Essa, infatti, per un verso sottrae al dibattito parlamentare la discussione sull’architettura e sui contenuti dei nuovi ordinamenti, per l’altro sospende troppo a lungo il processo attuativo della riforma, fissando a due anni dopo l’approvazione del Parlamento la scadenza entro cui l’esecutivo deve emanare i decreti. Se si tiene conto del fatto che soltanto successivamente le Regioni potranno fare la loro parte –
e si tratterà non solo di esercitare potestà regolamentare, ma, nelle materie di competenza esclusiva e concorrente, anche di legiferare – è realismo temere che la riforma del sistema formativo non veda la luce neanche in questa legislatura.
Dinanzi a questo iter accidentato e contraddittorio, quali praterie si sarebbero spalancate all’iniziativa politica di un’opposizione capace di guardare lontano, salda nell’unità di un disegno riformatore originale e coerente, forte delle sue convinzioni e quindi severa e determinata nel rilevare le contraddizioni di un avversario che da sei mesi in qua non fa due giorni di fila la stessa proposta! La scelta è stata invece quella di sparare ad alzo zero sul rapporto Bertagna. E si è rivelata un disastro: 1) ha impedito di mettere in luce lo
scarto propositivo fra quel testo e l’articolato, abbuonando in tal modo al ministro la sua incapacità di tenere una posizione coerente; 2) ha schiacciato il dissenso su forme radicali e negative, allontanandolo pericolosamente dalla linea di un’opposizione di governo; 3) di conseguenza, sotto le macerie di una critica non selettiva, ha finito per seppellire anche l’elaborazione culturale maturata nel centrosinistra durante la scorsa legislatura, quando sembravano superate per sempre le obiezioni ideologiche alla parità scolastica,
all’articolazione della carriera docente, alla diversificazione dei percorsi di apprendimento fra istruzione e una formazione professionale rinnovata, alla competizione virtuosa fra singole scuole e alla loro valutazione. Mossa più accorta sarebbe stata quella di attaccare le soluzioni proposte dalla maggioranza utilizzando gli strumenti interpretativi e le ipotesi progettuali da essa stessa messi in campo.
Alla radice del problema
Argomenti, lo si è visto, non sarebbero mancati. Il più rilevante è il totale rovesciamento prospettico del disegno di legge rispetto al documento del gruppo di lavoro sul tema chiave della formazione. Mancando nell’articolato qualunque indicazione relativa al rinnovamento del canale professionale – cardine della proposta
della commissione – la soluzione adottata di considerare la formazione che c’è, come opzione di pari dignità rispetto al canale scolastico è, più che una contraddizione, un vero e proprio inganno (3)
. Appare intuitivo, infatti, che non basta dire che il canale dell’istruzione professionale ha pari dignità rispetto alla scuola perché ciò sia vero. Allo stato attuale, il sistema professionale rivolto al segmento post-obbligo (istruzione statale e formazione regionale di primo livello) è disastroso, come dimostrano da un lato la percentuale altissima di respinti in prima e seconda classe degli istituti e dall’altro l’irrilevanza quantitativa dei corsi regionali. Il risultato è che una percentuale intorno al 30%
di giovani dopo i quindici anni è fuori da qualunque percorso educativo. Limitarsi ad estendere l’obbligo ai 18 anni non basta. Senza cambiare in radice il canale professionale, si produrrà anzi l’effetto devastante di ridurre in modo definitivo l’intera filiera a quello che già oggi in parte è meno un’opportunità formativa che un contenitore sociale, rivolto alla parte culturalmente ed economicamente più debole del mondo giovanile e mirato più a «controllare» i ragazzi che a qualificarli.
Il riscatto del settore passa, come era stato bene individuato nel rapporto Bertagna, per un ripensamento dei suoi contenuti formativi, oltre che per la sua riorganizzazione sul piano dell’offerta. Non c’è dubbio infatti che il cambiamento richieda la costruzione di un canale diffuso sul territorio, saldamente strutturato negli ordinamenti, certo
nei soggetti che lo devono promuovere, omogeneo agli standard comunitari per le qualifiche che offre e, soprattutto, finanziato bene e con costanza; ma richiede anche che si affermi l’idea forte di un percorso educativo nuovo, fondato sul conoscere attraverso il fare e volto a far crescere nei giovani che lo scelgono l’attitudine ad apprendere. Così concepita, la «seconda via» potrebbe finalmente cessare di essere una «seconda scelta». La capacità di operare simulazioni, saper affrontare situazioni non standardizzate, trasporre
modelli di interpretazione e soluzione di un problema da un contesto a un altro sono infatti operazioni che implicano una dimensione riflessiva e astratta delle competenze professionali che le rende molto sofisticate e, soprattutto, passibili di progressivi e successivi arricchimenti. Da questo profilo, perderebbe di senso la contrapposizione tra carattere creativo e «alto» dell’istruzione liceale e carattere esecutivo e «basso» dell’istruzione professionale: il processo di apprendimento, concepito come «continuo» e aperto, sarebbe
infatti in tal modo ricondotto a unità, pur se declinato in modi e su oggetti diversi nella scuola e nella formazione. A sancire la pari dignità delle due strade, stava nell’indicazione del gruppo di lavoro la possibilità di accedere, dopo la qualifica o dopo la maturità, tanto all’università quanto alla formazione tecnica superiore, segmento peraltro tutto da inventare.
Di tutto questo non c’è più traccia nel disegno di legge di delega, né sotto l’aspetto dell’architettura né sotto quello dei contenuti culturali. È legittimo il sospetto che sia prevalsa alla fine una lettura ormai vecchia dei fabbisogni formativi del mondo del lavoro, legata alla creazione di profili fortemente gerarchizzati e a skills
professionali a basso contenuto di autonomia operativa. Comunque sia, il provvedimento rappresenta un passo indietro notevole rispetto alla elaborazione che l’ha preceduto: niente più parità temporale dei percorsi, niente più formazione tecnica superiore, niente più progettazione del secondo canale, nessun orientamento al governo su come dargli un’identità nuova.
E così il dibattito tornerà – e in parte è già tornato – ad agglutinarsi sulle due posizioni estreme di sempre, da una parte i sostenitori del «tutti a scuola», perché solo nella scuola si garantiscono pari opportunità di successo (a dispetto dell’evidenza che una scuola sempre più dequalificata non farà che riprodurre, alla lunga, la
diseguaglianze socioculturali di partenza) e dall’altra i propugnatori di un dual system puro e duro, che puntano su un percorso non scolastico dichiaratamente addestrativo, destinato ai sottufficiali e alla truppa. Entrambe posizioni che, a guardare bene, esprimono da angolazioni diverse lo stesso disprezzo per la cultura tecnico-professionale, sulla cui riqualificazione puntano invece i Paesi avanzati per vincere le sfide di una competizione nella quale solo a pochi sarà concesso il lusso di
lavorare senza conoscere, di eseguire senza pensare.
(1)
N. Bottani, A chi serve l’autonomia delle scuole?, «il Mulino», 1/2001, pp. 125 ss.
(2)
Ultimamente è lievemente calata, attestandosi, nel 2000, al 94,4%.
(3)
Non sono molti, nella sterminata massa di rapporti e surveys sulla formazione professionale prodotti da istituti di ricerca ed enti pubblici, gli studi capaci di cogliere la reale efficacia del settore in termini di Welfare. Esemplare fra questi, sotto il profilo del metodo, A. Luciano, Dieci anni di formazione professionle a Torino, «Osservatorio sul mondo giovanile», 2002, Comune di Torino, pp. 1-33.