Questo saggio di Giovanni Campana, che compare in settembre 2002 sul sito dell'ADi, è stato scritto prima dell'emanazione della bozza del decreto Moratti sulla sperimentazione e delle relative "Indicazioni" e "Raccomandazioni". Ad esse pertanto non si fa cenno.

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RIFORMA DEL CENTRODESTRA: DOVE VA LA SCUOLA?

di Giovanni Campana

 

1.  Riforma del centrosinistra e riforma del centrodestra: due visioni politico-pedagogiche a confronto

La delega chiesta dal governo con la proposta di riforma è molto ampia, sicché non è possibile sapere fino a che punto i documenti preparatori diano il quadro di quel che sarà. In ogni caso almeno alcuni orientamenti di fondo sia del testo proposto, sia della bozza Bertagna rappresentano certamente l’idea di scuola e di società (e di Stato) di questo governo. Su queste basi il quadro che segue propone non un’analisi puntuale della proposta di riforma del centrodestra, ma un tentativo di interpretazione politico-pedagogica sia della riforma Berlinguer che della riforma Moratti.

2. Rottura di continuità

Il disegno che emerge dal disegno di riforma del governo, visto anche alla luce dei documenti preparatori, si caratterizza in modo molto preciso come una scelta di rottura rispetto a una linea evolutiva che ha segnato ininterrottamente tutta la storia della Repubblica, soprattutto a partire dalla media unica del 1962.

Con l’introduzione della media unica la separazione, precedente al ‘62, tra la scuola finalizzata al lavoro, l’“Avviamento professionale”, e la vecchia scuola media, scuola dei colletti bianchi e della classe dirigente, veniva superata per costituire una scuola media unica, che cioè doveva unificare, integrare quello che prima doveva separare. Si può dire che, sotto l’urgenza della dirompente industrializzazione della nostra società, la scuola italiana, a livello della scuola media – come già aveva iniziato un secolo prima a livello della scuola elementare, invertiva la propria funzione tradizionale: da organo per la riproduzione delle differenze diveniva organo per l’integrazione sociale.  

3.  Una visione integrata: unità della persona, unità del sapere, integrazione della società

Ciò comportava una nuova visione culturale e politico-pedagogica, che fu, in effetti,  coerentemente assunta e perseguita: attività intellettuale e attività manuale, saperi “nobili” e saperi “volgari”, classi “alte” e classi “basse” si unificavano in una visione integrata che propugnava e perseguiva l’unità della persona, l’unità del sapere, l’integrazione sociale. L’unificazione della scuola era  portatrice di una logica unificante in tutte le dimensioni implicate: un’antropologia dell’integrazione della persona, del sapere, della società che divenne sempre più esplicita.

Ogni ulteriore passo della scuola nei decenni successivi – cominciando dalla fascia dell’obbligo, ma poi allargando tale visione anche al secondo grado - rappresentò un coerente avanzamento evolutivo in questa direzione. La legge 517/77, che introduceva in tutta la scuola dell’obbligo il principio della individualizzazione dell’azione didattica ponendo il diritto all’integrazione di tutte le diversità, compresa (primi in Europa) quella dell’handicap, rappresenta un vero e proprio manifesto di questa concezione fortemente unitaria: a diversità come statuto ordinario dello scolaro.

Che la scuola perseguisse unitariamente e inscindibilmente l’integrazione sociale e la crescita culturale della nazione diveniva di fatto un presupposto democratico prima ancora implicito che dichiarato.

4.  Convergenza di tutti i settori politici e della società

In questa concezione della scuola, perseguita con estrema tenacia dal vecchio centrosinistra e dalla sinistra, giocava una visione sociale sia cristiana e interclassista., interpretata dalla Democrazia Cristiana e dal “mondo cattolico”, sia di ispirazione socialista, condivisa e propugnata anche, con particolare tenacia, dall’opposizione comunista.  Si può dire che un simile modello realizzava la sostanziale convergenza di tutti i settori politici e della società.

5.  Tensione tra generalizzazione della formazione e aumento della qualità

Di pari passo con l’avanzamento della cosiddetta società postindustriale, la funzione di integrazione sociale della scuola si espandeva ulteriormente investendo anche il secondo grado. E maturava, d’altra parte, sempre  più forte la consapevolezza che nella società dell’informazione, della conoscenza, della comunicazione, la ricchezza di una nazione nel contesto della competizione globale sta ormai nella massima valorizzazione delle risorse intellettuali. Si faceva perciò sempre più forte ed esplicita la tensione tra l’esigenza di generalizzare la formazione, garantendo, per così dire, tutto a tutti, e l’esigenza di assicurare la qualità reale della formazione. La sfida della qualità rendeva sempre più evidente la necessità di una riforma della scuola.

L’idea della riforma - comunque posta con decisione  - fu essenzialmente centrata sull’esigenza di svecchiare e innovare: modernizzare. Quello che non era  sufficientemente a fuoco era il vero problema da affrontare: si trattava, infatti, non tanto di innovare, adeguare una scuola vecchia, ma risolvere una questione antica, ora posta in termini decisivi: aumentare la qualità aumentando anche la base sociale.

6.  Il centrosinistra di fronte alla sfida

Le due esigenze, infatti, sono necessariamente antagoniste perché in tutti i campi la qualità è favorita dalla selezione, mentre l’allargamento dell’accesso, cioè la quantità, tende a stemperare e deprimere la qualità. Il farsi carico di entrambe le esigenze è, più ancora che una ambiziosa scommessa storica, un imperativo irrinunciabile strettamente connesso con la natura stessa del centrosinistra e della sinistra. La valutazione che qui si propone è che la riforma Berlinguer non ha saputo vedere il problema nella sua nettezza e soprattutto nella sua centralità e dunque non ha saputo fare di quella sfida un’idea-forza, tanto che, nonostante la grande passione con cui la riforma è stata avviata, essa è risultata paradossalmente una riforma senz’anima.

E tuttavia, pur non esplicitando a sufficienza la scommessa storica che la riforma era chiamata a vincere, la scommessa era ugualmente assunta e con grande tenacia: da un lato risolvere il problema della qualità, dall’altro salvaguardare  ed aumentare l’integrazione sociale, invece che puntare alla qualità a prezzo di un aumento della selezione sociale.

7.  Centrodestra e  centrosinistra di fronte al problema

Alla sinistra si imputa tradizionalmente di sacrificare la qualità piuttosto che rinunciare all’obiettivo dell’integrazione sociale (questa sottovalutazione della qualità a favore dell’uguaglianza può essere a volte sospettata di rappresentare – ancor oggi -  un vizio ideologico egualitarista e più o meno velatamente statalista: lo Stato come livellatore delle diseguaglianze sociali)

Alla destra si imputa tradizionalmente di sacrificare l’obiettivo della maggiore integrazione sociale e dell’eguaglianza sostanziale pur di garantire non tanto la qualità (cosa che varrebbe per una destra liberale classica), ma la migliore fruizione delle opportunità formative da parte di chi è già favorito sul piano sociale. È la non dichiarata  ideologia interessata che va sotto il nome di “darwinismo sociale”.

8.    I due orientamenti a confronto: il piano pedagogico e il piano strutturale.

Sul piano pedagogico si potrebbero interpretare i due orientamenti, in termini certamente approssimativi, con le seguenti formule:

    a)   Sinistra (centrosinistra): “progressismo pedagogico”, cioè

  1. visione aperta dei saperi e delle loro intime interdipendenze, 

  2. centralità della didattica come via complessa per porre al centro l’apprendimento quale attività cognitiva fortemente legata alle diversità individuali, su cui l’azione del docente deve cercare di modellarsi;

    b) Destra (centrodestra):“serietà dello studio”; si può parlare forse di una visione di fondo

  1. di  tipo   essenzialmente  tradizionalista,    legata  alla   centralità   delle   discipline   anche nella loro precisa distinzione in discipline centrate sull’impegno intellettuale - in cui la scuola trova la sua identità propria - e attività di valore più generale per la crescita dell’individuo e meno essenziali dal punto di vista, per così dire, strettamente formativo-scolastico e

  2.   meno portata ad enfatizzare la didattica, in favore di una netta sottolineatura  dell’impegno individuale nello studio.

 Sul piano strutturale si può dire che:

  1. la riforma del  centrosinistra  presenta  il  chiaro  sforzo  di  introdurre un principio effettivo di flessibilità, cioè di dominare la complessità con soluzioni più “difficili”. Si tratta appunto dell’assunzione effettiva della scommessa “più qualità e, insieme, più integrazione sociale”. Progressismo pedagogico e flessibilità sono gli strumenti mediatori che a sinistra mirano a comporre le due esigenze antagoniste;

  2. il  centrodestra  introduce  invece  come  flessibilità  – o piuttosto in luogo della flessibilità – un principio, ben diverso, che si potrebbe definire di liberalizzazione: non è tanto la scuola che si flessibilizza, articolandosi in modo complesso per raggiungere le differenze ed integrarle, ma è il singolo che  è libero di andare a cercarsi la formazione che vuole: la destra, dunque,  non accetta la scommessa di salvare entrambi i corni del dilemma. Tende a stabilire vincoli essenziali e a porre in essere un sistema che offra quello che è necessario: per il resto non contrasta la selezione sociale. 

9.  Miti pedagogici della sinistra

Proprio i punti di forza della visione pedagogica che sta alla base della riforma Berlinguer sono anche i suoi punti di debolezza. I principi di unità della persona, unità del sapere, integrazione sociale e la visione laica di una scuola che fa educazione mediante il sapere, possono diventare “miti pedagogici”, ricette a tasso ideologico più o meno elevato, cui si attribuisce la capacità, se applicate, di risolvere precisamente sia il problema della qualità - raggiungendo il sapere in modo appropriato (anzi, magari “nel modo giusto”).

Il documento del ’98 sui “Saperi essenziali”, che dichiarava gli orientamenti pedagogici ispiratori della futura riforma Berlinguer, centrato in modo molto forte sull’idea dell’integrazione dell’individuo e dell’integrazione dei saperi, è un buon esempio di questa nefasta tendenza della sinistra all’astrattezza ideologizzante.

“grande importanza va attribuita all’interazione fra i linguaggi della mente e i linguaggi del corpo, che abbatte la barriera tra processi cognitivi ed emozioni…ne consegue un’impostazione della didattica volta a favorire l’integrazione tra le diverse matrici di cui si compone l’esperienza quotidiana, riconoscendo pari dignità al segno  di  scrittura, all’immagine, al suono,  al  colore, all’animazione”.

Questa  visione  integrata “deve guidare verso la costruzione di una scuola che, nel porre su un  piano di  pari  dignità i diversi saperi, in quanto tutti prodotti dalla mente umana (sic!), superi le tradizionali partizioni disciplinari” in funzione di “un approccio multidisciplinare integrato”.

Inevitabile chiedersi quanto possa essere disorientante questa affermazione di “pari dignità”, quando, come è a tutti evidente, l’effettiva integrazione degli individui nel sistema sociale è affidata in modo assolutamente preponderante ai processi di decodifica fine, centrati essenzialmente sulla lingua scritta, e non sull’immagine, sul suono o sull’animazione, linguaggi che solo in ambiti professionali specifici acquistano la dignità del livello secondario fine. Si ha quasi l’impressione che si voglia estendere a tutto l’arco della formazione scolastica la visione fortemente integrata dei saperi e dell’individuo propugnata nella scuola materna e nella scuola elementare. Come pensare di fondare su una tale visione di pari dignità la conquista della qualità della formazione quale è necessaria nella società di oggi?

Una precedente “Sintesi dei lavori” del famoso “Comitato dei 44 saggi”, del maggio ’97, sancendo solennemente tale visione di forte integrazione della persona e dei saperi in un quadro di attività cooperative, mostra quanto essa possa arrivare ad essere intesa e proposta in termini irrealistici – o mitici o forse ideologizzanti:

“Compito prioritario della nuova scuola è la creazione di un  ambiente  idoneo  all’apprendimento, che abbandoni (sic!)  la  sequenza tradizionale lezione/studio individuale/interrogazione  per la realizzazione di una comunità di docenti e discenti volti all’approfondimento e all’analisi collettiva degli oggetti di studio per la costruzione di un sapere condiviso”.

Si noti: si dice “abbandoni”, non, ad esempio, “integri”. Come si può pensare alla qualità formativa di una scuola solo seminariale, solo cooperativa? perché il bambino o ragazzo non deve anche studiare (e bene!) la cellula o la Rivoluzione Francese o Hegel o i pronomi possessivi e avere la soddisfazione di essere interrogato? Ma, soprattutto, di dove deriva al ministero l’autorità di proibire (!) l’interrogazione e lo studio individuale, nonché la famigerata “lezione frontale”? Una scuola senza studio individuale sarebbe, ovviamente, una sciagura innominabile.

E’ il tentativo di piegare il corpo docente a usare i “metodi giusti”… Si affaccia almeno il dubbio se non vi siano avvisaglie di una qualche “pedagogia di Stato” o, addirittura, di una didattica di Stato.

10.  Aspetti strutturali: innovazione, integrazione, flessibilità

Sul piano dell’innovazione  la riforma Berlinguer è caratterizzata dal principio di flessibilità, che ha lo scopo di rendere possibili due condizioni che un sistema rigido non potrebbe soddisfare: unitarietà e differenziazione, creare una scuola tanto più in grado di differenziarsi al suo interno quanto più è mantenuta unitaria. Il biennio unico dopo la primaria di sette anni ha, ad esempio, questa ispirazione sociale: unitario, ma in grado di differenziarsi. Il principio di flessibilità permette alle scuole di articolare la formazione in funzione di un più adeguato adattamento al contesto socio- economico di riferimento, come pure, al proprio interno, alle diverse situazioni degli studenti.

Ma si tratta in parte di forzature. Lo stesso biennio unico, ad esempio, porta all’interno della scuola in modo forse sbrigativo anche il carico dell’impegno di socializzazione di quei ragazzi dal difficile adattamento scolastico, che in un percorso di formazione professionale arricchito di elementi di rinforzo dell’istruzione di base avrebbero probabilmente maggiori possibilità di autorealizzazione personale, mentre in un contesto prettamente scolastico rischiano di rendere la scuola meno buona per tutti, senza ridurre, ma anzi aumentando il proprio disadattamento. Il problema è molto complesso, ma certamente non basta porre l’estensione dell’obbligo scolastico per estendere con esso anche l’integrazione sociale.

La flessibilità organizzativa e didattica è elemento mediatore spesso addirittura acrobatico e mal digerito dal corpo docente (orario modulare, ecc.) e che mostra punte addirittura improponibili, come la proposta di soluzione del problema dell’ ”onda anomala” (far saltare avanti di un anno un quarto degli alunni delle varie classi elementari, ripetendo l’operazione per quattro anni, in modo da evitare il raddoppio della popolazione scolastica nel primo anno del biennio al momento di messa a regime della riforma).

E tuttavia alla riforma Berlinguer va dato atto di aver davvero voluto avviare l’unificazione di scuola  elementare e scuola media, di avere posto grande attenzione al problema della formazione professionale, ecc.:  di aver davvero tentato di garantire l’eguaglianza sostanziale di tutti i ragazzi di fronte al diritto alla formazione. E di aver creduto davvero nel principio di flessibilità – in funzione dell’innovazione e dell’aderenza alle esigenze del territorio, come della maggiore integrazione di tutti - e nell’autonomia della scuola che ne è   la condizione. Ma si può temere che nell’insieme la qualità potesse risultare in diversi punti del sistema poco o tanto sacrificata.

11.  Riforma del centrodestra: tradizionalismo pedagogico e liberalizzazione

Quanto alla “Riforma Moratti” non mancano nella legge delega e nei documenti preparatori elementi per rilevare la sensibilità e l’orientamento pedagogico  e istituzionale del governo. Sta maturando nella sensibilità educativa della nostra società, insieme a tanto permessivismo, un tratto trasversale, che si può definire genericamente “tradizionalista”, costituito dalla semplice e netta affermazione della serietà dello studio e dell’esaltazione dell’impegno individuale come valori da porre nuovamente al centro; una sensibilità che attraversa grosso modo la generalità delle famiglie italiane e che spesso considera con fastidio, come complicazioni giustificatorie e falsificanti, le attenzioni ai condizionamenti socioambientali. Ma l’approccio “tradizionalista” – ma si dovrà valutare se non vi sia il rischio di innescare una sensibilità propriamente “reazionaria” - consiste nella reintroduzione della netta distinzione e separazione tra saperi intellettuali e attività espressive, motorie, ecc., tanto che queste sarebbero addirittura facoltative (dopo la quarta elementare). Il principio di unità della persona è, nei fatti, semplicemente abbandonato insieme a quello di unità del sapere  inteso come unità dell’esperienza di apprendimento nel contesto scuola come luogo unitario.

La proposta (bozza Bertagna) prevede infatti tre “percorsi”:

“Il primo percorso è quello di responsabilità della famiglia e delle altre istituzioni sociali. Con appositi incentivi ed interventi, si tratta di creare le occasioni perché genitori, mass media, attori sociali, imprese, enti locai, centri culturali, imprenditori del tempo libero, ecc. possono diventare risorsa culturale ed educativa per gli allievi e si facciano sempre più carico della loro maturazione. Molte dimensioni (…) possono benissimo in molti casi, attraverso progetti educativi integrati, essere acquisite dagli allievi anche in ambienti extrascolastici. La scuola, in questo senso, certifica il raggiungimento di risultati finali ed esonera, per gi aspetti che lo consentano, dai percorsi scolastici facoltativi, ritenuti necessari per raggiungerli”. Tutto ciò dalla quinta classe elementare!  

Il secondo percorso – dunque, inaspettatamente, al secondo posto! – è quello “ obbligatorio per tutti”, a proposito del quale si è parlato di 25 ore di curricolo obbligatorio per tutti gli ordini di scuola. Solo gli apprendimenti a forte “caratura critico-formativa” sarebbero obbligatori per tutti! La separazione tra i saperi intellettuali e le altre attività, sia esperienziali-orientative, sia “ informative” (la “funzione dell’extrascuola” sarebbe “più informativa”) è assolutamente netta, al punto che tutti gli aspetti che non attengono ai saperi critico/formali cessano di essere essenziali e obbligatori dopo la quarta elementare. Dopo di che dell’interesse formativo globale del bambino e del ragazzo non risponde più lo Stato, ma solo la coscienza educativa e le disponibilità logistiche ed economiche delle singole famiglie!

Il terzo percorso, infatti, è 

“quello facoltativo, da 0 a 300 ore. Le scuole comprensive e le reti di scuole sono obbligate ad istituirlo nel territorio, ma gli allievi  e le famiglie decidono se, quando, come e in quale scuola lo vogliono fruire, anche tenendo conto di una negoziazione  educativa da loro stipulata con i docenti dei loro figli”. 

Il testo parla davvero da sé: le famiglie fanno quello che vogliono: possono dare o non dare ai loro figli, a partire dai dieci anni, opportunità di attività motorie e sportive, di educazione al canto e al suono, di scoperta delle loro potenzialità grafiche, espressive, creative. E le scuole, se vorranno avere un buon numero di bambini-clienti e ragazzi-clienti si adatteranno a fornire quanto è più richiesto. Si può scommettere che, ad esempio, le attività sportive scolastiche, tradizionale baluardo contro una stupida e a volte spietata concezione esclusivamente agonistica dello sport, perderanno il loro formidabile primato educativo in questo campo per adeguarsi all’aria che tira… La scuola, per la verità, scompare del tutto: non con la scuola, infatti, ma con l’insegnante “contratta” la famiglia per ottenere le attività che preferisce nella scuola che preferisce. La scuola è un posto dove insegnanti contrattano con i genitori facendo la loro offerta! Quanto al numero di 300 ore, definite laboratori,   con la riforma ci si fanno stare dentro

“Informatica, Attività motorie e sportive, Attività espressive,(musica, disegno, pittura, teatro fotografia, cinema…), Lingue, Attività di progettazione, (di artefatti manuali e simbolici, di interventi di azione sociale, di soluzioni produttive e gestionali, di stage aziendali, del proprio progetto di vita, professionale e no, ecc.), Recupero e sviluppo degli apprendimenti”.

12.  Scuola ed extrascuola: la questione dell’educazione

Naturalmente non si sa fino a che punto la riforma si spingerà sulla strada sopra indicata, ma il messaggio è chiaro: la famiglia sostituisce la scuola con qualunque altra “agenzia”. L’idea che la scuola può e deve propugnare una dimensione educativa di cui si assume la responsabilità, avendo come interlocutori i genitori e con il vincolo che si tratti, quanto ai valori, di “educazione attraverso l’istruzione”, non c’è ed è sconfessata dalla stessa ispirazione generale.

Il problema del rapporto scuola-extrascuola si fa delicato all’articolo 2, comma 1 a) e b) della legge delega:  

  “a) è promosso l’apprendimento in tutto l’arco della vita e sono assicurate a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze…;

b) sono favorite la formazione spirituale e morale, lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea”.

Qual è la distinzione tra promuovere e favorire? Si deve supporre che una differenza vi sia, soprattutto se si considera che il testo respinto dal consiglio dei ministri venti giorni prima non accennava in alcun modo a questa distinzione. Sembra logico dover intendere che

  1. “è promosso” significa che lo Stato se ne fa carico, oppure riconosce chi lo faccia al posto suo. Questo è detto per l’apprendimento.

  2. ”sono favorite” significa che lo Stato non se ne fa carico, ma si limita a “facilitare” chi lo fa. Questo è detto per  1) la formazione a) spirituale e b) morale; 2)lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza a) alla comunità locale, b) alla comunità nazionale e c) alla civiltà europea.

E’ lecito dunque chiedersi: chi oggi pratichi la “formazione spirituale e morale”, così da essere favorito in questa azione che lo Stato non promuove, ma favorisce? e come mai lo Stato non “promuove” la “formazione spirituale e morale”?

Lo Stato, poi, favorisce anche la “coscienza storica e di ‘appartenenza’ alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea”. Chi potrebbe coltivare il senso di appartenenza alla comunità locale sono, ovviamente, in primo luogo  i Comuni e le Regioni. Per il senso di appartenenza   alla comunità nazionale perché non tornare al concetto di “promozione” da parte dello Stato, cioè della scuola stessa - altrimenti non è chiaro chi potrebbe occuparsene…e per la civiltà europea? – E’ inevitabile ironizzare sulla distinzione posta e sulle sue conseguenze. Non sono cavilli: il decreto fu bocciato in un primo momento – hanno spiccato in questa azione la componente cattolica e quella leghista del governo -  proprio per poter introdurre tale distinzione: vi sarà ben stato un motivo serio. Qui uno ha il diritto di vedere adombrata l’idea di una spartizione dell’aspetto educativo della formazione, concepito come distinto dal sapere, tra soggetti diversi dallo Stato. Lo Stato, evidentemente, non deve fare educazione esso stesso. La sfiducia nello Stato è totale (si può forse dire che è simmetrica ad una certa esaltazione della funzione educativa della scuola dello Stato, cui altri – anche se, propriamente, non forze politiche organizzate - vorrebbero assegnare compiti di indottrinamento ispirati ad una certa retorica democratica e antifascista…i guasti di una scuola ideologica sarebbero ugualmente micidiali).

I veri soggetti dell’educazione nell’insieme di quell’ampio contesto istituzionale e sociale che è il sistema formativo – e, in particolare, nella scuola, che ha in esso una funzione decisiva - sono dunque: la famiglia; la Chiesa Cattolica… e – si dovrebbe presumere - altri soggetti che si occupino di formazione spirituale e morale…; il Comune e la Regione e altri che si occupino della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale; infine, in linea di principio, altri da identificare, che si qualifichino per funzioni specifiche in ordine alla formazione alla coscienza nazionale ed europea…(tra cui, ovviamente, la scuola stessa, ma – a rigore - non nel senso di “promuovere” tale coscienza).

Va osservato che, nonostante questa distinzione tra promuovere e favorire, il Ministero, nel rendere noto su internet il testo della legge delega, ne sottolinea i punti chiave in una breve presentazione, dichiarando subito nelle prime righe che nel testo di legge approvato “sono ben individuabili i valori che ispirano la riforma nei quali questo governo si riconosce: libertà di scelta educativa della famiglia, formazione spirituale e morale, sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale e nazionale ed alla civiltà europea”.

Ma allora, se questi sono i valori, perché lo Stato non li promuove? C’è da chiedersi se, per questo governo, lo Stato, in campo educativo, non debba essere, se non neutrale – tant’è vero che propugna valori –  tuttavia neutro, cioè non abilitato a fare educazione morale  (cosa debba intendersi in generale, cioè al di fuori dello specifico ambito religioso,  per formazione spirituale, che non sia già compreso nel concetto di formazione morale, è questione molto ardua e non suscettibile di soluzioni unitarie dopo la fine del Romanticismo). Deve essere questo il modo di questo governo di intendere la laicità dello Stato: esso si limita a favorire i valori spirituali e morali, ma non è abilitato a svolgere esso stesso un’azione formativa in questi campi. Ciò non esclude – si deve supporre – che i docenti possano invece svolgere tale azione, anzi essi devono evidentemente essere favoriti, se la svolgono…sempre riconoscendo il primato dei genitori. Saranno necessari approfonditi chiarimenti su tutto questo, fermo restando che su una legge non si fanno propriamente chiarimenti, poiché una legge dice ciò che dice… La dottrina giuridica ci darà qualche lume su questa distinzione tra promuovere e favorire. Sarà interessante soprattutto seguire i passi politici e legislativi susseguenti.

13.  Conclusioni: lo smontaggio della scuola

Molte questioni specifiche meriterebbero, naturalmente, di essere affrontate: la liberalizzazione dell’anticipo dell’età di iscrizione alla scuola materna ed elementare, il ritorno alla netta separazione tra scuola elementare e scuola media, la questione della formazione professionale ecc.

Ma il problema dei problemi è che sembra sia introdotto nella scuola, come in generale nelle prospettive future della società italiana, a partire dalle istituzioni, un germe disgregatore che smonta ogni struttura, ricostituendo e riaggregando i nessi sociali attorno ad un principio di interessi e possibilità individuali e perciò, in definitiva, di classe.

In più di mezzo secolo di storia della Repubblica la scuola si è evoluta secondo la direzione di coniugare – in modo progressivamente sempre più avanzato: prima a livello della scuola elementare, poi a livello della scuola media, poi, in modo ancora molto problematico e complesso, a livello del secondo grado – la funzione culturale con la funzione di integrazione sociale della scuola,  trasformandola passo passo da “organo per la riproduzione delle differenze sociali” a “organo per l’integrazione delle differenze sociali”. Si tratta di un processo evolutivo di inversione della tradizionale tendenza spontanea di ogni società a riprodurre e conservare le identità e le posizioni consolidate e dunque le differenze e, precisamente, le differenze di classe.

Nella necessità di riprodursi incessantemente come sistema complesso la società arriva di volta in volta faticosamente a soluzioni sempre più complesse e perciò improbabili - cioè sempre più lontane dagli assestamenti inerziali e spontanei - le quali vengono da quel momento acquisite  e acquistano valore di struttura portante, divenendo così probabili. Ciò che era improbabile o addirittura assurdo – ad esempio: la donna lavora e guadagna come un uomo e non gli deve obbedienza, i non nobili sono come i nobili, ecc. - viene ad un certo punto tentato, finché arriva ad essere possibile, infine diviene ovvio e strutturale. Tutta la nostra società vive in una condizione di estrema lontananza da un possibile equilibrio "naturale", diretto, spontaneo, reggendosi su realizzazioni un tempo improbabili  o addirittura inconcepibili, divenute ora ordinarie ed essenziali, pur essendo estremamente complesse. L'istruzione per tutti - non c'è per noi cosa più ovvia - fu per millenni quanto di più inconcepibile si potesse immaginare. Quando, duecentocinquant'anni fa, in Inghilterra, si cominciò a percepire che l'istruzione per tutti poteva divenire una prospettiva reale, si temette la catastrofe: troppo lontana una cosa del genere dall'equilibrio naturale; la rottura dell'equilibrio sarebbe stata fatale. Ma l'improbabile è divenuto non solo possibile, ma ordinario, irrinunciabile, obbligatorio. Ciò non toglie che l'istruzione - oggi la "formazione", che è certamente qualcosa di più - sia una funzione sociale complessa che tuttora rivela nei suoi non trascurabili fallimenti il suo carattere problematico, appunto improbabile.

La riforma Berlinguer, con le sue visibili difficoltà ed i suoi limiti, apriva la fase di un ulteriore  passo avanti in questo processo di straordinaria portata, imposto dall’intensità con cui si pone il problema della formazione nella nuova società complessa: rendere probabile, possibile e, infine, strutturale l’improbabile saldatura tra più qualità e più integrazione sociale.

C’è ora, invece, motivo di temere che si stia per imboccare la strada inversa: il ritorno alla scuola come organo di riproduzione delle differenze sociali. Ciò darà un senso di libertà a coloro che ritengono frenata la crescita dei loro figli da una scuola che voglia coniugare formazione culturale e integrazione sociale. Che non sia quel senso di libertà che si prova nel liberare i propri egoismi, una libertà che consiste nello smontare ciò che rende complesso e difficile il cammino – il proprio - verso l’alto? È giusto pensare, in realtà, che vi è qualcosa di irreversibile nell’evoluzione sociale verso la maggiore integrazione, verso la maggiore uguaglianza, solidarietà, libertà di autorealizzazione e perciò, naturalmente, verso una scuola sempre più inclusiva e sempre meno socialmente selettiva. Ma sappiamo che gli arretramenti possono avvenire e avvengono. Si tratta di vedere la nostra società sia volta a resistere a questa visione, quanto, cioè, la costruzione di una società che sia insieme più avanzata nel sapere e nel fare come pure, indivisibilmente, più integrata socialmente e nei valori di riferimento, sia sentita davvero come un imprescindibile valore sociale, morale, di civiltà.